Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19216 del 17/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 17/07/2019, (ud. 30/05/2019, dep. 17/07/2019), n.19216

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –

Dott. DI NAPOLI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 26672 del ruolo generale dell’anno 2017,

proposto da:

G.A. Operations s.p.a. – già Simint s.p.a. – in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura

speciale a margine del ricorso, dall’avv.to Alessandro Fruscione,

elettivamente domiciliata presso lo studio tributario Santacroce

& Associati, in Roma Via Giambattista Vico n. 22;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Liguria n. 521/05/2017, depositata il 10 aprile

2017, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30 maggio 2019 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati

Viscido di Nocera.

Fatto

RILEVATO

che:

– con sentenza n. 521/05/2017, depositata il 10 aprile 2017, e non notificata, la Commissione tributaria regionale della Liguria, (hinc: “CTR”), accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di G.A. Operations s.p.a. – già Simint s.p.a. – in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza n. 613/02/2015 della Commissione tributaria provinciale di La Spezia (hinc: “CTP”) che aveva accolto il ricorso della suddetta società avverso una serie di avvisi di accertamenti – e relativi atti di contestazione delle sanzioni – con i quali l’Ufficio delle dogane di Modena aveva rettificato il valore doganale della merce- riproducente il logo del marchio “(OMISSIS)” – importata dalla medesima società, nel 2008, da fabbricanti extracomunitari, includendovi, ai sensi del Reg. CEE 12 ottobre 1992, n. 2913, art. 32, comma 1, lett. c) e del Reg. CEE 2 luglio 1993, n. 2454, art. 157, par. 2, i diritti di licenza che la G.A. Operations s.p.a. corrispondeva alla licenziante (OMISSIS) s.p.a., titolare del marchio;

– in punto di diritto, la CTR osservava che: 1) dai contratti di licenza conclusi tra la licenziataria Simint s.p.a. e la licenziante (OMISSIS) s.p.a. si evinceva un controllo da parte di quest’ultima non solo sulla qualità dei prodotti realizzati ma su tutto il ciclo di produzione attraverso la necessaria previa autorizzazione – sempre revocabile – della licenziataria alla scelta dei terzi produttori e punti vendita al dettaglio, la fornitura dei modelli, il controllo della fabbricazione e del confezionamento dei prodotti nonchè la periodica ispezione della contabilità della Iicenziataria; 2) stante il “penetrante potere di ingerenza” della licenziante sull’attività produttiva, sussistevano i presupposti per l’inclusione dei diritti di licenza nel valore doganale delle merci importate, concretando, in base al diritto unionale, il pagamento delle royalties “condizione di vendita”;

– avverso la sentenza della CTR, G.A. Operations s.p.a. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle dogane;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e dell’art. 380 – bis 1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1 – bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 e art. 36, dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, degli artt. 345 e 346 c.p.c. 118 disp. att. c.p.c. per avere la CTR fondato la propria decisione su una “motivazione apparente”, in quanto, stante la mancata esposizione in sentenza dei motivi di impugnazione originari della società nè di quelli di gravame proposti dall’Ufficio, non era possibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo;

– il motivo è infondato;

– va premesso che, secondo costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass., sez. un., n. 8053 del 2014; Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. cit.; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata). In particolare, questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016; da ultimo, Cass. n. 6084 del 2019);

– nella specie, dall’esame della sentenza impugnata, premessa la chiara evincibilità del thema decidendum del giudizio di appello concretantesi nella verifica dei presupposti – alla base della pretesa impositiva – per l’inclusione dei diritti di licenza nel valore in dogana delle merci importate, le argomentazioni della CTR in ordine alla esistenza di un “penetrante potere di ingerenza” della licenziante (OMISSIS) s.p.a. su tutto il ciclo produttivo (attraverso il controllo della scelta del terzo produttore, della lavorazione, della distribuzione e commercializzazione dei prodotti nonchè della contabilità della licenziataria) e, dunque, alla configurabilità, in base alla normativa unionale, del pagamento delle royalties come “condizione di vendita”, disvelano il ragionamento e le ragioni giuridiche poste a fondamento della decisione;

– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del Reg. CEE n. 2913 del 1992 (CDC), art. 32 e del Reg. CEE 2454 del 1993 (DAC), artt. 143, 157, 159, 160, anche in combinato con il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, per avere la CTR ritenuto erroneamente sussistenti i presupposti di legge per l’inclusione delle royalties nel valore doganale delle merci importate, ancorchè, nella fattispecie, non fosse ravvisabile quel “legame” tra licenziante e terzo produttore, necessario, in base alla normativa unionale, per la configurazione del pagamento dei diritti di licenza come “condizione di vendita” ai sensi degli artt. 157 e 160 DAC;

– il primo motivo è infondato;

– va premesso che la nozione coinvolta è quella del valore in dogana delle merci importate, che, di regola, è il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve le rettifiche da effettuare conformemente all’art. 32 di tale codice (Corte giust. 12 dicembre 2013, Christodoulou e a., causa C-116/12, punti 38, 44 e 50, nonchè 21 gennaio 2016, Stretinskis, causa C-430/14, punto 15). Esso deve comunque riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte giust. 20 dicembre 2017, causa C-529/16, Hamamatsu). Anche i diritti di licenza, allora, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico. Sicchè, qualora il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate non ne includa – come nella specie – il relativo importo, l’art. 32 del codice doganale comunitario (reg. n. 2913/92) stabilisce che al prezzo si addizionano “…c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare…”;

– il Reg. n. 2454 del 1993, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario, specifica questa regola. In generale, esso stabilisce che “…quando si determina il valore in dogana di merci importate in conformità delle disposizioni dell’art. 29 del codice (doganale) si deve aggiungere un corrispettivo o un diritto di licenza al prezzo effettivamente pagato o pagabile soltanto se tale pagamento: – si riferisce alle merci oggetto della valutazione, e – costituisce una condizione di vendita delle merci in causa” (art. 157, par. 2). Occorre dunque che ricorrano tre condizioni cumulative:

– in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare;

– in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare e,

– in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare. In particolare, con riguardo al caso in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d’importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, il regolamento di attuazione specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare “soltanto se: -il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione, -le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e – l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore (art. 159). Sempre in particolare, per il caso in cui l’acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo, il regolamento prescrive che “…le condizioni previste dall’art. 157, par. 2 si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento” (art. 160). La disciplina generale fissata dall’art. 157, par. 2, dunque, trova specificazione in quelle particolari, rispettivamente concernenti il caso in cui il diritto di licenza riguardi un marchio di fabbrica e quello in cui il corrispettivo del diritto debba essere versato ad un terzo. E le particolarità finiscono col contrassegnare, più di ogni altra, l’identificazione delle “condizioni di vendita delle merci in causa”,

che devono rispondere ai presupposti rispettivamente richiesti dinanzi richiamati – dagli artt. 159 e 160, in relazione alle ipotesi da essi contemplate;

– quanto alla configurabilità del versamento dei diritti di licenza come condizione di vendita della merce nè l’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale nè del Reg. n. 2454 del 1993, art. 157, par. 2, precisano cosa si debba intendere per “condizione di vendita” delle merci da valutare. A riempire la lacuna soccorre l’interpretazione che della disciplina ha fornito la Corte di giustizia con la sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Diisseldorf;

– nella detta sentenza, la Corte di giustizia, ha stabilito, facendo leva sul punto 12 del commento n. 3 del comitato del codice doganale (sezione del valore in dogana) relativo all’incidenza dei corrispettivi e dei diritti di licenza sul valore in dogana, che l’identificazione della condizione di vendita si traduce nella verifica se il venditore sia disposto, o no, a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza. In generale, dunque, il pagamento in questione è una “condizione di vendita” delle merci da valutare qualora, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore – o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere;

– occorre cioè, come ha chiarito la Corte di giustizia (in causa C173/15, punto 68), “verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente”;

– sul punto, l’allegato 23 delle DAC – Note interpretative in materia di valore in dogana all’art. 143, par. 1, lett. e) (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra), stabilisce che “si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda”. Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perchè è assunto per la sua rilevanza anche di fatto, dall’altro, su quello degli effetti, perchè ci si contenta dell’effetto di “orientamento” del soggetto controllato. Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene;

– utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento (OMISSIS), nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale (ormai parte dell’acquis communautaire, ossia del diritto materiale dell’Unione, con valore di soft law): queste indicazioni, ha precisato la Corte di giustizia in causa C-173/15, punto 45, “sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sè considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice”. Ebbene, il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti: – il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; – il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); – il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; – il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; – il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; – il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.

il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; – il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; – il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; – le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); – le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante;

– in materia, questa Corte (nn. 8473 del 2018; 25438 del 2018; 25437 del 2018; 24996 del 2018) ha affermato il condivisibile principio di diritto: “In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano importati dalla licenziataria, il corrispettivo dei diritti di licenza va aggiunto al valore di transazione, a norma del Reg. CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, art. 32, come attuato dal Reg. CEE della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, artt. 157, 159 e 160, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza”;

– nella specie, la CTR ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, avendo desunto – con un accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità – dall’analisi dei contratti di licenza intercorsi tra la licenziataria G.A. Operations e la licenziante (OMISSIS) s.p.a. la sussistenza di un “penetrante potere di ingerenza” della licenziante (OMISSIS) s.p.a. su tutto il ciclo produttivo (attraverso il controllo della scelta del terzo produttore, della lavorazione, della distribuzione e commercializzazione dei prodotti nonchè della contabilità della licenziataria) e, dunque, dei presupposti di legge per la configurabilità del versamento delle royalties come “condizione di vendita” con conseguente necessaria inclusione delle stesse nel valore doganale delle merci importate;

– con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. per non avere la CTR pronunciato in ordine alle censure riproposte dalla società contribuente nelle controdeduzioni in appello concernenti sia gli avvisi di rettifica (illegittima rideterminazione del valore in dogana in base al “valore medio” e non già effettivo delle royalties corrisposte dalla licenziataria; illegittimo conteggio degli interessi moratori, a fare data dalla presentazione della dichiarazione doganale, in violazione dell’art. 232 del CDC; limitatamente ai ricorsi RG 23/12 e 48/12, il difetto di motivazione degli atti, in violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12,comma 7) che gli atti di irrogazione delle sanzioni (violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, art. 6, comma 2 e art. 12);

– il motivo è infondato;

– questa Corte ha affermato il condivisibile principio secondo cui “la figura dell’assorbimento in senso proprio ricorre quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte, la quale con la pronuncia sulla domanda assorbente ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno, mentre è in senso improprio quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande. Ne consegue che l’assorbimento non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento, per cui, ove si escluda, rispetto ad una certa questione proposta, la correttezza della valutazione di assorbimento, avendo questa costituito l’unica motivazione della decisione assunta, ne risulta il vizio di motivazione del tutto omessa (Cass., Sez. 1 -, n. 28995 del 12/11/2018; Sez. 6 – 3, n. 13534 del 30/05/2018; Sez. 1, n. 28663 del 27/12/2013);

– nella specie, la CTR, nell’accogliere l’appello dell’Agenzia, stante la ritenuta sussistenza dei presupposti – posti a fondamento della pretesa impositiva e dei correlati atti sanzionatori – per l’inclusione dei diritti di licenza del valore doganale imponibile, ha dichiarato espressamente “assorbite” le ulteriori ragioni dedotte in sede di impugnazione e, dunque, anche quelle riproposte in sede di controdeduzioni dalla società contribuente; da qui la decisione implicita di rigetto sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento;

– in conclusione, il ricorso va rigettato;

– stante il consolidamento della giurisprudenza di questa Corte in materia successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione, sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di legittimità.

P.Q.M.

la Corte: rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

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