Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19213 del 21/09/2011

Cassazione civile sez. II, 21/09/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 21/09/2011), n.19213

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 293/2006 proposto da:

M.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA F. DENZA 50-A, presso lo studio dell’avvocato LAURENTI

Lucio, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

T.S. (OMISSIS), B.L.

(OMISSIS), D.B.M. (OMISSIS), D.B.

C. (OMISSIS), BE.LU. (OMISSIS), D.

F.R. (OMISSIS), P.A.

(OMISSIS), R.S. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIALE AVENTINO 98, presso lo studio

dell’avvocato DI GIOVANNI FABIO, rappresentati e difesi dall’avvocato

SCIUBBA Pietro;

– controricorrenti –

e contro

F.A., L.V.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4818/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/06/2011 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito l’Avvocato LAURENTI Lucio, difensore della ricorrente che si

riporta agli atti depositati;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARESTIA Antonietta, che ha concluso per l’accoglimento del primo

motivo del ricorso, assorbiti gli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Prima del 1967 l’odierna ricorrente M. edificava in (OMISSIS) un fabbricato composto dai sei appartamenti.

Tra il 1984 e il 1986 vendeva gli appartamenti agli originari attori, due dei quali hanno abbandonato il giudizio.

La venditrice manteneva però la proprietà del piano interrato e di due autorimesse.

Nel 1997 i neocondomini agivano davanti al tribunale di Roma, chiedendo che fosse accertato che l’area posta sul retro del fabbricato era di proprietà comune ex art. 1117 c.c..

La convenuta resisteva deducendo di aver adibito l’area ad orto fino al 1983 e di averla in seguito locata agli stessi attori, ad uso parcheggio; precisava che ai propri garages si accedeva esclusivamente attraverso tale area.

Il tribunale di Roma rigettava la domanda, che veniva invece accolta dalla Corte di appello, con sentenza del 10 novembre 2004.

La M. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 16 dicembre 2005. P.A. e gli altri appellanti (esclusi F. e L.V.) hanno resistito con controricorso.

L’avviso di udienza veniva ritualmente comunicato alla parte resistente presso la cancelleria, essendo risultato trasferito il domiciliatario.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La sentenza impugnata affermava che l’area era un tipico cortile condominiale, in quanto circoscritta tra le pareti e, secondo l’originario progetto, adibita a parcheggio.

Aggiungeva che l’area era da ritenere condominiale perchè destinata al servizio del complesso e perchè forniva luce, aria e salubrità all’edificio.

Inoltre nei dati catastali delle vendite delle singole unità era da ritenere compreso il terreno – stante il mancato frazionamento o la riserva di proprietà. La M. non avrebbe dimostrato l’esistenza di un titolo contrario alla regola di cui all’art. 1117 c.c., nè l’intervenuta usucapione.

Tre i motivi di ricorso.

Con il primo, che lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 e vizi di motivazione, e con il terzo, che espone mancata applicazione dell’art. 1362 c.c. e omissione di motivazione, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la ricorrente censura tutti i profili della sentenza a sè sfavorevoli.

Il secondo motivo concerne l’usucapione del bene.

Parte ricorrente assume nel primo motivo che: a) è irrilevante che l’area definita cortile sia circoscritta tra le pareti dell’edificio, dovendo il giudizio accertare a chi l’area appartenga e se sia stata usata in via esclusiva dalla ricorrente;

b) che inconferente è la previsione della destinazione a parcheggio dell’area, dovendo essere verificato chi ne avesse poi beneficiato;

c) che l’ intavolazione catastale è priva di rilievo ai fini dell’attribuzione della proprietà.

d) che non opera la presunzione di cui all’art. 1117 c.c., perchè non si era in presenza di cortile necessario all’uso comune, ma di area sempre usata in via esclusiva, o per accedere alle autorimesse in proprietà M., o perchè locata ai condomini stessi.

Nel terzo motivo osserva che il titolo di acquisto degli appartamenti venduti da M. ai condomini, che riportava la clausola di stile circa l’attribuzione delle parti condominiali, tace in ordine all’area di posteggio; che doveva essere quindi interpretato il comportamento della parti, problema neppure esaminato dai giudici di appello.

Questi due motivi colgono nel segno.

Opportunamente il ricorso invoca gli insegnamenti di Cass. 8119/04:

Per l’esclusione della presunzione di proprietà comune, di cui all’art. 1117 cod. civ., non è necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che, quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola parte dell’immobile, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare – in base ad elementi obiettivamente rilevabili, secondo l’incensurabile apprezzamento dei giudici di merito – che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale, viene meno il presupposto per l’operatività della detta presunzione (conf.24015/04).

Questa Corte ha altresì insegnato che: “Per vincere in base al titolo contrario la presunzione legale di proprietà” comune delle parti dell’edificio condominiale indicate dall’art. 1117 cod. civ., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se la previa delimitazione unilaterale dell’oggetto del trasferimento sia stata recepita nel contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti e se, dunque, da esso emerga o meno l’inequivocabile volontà delle parti di riservare al costruttore venditore la proprietà di quei beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune. Pertanto – proprio perchè la questione relativa alla superabilità o meno della presunzione di proprietà comune su un’area destinata a verde antistante la facciata di un edificio condominiale, implica l’interpretazione della volontà contrattuale – essa si colloca in relazione all’art. 1362 cod. civ., e segg. e non all’art. 1117 cod. civ..” Questi principi, che sono alla base del primo e del terzo motivo, non sono stati applicati dalla sentenza impugnata, che con breve e apodittica trattazione, ha ritenuto che l’area costituisse cortile condominiale sulla base della sola configurazione dell’immobile, peraltro sommariamente considerata.

La sentenza ha infatti desunto la condominialità del cortile dal fatto che l’area sia fisicamente contigua all’edificio e suscettibile di dare luce, aria e salubrità a quest’ultimo, ma con motivazione affrettata ha sancito che trattasi di area “oggettivamente e funzionalmente destinata al servizio del complesso condominiale”.

In tal modo è stata data decisiva considerazione alla sola conformazione dell’area, alla sua consistenza e alla destinazione a parcheggio della parte sul retro dell’edificio, ma sono state trascurate altre importanti risultanze, rappresentate in ricorso e non controverse, costituite dalle vicende proprietarie, dall’utilizzo dell’immobile e dalla stessa dislocazione delle autorimesse private e delle tettoie, utili a comprendere se il bene fosse suscettibile di autonoma considerazione rispetto al condominio, in quanto oggetto di godimento esclusivo. Il fatto che, nel ventennio precedente l’alienazione degli appartamenti, la costruttrice – venditrice fosse unica proprietaria degli appartamenti e dell’area stessa, già in progetto (anteriore alla riforma urbanistica del 1967) destinata a parcheggio, evidenzia che tale destinazione era pienamente compatibile con la proprietà esclusiva del bene e non è stata un’innovazione determinata dalla creazione del condominio.

Di speciale rilievo, in relazione a ciò, è la circostanza che la venditrice, dopo le vendite del 1984, abbia locato agli stessi condomini acquirenti (o almeno ad alcuni di costoro) parti dell’area controversa, percependo un canone di locazione per l’uso a parcheggio.

Queste circostanze assumono importanza, poichè al momento della costituzione del condominio, avvenuta con il frazionamento della proprietà, la esclusione può risultare o da espressa previsione contrattuale o per concreto uso fattone. Rileva cioè quale sia la destinazione che viene impressa a un bene potenzialmente condominiale, per comprendere se esso sia stato sottratto a tale destinazione. Di qui la rilevanza dell’eventuale possesso esclusivo, di maggior peso se protratto rispetto alla pluriennale precedente condizione.

In mancanza di espressa previsione contrattuale, come nella specie, oltre all’uso anzidetto, assume decisivo significato il relativo comportamento delle parti, quale criterio ermeneutico ex art. 1362 c.c., e segg..

La Corte d’appello non ha tenuto in alcun conto questi elementi; ha omesso di indagare sulla destinazione del bene, anteriore e successiva alla costituzione del condominio e di trame le dovute conseguenze; ha omesso di valutare il comportamento delle parti, ai fini di interpretare se tra le parti condominiali, genericamente trasferite agli acquirenti delle unità immobiliari, fosse inclusa anche l’area che sarebbe rimasta in uso esclusivo della M..

La residua proprietà esclusiva, in capo alla M., di due box accessibili soltanto attraverso questa area e il relativo godimento costituiscono ulteriori elementi di valutazione che meritavano di essere scrutinati, sia per emettere il giudizio di fatto relativo alla effettiva destinazione condominiale del bene, sia in relazione all’interpretazione del contenuto contrattuale. La Corte, che ha omesso un’indagine sulla volontà delle parti e il contenuto del contratto secondo i canoni ermeneutici ordinari, ha invece attribuito valore alla mancata distinzione catastale dell’area rispetto ai beni trasferiti.

Anche questo si rivela essere un errore ex art. 1362 c.c., e segg., giacchè per stabilire la portata del titolo di trasferimento del bene, prima di ricorrere al dato catastale occorre por mente agli altri indici interpretativi della scrittura (Cass. cfr. 8152/01), specialmente ove la decisione sull’attribuzione della proprietà sia influenzata dall’effettivo uso del bene e non solo dalla sua potenziale destinazione.

Giova rilevare che nella specie la decisione va resa al lume della peculiare complessità della vicenda, poichè che non si tratta qui di contesa tra singoli condomini, ma tra il costruttore-proprietario e i condomini subentrati, dopo gran tempo, nella proprietà di singole porzioni dello stabile.

Discende da quanto esposto l’accoglimento del primo e terzo motivo di ricorso.

Resta assorbito il secondo, giacchè non v’è luogo per discutere di usucapione sopravvenuta, ove resti incerto se vi sia stato l’originario trasferimento del bene conteso.

La sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, la quale: previa nuova motivazione sulla natura condominiale del bene, in primo luogo si atterrà ai principi di diritto sopra affermati, secondo i quali per l’esclusione della presunzione di proprietà comune, di cui all’art. 1117 cod. civ., non e1 necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che, quando il bene risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una necessaria destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale, viene meno il presupposto per l’operatività della detta presunzione. In secondo luogo procederà a interpretazione del titolo dal quale deriva la nascita del condominio, tenendo conto dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c., e segg., e in particolare del comportamento delle parti.

Infine darà corso a nuova motivazione in ordine agli elementi di fatto rilevanti in causa, onde stabilire se dal titolo, correttamente interpretato, discenda che il proprietario venditore abbia riservato a sè la proprietà dell’area controversa.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, che provvedere anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2011

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