Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19212 del 07/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 07/07/2021, (ud. 25/03/2021, dep. 07/07/2021), n.19212

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14532/2014 R.G. proposto da:

S.C. rappresentata e difesa dall’avv. Pasquale Tarricone

elettivamente domiciliata in Roma, via Emilio Dè Cavalieri n. 11

presso lo studio dell’avv. Anton Giulio Lana per procura speciale in

calce al controricorso.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura

generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, alla via dei

Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Campania n. 412/32/15, depositata il 2.12.2013.

Udita la relazione svolta alla udienza camerale del 25.3.2021 dal

Consigliere Dott.ssa Castorina Rosaria Maria.

 

Fatto

OSSERVA

L’Agenzia delle Entrate emetteva, per l’anno di imposta 2006, un avviso di accertamento nei confronti di S.C., esercente una attività di bar e caffè oltre alla vendita di tabacchi e lotterie varie, con cui veniva contestato il conseguimento di maggiori ricavi dalle vendite a fronte dell’applicazione di una percentuale di ricarico negativa del tutto incongruente anche rispetto alla media del settore.

La contribuente impugnava l’avviso e la CTP di Benevento accoglieva il ricorso.

L’Agenzia delle Entrate proponeva appello e la Commissione regionale della Campania, con sentenza n. 412/32/2013, depositata il 2.12.2013, lo rigettava sul presupposto della correttezza del metodo di accertamento dei ricavi effettuato dall’ufficio idoneo a provare l’antieconomicità dell’attività, mentre la contribuente non aveva fornito adeguata prova contraria.

Avverso la sentenza S.C. propone ricorso, affidandosi a tre motivi.

Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti rappresentato dalla chiusura dell’attività per lavori di ristrutturazione nel periodo luglio 2006 – maggio 2007.

La censura è fondata.

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito come l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14802: Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152), gli elementi istruttori, una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. Sez. L, 21/10/2015, n. 21439).

Nella specie la ricorrente fa riferimento specifico a un vero e proprio fatto storico di cui è stato omesso l’esame, cioè la chiusura dell’attività per lavori di ristrutturazione nel periodo luglio 2006 maggio 2007, circostanza che astrattamente esaminata potrebbe essere idonea a giustificare la riduzione della redditività aziendale.

2.Con il secondo motivo la contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54.

Evidenzia che in tema di IVA, per escludere il diritto alla detrazione dell’imposta – in ragione di costi antieconomici sostenuti dal contribuente l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione, come tale esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, che assume rilievo quale indizio di non verità della fattura, e, dunque, di non verità dell’operazione stessa o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA.

La censura è fondata.

In condizioni normali non è consentito all’amministrazione di rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione per le ipotesi in cui il valore dei beni e servizi sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da considerare normale o comunque sia tale da produrre un risultato antieconomico. Tale verifica l’amministrazione potrà solamente fare allorchè la riscontrata antieconomicità rilevi quale indizio di non verità della fattura, nel senso di non verità dell’operazione, oppure di non verità del prezzo o, ancora, di non esistenza dell’inerenza e cioè della destinazione del bene o del servizio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad IVA.

In materia di I.V.A., ai fini della valutazione dell’inerenza, il giudizio di congruità ha una diversa incidenza, di per sè non idonea ad escludere il diritto a detrazione, salvo che l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione sia “tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad I.V.A.” (Corte di Giustizia, 20 gennaio 2005, C-412/03, Hotel Scandic Gasaback, per cui “la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo, e dunque a un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato, è irrilevante”; Corte di Giustizia, 26 aprile 2012, C-621/10 e C-129/11, Balkm; Corte di Giustizia, 9 giugno 2011, C-285/10, Campsa Estaciones de Servici, Corte di Giustizia, 2 giugno 2016, in C.263/15, Lajvèr; Cass. n. 2875 del 3/2/2017; Cass. n. 2240 del 30/1/2018).

Con riguardo all’I.V.A., pertanto, il giudizio di congruità non investe il giudizio di inerenza, ma la contestazione dell’Ufficio e, in particolare, i contenuti della prova posta a suo carico, che non può essere soddisfatta adducendo la mera antieconomicità dell’operazione, di per sè priva di rilievo. Ciò significa che, in materia di I.V.A., “l’inerenza del costo non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e l’attività d’impresa” (Cass. 18904/2018; Cass. 16010/2019).

Nella specie la CTR si è limitata ad accertare l’antieconomicità dell’operazione contestata.

3.Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, commi 2, 4 e 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che la sentenza della CTR era viziata per violazione dello statuto del contribuente in quanto non aveva rilevato che la contribuente non era stata informata delle ragioni che giustificavano la verifica, nel corso del primo giorno delle operazioni ispettive, della facoltà di farsi assistere da un professionista e della violazione del contraddittorio preventivo, per essere stato emesso l’avviso di accertamento senza il rispetto del termine dei sessanta giorni dalla chiusura della attività di indagine.

La censura è fondata nei limiti che si vanno a precisare.

L’obbligo di informazione della facoltà di farsi assistere da un difensore è prevista solo in ipotesi di accesso presso i locali aziendali.

Secondo il radicato indirizzo della Corte, che il Collegio condivide: “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 (cd. Statuto del contribuente), nelle ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, opera una valutazione “ex ante” in merito alla necessità del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sanzionando con la nullità l’atto impositivo emesso “ante tempus”. Laddove la normativa interna non preveda l’obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa (ad es., di accertamenti cd. a tavolino), nell’ipotesi di tributi “armonizzati”, deve essere effettuata la provà di “resistenza”, cioè il giudice tributario è tenuto ad effettuare una concreta valutazione “ex post” sul rispetto del contraddittorio” (Cass.15/01/2019, n. 701); in questo caso, la violazione dell’obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale comporta l’invalidità dell’atto solo nel caso in cui il contribuente assolva all’onere di enunciare, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto far valere (Cass. sez. un. 09/12/2015, n. 24823, menzionata, in motivazione, da Cass.17/10/2019, n. 26365, in materia di tributi doganali).

Ciò premesso in punto di diritto, nel caso in esame è dato rilevare che la CTR ha omesso di verificare se vi fosse stato accesso presso i locali dell’impresa o, se trattandosi di cd. “accertamento a tavolino” il contribuente avesse o meno fornito, per i tributi armonizzati, la c.d. prova di resistenza, indicando le giustificazioni che avrebbe potuto contrapporre, in fase amministrativa, alla pretesa erariale. A tanto provvederà il giudice di rinvio.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza cassata con rinvio alla CTR della Campania anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Campania anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2021

 

 

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