Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19194 del 19/08/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 19194 Anno 2013
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 3861-2011 proposto da:
TORRE

ANDREA

TRRNDR43E20H198F,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DELLA BALDUINA 66, presso lo
studio dell’avvocato SPAGNUOLO GIUSEPPE, rappresentato
e difeso dall’avvocato PAOLO IMPERATO, giusta delega
in atti;
– ricorrente –

2013
1680

contro

EQUITALIA ETR S.P.A.(gia’ E.T.R. S.P.A.), in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio

Data pubblicazione: 19/08/2013

.

dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato RIGI LUPERTI MARCO,

,
giusta delega in atti;
– controrícorrente

avverso la sentenza n. 880/2010 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 14/05/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito l’Avvocato IMPERATO PAOLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

di SALERNO, depositata il 18/01/2011, r.g.n. 1445/08;

l

R.G. n. 3861/11
Ud. 14.5.13
Torre c. Equitalia E.T R. S.p.A.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 10.6.08 il Tribunale di Salerno, in parziale accoglimento della
domanda proposta da Andrea Torre contro Equitalia E.T.R. S.p.A., condannava
quest’ultima a pagare all’attore la somma di C 18.980,00 (oltre accessori) pari alle

retribuzioni maturate dal 23.2.04 al 31.12.04, in base a precedente sentenza, passata
in giudicato (la n. 1458/04 della Corte d’appello di Salerno), che aveva dichiarato la
nullità dei pregressi contratti a termine intercorsi fra le parti e la loro conversione in
un unico rapporto lavorativo a tempo indeterminato dal 1°.7.94.
Il Tribunale negava le ulteriori mensilità chieste dal Torre fin dal 4.4.98, data
della prima richiesta da costui rivolta alla società, ritenendo che si trattasse di una
mera richiesta di assunzione e non di una lettera di messa in mora della società.
Con sentenza emessa il 7.7.10 e depositata il 18.1.11 la Corte d’appello di Salerno
rigettava il gravame interposto dal Torre, che oggi ricorre per la cassazione di tale
pronuncia affidandosi ad un solo articolato motivo.
Resiste con controricorso Equitalia E.T.R. S.p.A.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con unico articolato motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa
applicazione dei principi regolatori in tema di nullità del termine apposto al
contratto di lavoro e degli artt. 1223, 1206 e 1217 c.c., oltre che vizio di
motivazione, nella parte in cui l’impugnata sentenza ha negato natura di messa in
mora alla richiesta di assunzione rivolta dal Torre ad Equitalia E.T.R. S.p.A. con
lettera del 4.4.98, messa in mora — peraltro — nemmeno indispensabile, atteso che,
apponendo al contratto un termine illegittimo, il datore di lavoro si era già reso
inadempiente, con conseguente continuità del rapporto e diritto del lavoratore al
risarcimento del danno, senza bisogno di formale costituzione in mora.
Il ricorrente denuncia altresì un’omessa pronuncia su un punto dirimente, avendo
la Corte territoriale trascurato che il lavoratore, una volta accertata la nullità del
termine apposto al contratto di lavoro, può – nel limite temporale di 10 anni dalla

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pronuncia di accertamento – invocare l’eventuale risarcimento per le retribuzioni
perdute.

2- Si premetta che con sentenza n. 1458/04, depositata il 24.12.04 e passata in
giudicato, la Corte d’appello di Salerno, accertata la nullità del termine
originariamente apposto al contratto di lavoro stipulato fra la GET S.p.A. (poi
divenuta Equitalia E.T.R. S.p.A.) e il Torre a partire dal 1°.7.94, ha dichiarato la
trasformazione ab origine del contratto medesimo in contratto di lavoro a tempo
indeterminato, con diritto del Torre alla riassunzione presso Equitalia E.T.R. S.p.A.
Nel giudizio oggi sottoposto all’attenzione di questa S.C. il Torre ha chiesto la
condanna della predetta società al pagamento delle retribuzioni maturate dal 4.4.98
al 31.12.04, vedendosi invece riconoscere solo quelle dal 23.2.04 (giorno
successivo alla lettera di messa in mora ritenuta idonea a tal fine dai giudici del
merito) al 31.12.04.
In altro separato giudizio (anch’esso pendente innanzi a questa S.C.) si discute,
invece, delle retribuzioni maturate dal 1 0 105 al 20.5.08, vale a dire delle
retribuzioni maturate a partire dalla sentenza (la già menzionata n. 1458/04 della
Corte d’appello di Salerno) di accertamento della conversione del rapporto a
termine in uno a tempo indeterminato.
Si tenga presente che dopo la pronuncia del dispositivo della sentenza impugnata
(ma prima del deposito della relativa motivazione) è intervenuto l’art. 32 legge
4.11.10 n. 183, che al co. 5 0 così dispone: “Nei casi di conversione del contratto a
tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del
lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un
minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n.
604.”.
Il successivo co. 7° stabilisce che “Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano
applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in
vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai
soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa
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alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative
eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’articolo 421 del codice di
procedura civile”.
La società controricorrente invoca, nel proprio controricorso, l’applicazione di

tale ius superveniens.
Secondo costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 26.7.11 n.
16266), nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una
nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purché pertinente rispetto
alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell’ordinamento in
materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con
cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina
sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che ove sia invocato l’art. 32 legge n. 183/2010 riguardo alle conseguenze economiche
della nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro – è
necessario che i motivi del ricorso, purché ammissibili, investano specificamente le
conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine medesimo.
Nel caso di specie, i motivi concernenti la decorrenza della mora accipiendi del
datore di lavoro si ripercuotono direttamente sulle conseguenze patrimoniali
dell’accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 1°.7.94
fra le odierne parti, di guisa che il cit. ius superveniens va applicato anche nel
presente giudizio di legittimità, come questa S.C. (v., ex aliis, Cass. 2.3.12 n. 3305)
ha già avuto modo di statuire, con indirizzo cui va data continuità.
Invero, per quanto il tenore testuale del co. 5° del cit. art. 32 — riferendosi alla
fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative
eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – evochi
attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno
escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso
equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in
base alla circostanza – del tutto fortuita – della pendenza della lite in una fase
piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime

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risarcitorio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado
oppure innanzi a questa S.C.
E poiché una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata
costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 214/09 con riferimento alla

circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quella occasione si trattava
dell’art. 4 bis d.lgs. 6.9.2001 n. 368, introdotto dall’art. 21, comma 1 bis, d.l.
25.6.2008 n. 112, convertito, con modificazioni, in legge 6.8.2008 n. 133), a fortiori
lo sarebbe se, all’interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si
operasse un’ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell’art. 3
Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della
legittimità.
Né la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di
specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.
In proposito si muova dalla rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine
per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio
dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. è contenuto nel secondo periodo del
comma 7°, in chiave all’affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso
comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5° e 6° a tutti i giudizi
pendenti alla data di entrata in vigore della legge.
In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all’interprete un’incompatibilità
del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a
disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante
cassazione con rinvio conseguente, appunto, all’applicazione dello ius superveniens
sancita nel primo periodo del comma.
In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa
applicazione in sede di legittimità dell’art. 32 co. 5° cit.) che il giudice del rinvio
può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori
d’ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all’art. 437 co. 2°, secondo
periodo, c.p.c.
Indubbiamente prima facie resta un’apparente distonia sistematica, considerato
che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. co . 2°
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dell’art. 437 c.p.c. poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle
parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative
eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi
eventuali ricorsi per saltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda

ancora in tale fase.
Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all’art. 437
c.p.c. o come divieto di applicazione del co. 5 0 dell’art. 32 ai giudizi pendenti in
appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto),
è doveroso risolvere l’improprietà tecnica (nata dall’unificazione, in un solo
periodo, di tutti gli effetti dell’immediata applicazione dello ius superveniens che,
invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo)
valorizzando l’inciso “ove necessario” e il valore disgiuntivo/inclusivo (di
operatore logico booleano

“Or”) della congiunzione che precede l’ultima

proposizione del comma 7° del cit. art. 32 (“ed esercita i poteri istruttori ai sensi
dell’articolo 421 del codice di procedura civile”).
L’inciso “ove necessario” dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di
esercizio dei poteri istruttori d’ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e
del grado in cui si trova il processo e affidata all’opera razionalizzatrice
dell’interprete.
Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente
rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri
istruttori d’ufficio, mentre in appello — proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo
della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma – resteranno
consentiti solo questi ultimi.
Ribadito, dunque, che il combinato disposto dei commi 5 e 7 del cit. art. 32 è
applicabile anche in sede di legittimità, deve applicarsi il principio di diritto,
analogo a quello già enunciato (oltre che nella citata sentenza Cass. 2.3.12 n. 3305
anche) da Cass. 5.6.2012 n. 9023 e da Cass. 29.2.2012 n. 3056 secondo cui “In tema
di risarcimento del danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo
determinato, lo “ius superveniens” ex art. 32, commi 5 e 7, della legge n. 183 del
2010 configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte
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costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico
del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo
dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a
prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova

di un danno effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, ad
eventuale “aliunde perceptum’), trattandosi di indennità “forfetizzata” e
“onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo
cosiddetto “intermedio”, vale a dire in quello che va dalla scadenza del termine
sino alla sentenza di conversione, fermo restando il diritto del lavoratore alle
retribuzioni maturate da tale ultima data sino all’effettivo e concreto ripristino
dell’esecuzione del rapporto lavorativo.”.
Ne discende che nel caso di specie:
a) è irrilevante ogni discorso sulla costituzione in mora del datore di lavoro;
b) è inaccoglibile la pretesa del Torre di vedersi riconoscere a titolo risarcitorio
tutte le retribuzioni maturate dal 4.4.98 al 31.12.04, potendosi per tale periodo
(anteriore alla sentenza che ha convertito il rapporto a termine in uno a tempo
indeterminato) liquidare soltanto un’indennità nel massimo corrispondente a 12
mensilità (e nel minimo a 2,5) dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge n. 604/66.
È quello che in sostanza ha fatto – sia pure con motivazione da correggersi ex art.
384 ult. co . c.p.c. nei sensi innanzi esposti per effetto dello ius superveniens

la

sentenza impugnata, che ha attribuito al Torre circa 10 mensilità (dunque, un
importo contenuto entro i limiti minimo e massimo di cui al cit. art. 32).
Le considerazioni che precedono assorbono ogni altra difesa fatta valere dalle
parti.

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del presente giudizio di legittimità si compensano fra le parti,
considerata la necessità di correggere la motivazione della pronuncia d’appello alla
stregua del suddetto ius superveniens, che ha radicalmente mutato i termini giuridici

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Ud. 14.5.13
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della controversia come originariamente impostati dalle parti e conseguentemente
affrontati dalla Corte territoriale.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 14.5.13.

La Corte

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