Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19194 del 19/07/2018


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Civile Ord. Sez. 3 Num. 19194 Anno 2018
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: GORGONI MARILENA

ORDINANZA

sul ricorso 6209-2017 proposto da:
DE MARTE VINCENZO, considerato domiciliato ex lege in
ROMA,

presso

CASSAZIONE,

la

CANCELLERIA

DELLA CORTE

DI

rappresentato e difeso dall’avvocato

GIANANTONIO TESTA giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente contro

CONTI SIMONETTA, considerata domiciliata ex lege in
ROMA,

presso

la

CANCELLERIA

DELLA

CORTE

DI

CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato
DANIELE DISCEPOLO giusta procura in calce al
controricorso;
– controricorrente –

1

Data pubblicazione: 19/07/2018

nonchè contro

CONTI ATTILIO , CONTI CRESCENZIO;
– intimati

avverso la sentenza n. 234/2017 della CORTE D’APPELLO
di MILANO, depositata il 20/01/2017;

consiglio del 10/05/2018 dal Consigliere Dott.
MARILENA GORGONI;

2

udita la relazione della causa svolta nella camera di

RG n. 6209/2017
FATTI DI CAUSA
1. Vincenzo De Marte citava, dinanzi al Tribunale di Como, Attilio,
Crescenzio e Simonetta Conti, per ottenerne la condanna al pagamento della
somma di Euro 14.878,96, dovutagli a titolo di compenso professionale per le
prestazioni svolte in loro favore nella controversia contro Francesco Corigliano

secondo, in quella di committente, di aver cagionato la morte di Grazia Lo
Conte, rispettivamente, moglie e madre dei convenuti, caduta dalla scala di un
immobile in costruzione.
1.1. I Conti proponevano domanda riconvenzionale di risarcimento del
danno per cattiva gestione dell’incarico professionale conferito, lamentando che
il professionista avesse omesso di verificare la situazione patrimoniale di
Francesco Corigliano e Mirko Santonocito e di esperire altre iniziative — in
particolare il sequestro conservativo sui beni di Mirko Santonocito e l’azione
revocatoria nei confronti di Franco Corigliano nonché la chiamata in giudizio
della comproprietaria, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dell’immobile ove si era
verificato il fatto illecito— che avrebbero potuto consentire loro di ottenere il
soddisfacimento del credito.
1.3. Il Tribunale di Como, con sentenza n. 759/2015, accoglieva la
domanda attorea e respingeva quella riconvenzionale, ritenendo che le azioni
omesse esulassero dal mandato conferito e che non vi fosse prova del nesso di
causa tra l’evento dannoso e la condotta del professionista.
2. Proponevano appello Attilio, Crescenzio e Simonetta Conti dinanzi alla
Corte di appello di Milano, la quale, con sentenza n. 234/2017, depositata il
20.1.2017, riformava la decisione di prime cure, accertava la responsabilità
professionale dell’appellato e lo condannava a pagare agli appellanti Euro
325.210,00 oltre alle spese. A fronte della condannava risarcitoria ad Euro
596.918,24 ottenuta dagli appellanti nel giudizio civile n. 471/2009 R.G., la
Corte d’appello condannava Vincenzo Marte al pagamento della somma
risultante dalla vendita degli immobili su cui egli aveva omesso di agire in via
cautelare.
3

e Mirko Santonocito, responsabili, il primo, in veste di appaltatore, e, il

3. Vincenzo Marte propone ricorso in cassazione, articolato in cinqu
motivi, illustrati anche da memoria.
3.1. Resiste con controricorso Simonetta Conti, illustrato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 2229, 2236, 1176, 1703, 1710 c.c., per

obbligazione di risultato anziché di mezzi e per aver ritenuto che il mandato
conferitogli avesse ad oggetto anche l’esercizio di specifiche attività ulteriori
rispetto all’assistenza giudiziaria nel procedimento penale e in quello civile per
il risarcimento del danno.
5. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt.
1218, 1223, 1225 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.,
perché la Corte territoriale, non facendo applicazione della corretta
distribuzione dell’onere della prova, non avrebbe preteso dai presunti
danneggiati la prova del nesso causale.
6. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 360, comma 1, n. 3
c.p.c., la violazione gli artt. 1223 e 1225 c.c., per avere la Corte territoriale
ritenuto non dovuto quanto da egli chiesto in esecuzione del mandato
professionale e per aver quantificato il danno da risarcire facendo riferimento al
valore degli immobili dichiarato in sede di compravendita.
7. Con il quarto motivo il ricorrente ritiene la sentenza impugnata viziata
da motivazione contraddittoria, per avere previsto che l’attività professionale
da egli svolta non fu preceduta da alcuna valutazione dei costi e dei benefici
derivanti dell’azione giudiziaria intrapresa, salvo poi contraddirsi nella parte in
cui afferma che la prevedibilità dell’esito negativo dell’azione avviata non solo
non fu valutata dal professionista, ma doveva essergli addebitata.
8. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta che la Corte non abbia
considerato alcuni fatti da egli specificamente dedotti onde ritenere provato il
corretto adempimento dell’obbligo informativo.
9. I motivi nn. 1, 2 e 3 possono essere esaminati congiuntamente, perché
logicamente e giuridicamente connessi.
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avere la Corte territoriale qualificato l’obbligazione del professionista come

9.1. Dalla prospettazione a sostegno dei motivi emerge la richiesta del
ricorrente di un riesame nel merito delle domande e delle eccezioni già oggetto
del giudizio di appello, anche e soprattutto allo scopo di dimostrare la
fondatezza della decisione di primo grado che era giunta a conclusioni opposte
ed a lui favorevoli. Gli argomenti del ricorrente sono prevalentemente
caratterizzati da un serrato confronto tra le valutazioni del giudice di primo

convincimento che le doglianze siano volte a censurare l’ingiustizia della
sentenza impugnata.
9.2. I motivi, al di là dei non marginali profili di inammissibilità da cui sono
affetti, risultano infondati quanto alla pretesa interpretazione delle norme
civilistiche indicate nella rubrica in modo contrastante con l’orientamento di
questa corte.
9.3. Va subito evidenziato che la Corte territoriale ha ritenuto provato
l’inadempimento allegato dai Conti, consistito nell’omesso svolgimento da
parte del professionista dei doveri di esatta rappresentazione al cliente dei
costi e benefici delle attività giudiziarie intraprese, onde consentirgli di
assumere una decisione consapevole sull’opportunità o meno di intraprenderle
(di recente sul punto in senso conforme: Cass. 13/09/2017, n. 21173) e
nell’omissione delle iniziative necessarie a scongiurare il rischio che i Conti
ottenessero un titolo ineseguibile, data l’elevata entità del risarcimento e
l’incapienza patrimoniale dei condannati. E ciò soprattutto in considerazione del
fatto che il mandato professionale ottenuto riguardava proprio l’esercizio
dell’azione civile in sede penale, con la costituzione di parte civile nel processo
penale a carico dei responsabili dell’illecito, e, successivamente, l’instaurazione
del giudizio civile davanti al Tribunale di Como per la liquidazione dei danni.
Insomma, il mandato ricevuto era inequivocabilmente volto a garantire ai
clienti l’ottenimento del risarcimento del danno, quantificato dal Tribunale di
Como in Euro 596.918,24, al netto delle spese di lite.
9.4. Posto che l’esatto adempimento del mandato professionale comporta
l’esperimento di tutte le attività utili e strumentali per la tutela dell’assistito
(cfr. anche Cass. 8/09/2015, n. 17758), la Corte territoriale ha ritenuto
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grado e quelle del giudice di appello (cfr. p. 20, 22-23) e ciò rafforza il

compresa e non già esclusa, come preteso dal ricorrente, l’attività omessa esperimento dell’azione revocatoria, estensione della domanda risarcitoria nei
confronti del contitolare del diritto di proprietà dell’immobile, ex art. 2051 c.c.,
sequestro conservativo – in quanto volta ad evitare la dispersione del
patrimonio dei responsabili dell’illecito.
9.5. È consolidato orientamento di questa Corte che la verifica della

attraverso un giudizio prognostico circa l’attività astrattamente esigibile dal
legale, tenendo conto della adozione di quei mezzi che, al momento del
conferimento dell’incarico professionale e, quindi, della instaurazione del
giudizio, dovevano apparire funzionali alla migliore tutela dell’interesse della
parte dal medesimo assistita (Cass. 8/09/2015, n. 17758; Cass. 20/03/2018,
n. 6859).
9.6. E non potendo la responsabilità dell’esercente la professione forense
affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell’attività
professionale, dopo aver verificato che l’evento produttivo del pregiudizio
lamentato dal cliente era concretamente e non solo astrattamente riconducibile
alla condotta del legale e che danno vi era stato effettivamente, la Corte è
passata a verificare, come dovuto (ad es. Cass. 05/02/2013, n. 2638), se,
qualora l’avvocato avesse adottato la condotta per cui si era obbligato, gli
assistiti avrebbero conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni;
concludendo, sulla scorta di criteri probabilistici, che, senza quell’omissione, il
risultato sarebbe stato conseguito (tra le tante Cass. 22/11/2004, n. 22026 ,
Cass. 9/06/2004 n. 10966;, Cass. 26/04/2010 n.9917). Infatti, ricorrendo
nella specie un caso di responsabilità professionale per condotta omissiva,
l’esito delle azioni che l’avvocato ha omesso di esperire è meramente ipotetico
e non può che costituire oggetto di un accertamento prognostico nel quale il
tema dell’evento di danno e quello del nesso di causalità risultano
inevitabilmente connessi sul piano della causalità materiale (cioè della
relazione eziologica condotta/evento). Di tale danno, in queste circostanze,
non può richiedersi una prova rigorosa e certa, incompatibile con la natura di

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diligenza dell’avvocato nell’espletamento dell’obbligazione va compiuta

un accertamento necessariamente ipotetico, in quanto riferito a un evento non
verificatosi, per l’appunto, a causa dell’omissione.

9.7. Ed è appena il caso di aggiungere che l’indagine, da svolgersi sulla
scorta degli elementi di prova che il danneggiato ha l’onere di fornire in ordine

Cass. 27/05/2009 n. 12354 ), è riservata all’apprezzamento del giudice del
merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando, come nella specie, sia
sorretta da una motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici
(Cass. 8/03/2018, n. 5540).
9.8. L’infondatezza delle censure formulate dal ricorrente emerge, non solo
sotto il profilo delle regole relative alla prestazione professionale (artt. 2229,
2236, 1703, 1710 c.c.), ma anche quanto alla distribuzione dell’onere della
prova (art. 2697 c.c.) relativamente all’inadempimento e al danno.
9.9. La concreta liquidazione del danno deve avvenire attraverso un criterio
prognostico tenendo conto della possibilità di conseguire il risultato in base
all’esame degli atti di causa (Cass. 13/12/2001, n. 15759 ): il danno va
“liquidato in ragione di un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli
possibilità di risultati utili. La relativa indagine, da svolgersi sulla scorta degli
elementi di prova che il danneggiato ha l’onere di fornire in ordine al
fondamento dell’azione proposta, è riservata all’apprezzamento del giudice del
merito e risulta censurabile in sede di legittimità soltanto se non sia sorretta da
una motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici (tra le tante,
oltre alle pronunce già citate v. Cass. 11/08/2005, n. 16846; Cass.
27/05/2009, n. 12354).
10. Relativamente al quarto motivo va osservato che il vizio di nullità della
sentenza ai sensi dell’art. 132, n. 4, c.p.c. è configurabile solo quando la
sentenza non sia in grado di raggiungere il suo scopo perché non sono spiegate
le ragioni del decidere sulla singola domanda o su parte di essa. Non ricorre,
invece, quando – ed è il caso di specie – la decisione adottata in contrasto con
la pretesa fatta valere dalla parte comporti il rigetto di tale pretesa anche se
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al fondamento dell’azione proposta (tra le tante, cfr Cass. 11/08/2015 n. ,

manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo in tal caso
ravvisarsi una implicita statuizione di rigetto. Deriva da quanto precede,
pertanto, che qualora ci si dolga del fatto che il giudice a quo abbia condiviso e
fatto propri i rilievi e le deduzioni di una delle parti e implicitamente disatteso
le argomentazioni di controparte incompatibili con il ragionamento posto a
base della decisione (p. 46 del ricorso), è inconferente il motivo di ricorso per

Infatti, per assumere una decisione conforme al disposto dell’art. 132 n. 4
c.p.c., il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze
processuali, né a confutare singolarmente le argomentazioni prospettategli
dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro
complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio
convincimento e dia conto dell’iter seguito nella valutazione degli stessi, onde
pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo implicitamente quelli
logicamente incompatibili con la decisione adottata. Ne consegue che vizi
motivazionali in tema di valutazione delle risultanze istruttorie non possono
essere utilmente dedotti ove la censura si traduca nella contestazione di una
valutazione delle prove effettuata in senso difforme da quello preteso dalla
parte, perché ex art. 116 comma 1 c.p.c., rientra nel potere discrezionale del
giudice di merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la
valutazione delle prove, il controllo dell’attendibilità e della concludenza e la
scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee e rilevanti
(Cass. 24/03/2016, n. 5882).
10.1. Il ricorrente non coglie nel segno né quando si duole della inesistenza
della motivazione su un fatto decisivo per l’omesso esame di elementi istruttori
(p. 47 del ricorso), né quando denuncia la incongruità e la contraddittorietà
della motivazione (pp. 45 e 46 del ricorso). Le censure si indirizzano verso
l’attività del giudice a quo consistita “nell’aver ritenuto apoditticamente come
certi e incontrovertibili circostanze che… risultano avere una valenza diversa”,
nel non aver compiuto alcuna approfondita disamina logico-giuridica degli
elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, nell’omissione di qualsiasi
attività istruttoria, posto che la Corte “si è limitata a recepire apoditticamente
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cassazione (e, quindi, inammissibile il motivo: Cass. 10/08/2017, n. 19).

le asserzioni dell’odierna parte resistente, astenendosi dal dare ingresso alle
prove articolate dalle parti, per acclarare la fondatezza dei rispettivi assunti”.
Tuttavia, il vizio di contraddittorietà della motivazione sussiste solo allorché
dalla lettura della sentenza emergano incertezze di sorta su quella che è stata
la volontà del giudice (Cass. 23/09/2016, n. 18761): ipotesi non
concretizzatasi nel caso di specie.

che esse ritengono più idonei ed utili, ma rientra nei compiti propri del giudice
stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, funzionalmente
pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti ed è perciò
suo potere ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente,
rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne
l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre che reputi del tutto
superflue e defatigatorie (Cass. 10/06/2016, n. 11892).
10.3. Per completare il ragionamento mette conto ricordare che, con
riferimento alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, per costante
giurisprudenza, non è configurabile né un obbligo di analizzare una per una le
argomentazioni fornite dalle parti, essendo sufficiente che il giudice le valuti
nel loro complesso e decida poi gli elementi su cui fondare il proprio
convincimento, disattendendo implicitamente i restanti; né un obbligo di
esaminare analiticamente il materiale probatorio raccolto. Nella sentenza
denunciata vi è l’esposizione delle argomentazioni in fatto ed in diritto poste a
fondamento della adottata decisione, fedelmente riproduttive dell’iter logicogiuridico seguito dal giudice, il quale se non si è soffermato nella disamina di
tutte le argomentazioni sviluppate dalle parti vuol dire che le ha ritenute non
pertinenti e non risolutive ai fini della definizione del giudizio.
11. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile.
11.1. Un’attenta lettura della sentenza consente di escludere la ricorrenza
del vizio lamentato, giacché non è neppure vero che la Corte non abbia preso
in considerazione i fatti indicati e asseritamente decisivi: cfr. p. 16 della
sentenza, in ordine ai presupposti dell’azione revocatoria, p. 18, quanto al
rapporto di amicizia dei Conti con i Santonocito, p. 18, quanto all’incidenza
9

10.2. In aggiunta, è vero che spetta alle parti proporre i mezzi di prova

delle sorti del giudizio penale, p. 16, quanto al difetto di prova

)

i

dell’adempimento dell’obbligo di informazione. È vero, invece, che li ha valutati
diversamente da come aspicato dal ricorrente. E il vizio ricondotto alla
categoria logica dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. non ricorre quando la
censura riguardi apprezzamenti di fatto di deduzioni difensive difformi da quelli
propugnati da una delle parti, poiché, a norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel

individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare le prove,
controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze
probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass.
12/10/2017, n. 23940).
12. Ne consegue il rigetto del ricorso.
13. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
14. Si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e Condanna il ricorrente al pagamento, in favore
della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro
8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per
cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma del comma ibis dello stesso articolo 13.
Così deciso dalla Camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte
di Cassazione il 10/05/2018.

potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito

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