Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1919 del 25/01/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 25/01/2018, (ud. 03/10/2017, dep.25/01/2018),  n. 1919

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 23.11.2011, la Corte d’appello di Genova, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accolto l’opposizione proposta dagli eredi di P.E. avverso il decreto ingiuntivo con cui il Tribunale di Savona aveva ingiunto loro di pagare somme a titolo di ripetizione di indebito pensionistico maturato a carico del loro dante causa tra il 10.1.1979 e il 31.8.1995.

La Corte, per quanto qui rileva, riteneva che non vi fosse in specie prova del dolo del pensionato e che, conseguentemente, il debito in questione non potesse trasmettersi agli eredi giusta il disposto della L. n. 448 del 2001, art. 38, comma 10, secondo il quale il recupero dell’indebito pensionistico non si estende agli eredi del pensionato se non nel caso in cui si accerti il dolo del pensionato medesimo.

Contro tale statuizione ricorre l’INPS, con un unico motivo di censura. Gli eredi di P.E. resistono con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di censura, l’INPS lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 412 del 1991, art. 38, comma 10, L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 263, (come sostituito dalla L. n. 448 del 1998, art. 1), e L. n. 448 del 2001, art. 38, commi 7 e ss., per avere la Corte di merito escluso il dolo del pensionato sul rilievo che, al fine di risolvere la questione del divieto di cumulo tra l’indennità integrativa speciale, che il de cuius percepiva in quanto pensionato a carico dello Stato, e le quote fisse L. n. 160 del 1975, ex art. 10, di cui egli fruiva in quanto titolare di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, si era reso necessario un pronunciamento delle Sezioni Unite di questa Corte: ad avviso dell’INPS, infatti, il richiamo al pregresso contrasto di giurisprudenza sarebbe per un verso inconferente, siccome manifestatosi in un periodo successivo a quello di maturazione dell’indebito, e per altro verso inidoneo a testimoniare della buona fede dell’accipiens, dal momento che non avrebbe comunque potuto indurgli alcuna certezza circa la possibilità di essere esonerato dall’obbligo di dichiarare i redditi di cui era in possesso, onde avrebbe dovuto applicarsi il principio generale di settore secondo il quale l’omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già a conoscenza dell’ente previdenziale, abilita quest’ultimo a ripetere le somme indebitamente percepite.

Opposto assunto è sostenuto dagli odierni controricorrenti: a loro avviso, infatti, alla data del 1.1.1979 non era vigente alcun obbligo di comunicazione a carico del pensionato circa la titolarità di trattamenti previdenziali implicanti la corresponsione di importi collegati con le variazioni del costo della vita, dal momento che la L. n. 843 del 1978, art. 19 nulla dispone in tal senso, di talchè, in ragione della data di maturazione dell’indebito, la nozione di dolo rilevante nel caso di specie andrebbe ricercata nel R.D.L. n. 1422 del 1924, art. 80, vigente fino al 27.3.1989 (dal giorno successivo essendo entrato in vigore la L. n. 88 del 1989, art. 80), il quale non permetterebbe di valorizzare il mero silenzio del pensionato se non nell’ambito di un più vasto comportamento, adeguatamente preordinato, che con malizia o astuzia realizzasse un inganno ai danni dell’ente previdenziale.

Ciò premesso, il ricorso è fondato nei seguenti termini.

Deve anzitutto premettersi che la disciplina dell’indebito previdenziale va collegata, ratione temporis, al momento in cui si è verificata la corresponsione delle somme non dovute: in subiecta materia, infatti, il dolo riguarda un fatto causativo della cessazione dell’obbligazione di durata, che non è noto al debitore (così Cass. nn. 21019 del 2007 e 12097 del 2013), e la sua disciplina positiva non può che rifarsi al principio secondo cui tempus regit actum (Cass. S.U. n. 1315 del 1995). In secondo luogo, va rimarcato che, sebbene questa Corte abbia in passato sostenuto che dalla L. n. 843 del 1978, art. 19 non era desumibile alcun obbligo per il pensionato di comunicare all’INPS il possesso di altri trattamenti previdenziali implicanti la corresponsione di importi collegati con le variazioni del costo della vita (così Cass. n. 11008 del 1996), la più recente giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso di riconoscere che art. 19 cit., introducendo il principio dell’unicità dell’erogazione del trattamento volto all’adeguamento delle prestazioni previdenziali al costo della vita (sia esso quota aggiuntiva L. n. 160 del 1975, ex art. 10, o indennità integrativa speciale), contiene anche, sia pure per implicito, il divieto di una duplice percezione del trattamento e conseguentemente pone a carico del pensionato l’obbligo sia di informare l’INPS della propria condizione di percettore di un altro trattamento del genere, sia di segnalare – nell’ipotesi di mancata tempestiva informazione – che dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina l’adeguamento gli è stato corrisposto due volte contra legem: una sua più riduttiva interpretazione, che cioè individuasse nell’art. 19 cit. solo un precetto e non pure il correlato divieto o pretendesse di circoscrivere l’efficacia del precetto e del divieto alla sola sfera giuridica dei soggetti erogatori, violerebbe infatti il canone della ragionevolezza, non potendosi presumere che il legislatore non abbia tenuto in considerazione le difficoltà operative che notoriamente inficiano il buon funzionamento (e di riflesso l’economicità di gestione) della complessa e diversificata organizzazione del maggior ente previdenziale ed abbia voluto affidare solo alla sua responsabilità – e non anche a quella del cittadino destinatario della prestazione pensionistica – l’osservanza di una regola che si iscrive tra le più elementari misure di razionalizzazione della spesa pubblica richieste dall’esigenza e dall’urgenza di eliminare ingiustificate situazioni di privilegio (così, espressamente, Cass. n. 11320 del 1999, il cui dictum è stato ribadito da Cass. n. 7093 del 2007).

Tanto premesso, va ricordato che, già nel vigore del R.D.L. n. 1422 del 1924, art. 80, e ancor più dopo la riformulazione della disciplina dell’indebito ad opera della L. n. 88 del 1989, art. 52 la giurisprudenza di questa Corte si è orientata nel senso di ritenere che il dolo del pensionato, pur non potendo aprioristicamente considerarsi presunto sulla base della semplice silenzio, deve tuttavia ritenersi sussistente allorchè questi abbia disatteso l’obbligo legale di comunicare all’INPS determinate circostanze rilevanti ai fini della sussistenza e della misura del diritto a pensione (cfr., fra le tante, Cass. n. 4849 del 1986): più precisamente, si è affermato che il comportamento omissivo dell’assicurato è dalla legge equiparato al dolo, consentendo pertanto l’incondizionata ripetibilità delle somme indebitamente percepite, nei casi in cui la corresponsione di prestazioni non dovute dipenda dall’inosservanza di obblighi di comunicazione prescritti da specifiche norme di legge ovvero dall’indisponibilità, per l’ente erogante, delle informazioni necessarie ad accertare da solo la ricorrenza dei fatti occultati e decisivi ai fini dell’attribuzione o della conservazione del diritto, mentre omissioni e reticenze non rilevano nei casi in cui le situazioni ostative all’erogazione siano note all’ente previdenziale ovvero siano da esso conoscibili facendo uso della diligenza richiestagli dalla sua qualità di soggetto erogatore della prestazione, dal momento che, in questi casi invero, il comportamento omissivo del percipiente, ancorchè in malafede, non è determinante della indebita erogazione e non può dunque costituire ragione di addebito della stessa (così, in specie, Cass. n. 11498 del 1996).

E’ alla stregua di tale orientamento consolidato che la Corte costituzionale ha rilevato come, nell’ambito dell’ordinamento previdenziale, sia individuabile un principio di settore che riguarda il tema dell’indebito ed implica, sia pure in termini bisognosi di specificazione in rapporto alle varie ipotesi di prestazioni, che, diversamente dalla regola generale di incondizionata ripetibilità dell’indebito posta dall’art. 2033 c.c., trovi applicazione la diversa regola, propria di tale sottosistema normativo, che esclude la ripetizione in presenza di una situazione di fatto avente come minimo comun denominatore la non addebitabilità al percipiente della erogazione non dovuta (cfr. in tal senso Corte cost. n. 431 del 1993). Prova ne sia che lo stesso giudice delle leggi non ha mancato di rilevare che, quando ricorra tale ipotesi, diventa irrilevante l’accertamento in punto di fatto del dolo dell’interessato: come si legge nella sentenza n. 166 del 1996, “l’irrilevanza dello stato di buona o mala fede si argomenta indirettamente dal principio – ora esplicitato dalla L. n. 412 del 1991, art. 13, comma 1, – secondo cui nel caso di omessa o incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall’ente competente, le somme indebitamente percepite sono ripetibili per questo solo fatto, indipendentemente dalla prova della mala fede dell’interessato (che sarà rilevante, ai sensi dell’art. 2033 c.c., solo ai fini del diritto agli interessi dal giorno del pagamento). Simmetricamente, la medesima regola di irrilevanza dell’elemento soggettivo deve valere nell’ipotesi inversa all’effetto della non ripetibilità”.

Così ricostruito il tessuto normativo, per come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte e dalle pronunce del giudice delle leggi, deve concludersi che la sentenza impugnata meriti la censura mossale.

Ragioni di sistematica dell’ordinamento previdenziale (già esplicitate da Cass. n. 18569 del 2008 e rimarcate da Cass. n. 20054 del 2016) impongono infatti di ritenere che il dolo che, a norma della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 263, (nel testo sostituito dalla L. n. 448 del 1998, art. 63), e L. n. 448 del 2001, art. 38,comma 10, consente la ripetibilità dell’indebito nei confronti degli eredi del pensionato non sia altra cosa dal dolo che tale ripetibilità consente anche nei confronti del pensionato medesimo, dovendo anche in tali casi trovare applicazione il principio generale di settore secondo cui è equiparata al dolo l’inosservanza di obblighi di comunicazione prescritti da specifiche norme di legge di fatti e circostanze incidenti sul diritto o sulla misura della pensione che non siano conosciuti dall’ente competente. Nè può rilevare in contrario la circostanza che la L. n. 412 del 1991, art. 13, comma 1, sia stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui è applicabile anche ai rapporti sorti precedentemente alla data della sua entrata in vigore o comunque pendenti alla stessa data (Corte cost. n. 39 del 1993): in disparte il fatto che la stessa Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 166 del 1996, si è riferita alla disposizione ult. cit. come esplicitante un principio già immanente all’ordinamento previdenziale, l’anzidetta conclusione discende dall’interpretazione dianzi ricostruita delle disposizioni già contenute nel R.D.L. n. 1422 del 1924, art. 80, e L. n. 88 del 1989, art. 52 per come affermatasi nella costante giurisprudenza di questa Corte, e avvalora piuttosto la conclusione che la portata innovativa della L. n. 412 del 1991, art. 13, comma 1, come tale destinata ad operare all’indomani della sua entrata in vigore, concerna piuttosto l’imposizione al pensionato di un più ampio obbligo di collaborazione nella segnalazione di “fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall’ente competente”, da ricondurre al generale dovere di correttezza nell’attuazione del rapporto obbligatorio di cui all’art. 1175 c.c..

Vale piuttosto la pena di soggiungere che l’equiparazione al dolo dell’omessa comunicazione, prescritta da norme di legge, di fatti e circostanze incidenti sul diritto e la misura della pensione non appare prima facie suscettibile di censure d’incostituzionalità per irragionevole disparità di trattamento di situazioni ontologicamente differenti, atteso che il dolo ben può atteggiarsi quale dolo omissivo, cioè come volontà illuminata dalla consapevolezza del significato socialmente rilevante del mantenimento della situazione esistente.

Il ricorso, pertanto, va accolto e, cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2018

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