Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19189 del 15/09/2020

Cassazione civile sez. III, 15/09/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 15/09/2020), n.19189

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. R.G.N. 12209/2018 proposto da:

P.M., domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLACORTE

DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’AVVOCATO SALVATORE

TRIGILA;

– ricorrente –

contro

V.C., domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’AVVOCATO MARCELLA

LO GIUDICE;

– ricorrente incidentale –

e contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, già MILANO ASSICURAZIONI SPA, in

persona del procuratore speciale F.E., domiciliata

elettivamente in Roma presso lo studio dell’AVVOCATO MARCO

ANNECHINO, Via Cassiodoro 1/A, rappresentata e difesa dall’AVVOCATO

SANTO SPAGNOLO;

– controricorrente –

e contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI SIRACUSA;

– intimata –

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’8/07/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.M. rappresenta in fatto di essere stata sottoposta, il (OMISSIS), presso l’Ospedale (OMISSIS), ad un intervento di colangiopancreatografia retrograda endoscopica (in sigla CPRE), eseguito da V.C., chirurgo endoscopista, senza alcun preventivo accertamento ecografico e senza alcuna specifica informazione di carattere medico circa gli eventuali rischi ad esso connessi nè circa le ipotizzabili alternative chirurgiche.

L’intervento di CPRE veniva interrotto dopo il fallimento di vari tentativi di incannulare le vie biliari con la sonda dello strumento chirurgico, senza avere risolto il problema patologico ed anzi aggravando il pregresso quadro clinico, tant’è vero che il giorno successivo, all’esito di una TAC con cui le veniva diagnosticata una pancreatite acuta con versamento endoaddominale, P.M. veniva immediatamente ricoverata presso il Centro di Rianimazione del medesimo Ospedale (OMISSIS), per poi essere trasferita, il (OMISSIS), in elicottero al Policlinico (OMISSIS). Qui veniva sottoposta ad una massiccia terapia farmacologica per circa 50 giorni e poi dimessa in data (OMISSIS).

Dopo aver infruttuosamente cercato di ottenere stragiudizialmente il risarcimento dei danni subiti dall’Ospedale (OMISSIS) e da V.C., l’odierna ricorrente chiedeva ed otteneva dal Tribunale di Catania di essere sottoposta ad accertamento tecnico preventivo. Da esso emergevano un danno biologico permanente dell’8%, una riduzione della capacità lavorativa specifica dell’8%, una invalidità temporanea assoluta di 100 giorni ed una invalidità temporanea al 50% di 60 giorni.

Si determinava, quindi, a citare in giudizio, dinanzi al Tribunale di Catania, l’Ospedale (OMISSIS) e V.C., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni; in via subordinata, agiva a titolo extracontrattuale nei confronti di V.C..

I convenuti, costituitisi, chiedevano il rigetto della domanda risarcitoria; V.C. otteneva di chiamare in causa la Milano Assicurazioni che aveva incorporato la Previdente Assicurazioni.

Il Tribunale di Catania non accoglieva la domanda risarcitoria dell’attrice e la condannava al pagamento delle spese di lite per Euro 12.500,00.

La Corte d’Appello di Catania, investita del gravame dalla soccombente, con la sentenza n. 388/2017, riformava la decisione di prime cure, in quanto, contrariamente al Tribunale, ravvisava la responsabilità del chirurgo endoscopista e della struttura sanitaria per la causazione dei danni lamentati e li condannava, in solido fra loro, al relativo risarcimento, nella misura di complessivi Euro 25.595,00 per danno biologico e per spese vive documentate, oltre al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

La sentenza viene impugnata dalla odierna ricorrente per cassazione, con ricorso depositato il 24 aprile 2018, basato su tre motivi, ribaditi e ulteriormente argomentati con memoria, cui replicano con separati controricorsi V.C. e UnipolSai, già Milano Assicurazioni.

Avverso la medesima sentenza della Corte d’Appello di Catania ricorre V.C. con ricorso depositato il 26 aprile 2018. Detto ricorso, che deve considerarsi, dunque, incidentale e che deve essere riunito a quello di P.M., si fonda su quattro motivi.

Ad esso resistono, con separati controricorsi, P.M. e UnipolSai.

Diritto

RAGIONI DI DIRITTO

Ricorso principale di P.M..

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la “Mancata liquidazione del danno morale – Violazione dell’art. 2059 c.c. e delle Tabelle del Tribunale di Milano elaborate nell’anno 2014 per la liquidazione del danno non patrimoniale in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

La tesi sostenuta è che la Corte territoriale, senza alcuna ragione, abbia omesso di liquidare il danno morale pur espressamente chiesto nella misura corrispondente alla “personalizzazione” (+50%) del danno biologico prevista dalle Tabelle del Tribunale di Milano per la fascia di età (anni (OMISSIS) all’epoca del sinistro) e per la percentuale di danno biologico accertata (8%); omettendo di liquidarlo il giudice a quo sarebbe incorso nel vizio di violazione di norma di diritto, così dovendosi considerare lo scostamento immotivato dalle Tabelle di Milano, e si sarebbe posto in palese ed insanabile contrasto con l’evoluzione della nozione giuridica di danno non patrimoniale e con l’orientamento nomofilattico di questa Corte.

La Corte d’Appello avrebbe assunto tale erronea decisione per non avere considerato la situazione di fatto sottoposta al suo esame, dalla quale emergevano puntuali elementi e circostanze che avrebbero dovuto non solo suggerire, ma addirittura imporre la liquidazione del danno morale: a) l’astratta ricorrenza del reato di lesioni personali colpose (perseguibile d’ufficio avendo causato una malattia nel corpo o nella mente superiore a venti giorni); b) i gravi turbamenti e le immani sofferenze psico-fisiche patite dopo l’intervento endoscopico, atteso che ebbe un collasso poche ore dopo l’intervento con fortissimi dolori addominali e repentino innalzamento dei valori di amilasi e amilasuria, venne ricoverata presso il Centro di Rianimazione, a seguito della TAC eseguita l’indomani dall’intervento che permise di diagnosticare la pancreatite necrotico emorragica con versamento endoaddominale; venne trasferita d’urgenza in elicottero presso il Policlinico (OMISSIS) a seguito del progressivo decadimento delle condizioni cliniche generali, ove rimase ricoverata fino al (OMISSIS) (cinquanta giorni), subendo massicce terapie medico-farmacologiche per non incorrere in pericolo di vita; dovette ricoverarsi dal (OMISSIS) presso l’Ospedale (OMISSIS) per l’eliminazione della calcolosi, in seguito, dal (OMISSIS) presso la Casa di Cura (OMISSIS), in conseguenza di una forte colica addominale causata da una occlusione, diretta conseguenza del trauma patito per l’insorgenza della pancreatite, con successiva sottoposizione ad intervento chirurgico di laparotomia esplorativa, e, di nuovo, il (OMISSIS) presso la Casa di Cura “(OMISSIS)” per gli esiti di “pancreatite cronica – crisi sub occlusive ricorrenti gastrite antrale”, dove venne sottoposta a plurimi accertamenti clinici.

Il motivo merita accoglimento.

Pur dovendosi ribadire che la liquidazione del danno morale non è da considerare conseguenza automatica dell’avvenuto riconoscimento del danno biologico, deve tenersi conto del fatto che non può essere in ogni caso disconosciuta al danno morale autonoma consistenza, là dove esso si riferisca a profili di pregiudizio (il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione) non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente (Cass. 11/11/2019, n. 28999; Cass. 27/03/2018 n. 7513; Cass. 28/09/2018, n. 23469); la liquidazione del danno alla persona deve, infatti, aver luogo: evitando duplicazioni, misurandosi con l’unitarietà del danno non patrimoniale, ma anche assicurando alla vittima l’integrale riparazione del danno subito.

La preoccupazione concordemente manifestata dai giudici di legittimità è quella di evitare inammissibili duplicazioni risarcitorie, cioè il rischio di riconoscere alla vittima un ingiustificato arricchimento ascrivibile “direttamente” al riconoscimento di una liquidazione che sia il risultato della somma di poste risarcitorie che riguardino il medesimo pregiudizio ovvero derivante “indirettamente” dalla sopravvalutazione delle conseguenze della lezione occorsa.

Il fatto che la liquidazione debba essere unitaria (Cass. 17/01/2018, n. 901 ha chiarito che unitarietà significa che la lesione di un interesse della persona costituzionalmente protetto avente carattere di inviolabilità produce un danno non patrimoniale) non può risultare lo schermo dietro cui celare liquidazioni astratte e non trasparenti, e men che mai può tradursi in una arbitraria ed immotivata contrazione del risarcimento.

Ad impedire tale ultima eventualità vi è il fatto che oltre che unitario il danno non patrimoniale deve essere omnicomprensivo, cioè deve garantire che la vittima ottenga l’integrale risarcimento del danno, venendo compensata di tutte le conseguenze pregiudizievoli cagionate dall’illecito. In aggiunta, ove ricorra il danno biologico deve escludersi che esso esaurisca il danno non patrimoniale alla persona (Cass. n. 21/09/2017, n. 21939; Cass. 07/11/2014, n. 23778). Solo una logica deformante di panbiologizzazione che, per di più, fraintende il significato della omnicomprensività, può indurre a credere che il danno biologico abbia carattere assorbente ed esclusivo di ogni altra voce di danno alla persona (Cass. 17/01/2018, n. 901 sottolinea che tale tesi è stata sconfessata, al massimo livello interpretativo, da Corte Cost. 16/10/2014, n. 235 e dalla recente riforma del 2016 – cd. legge di stabilità- che, nel modificare la stessa rubrica degli artt. 138 e 139 del C.d.A., ha esplicitamente riconosciuto l’autonomia del danno morale rispetto a quello dinamico-relazionale: in argomento, funditus, Cass. 27/03/2018, n. 7513, cit.).

In aggiunta, nè l’unitarietà del danno non patrimoniale nè la diffusione e l’incentivazione all’uso delle tabelle di liquidazione esonerano il giudice dall’obbligo di rendere trasparenti i criteri di liquidazione adottati nè da quello di dare contezza del contenuto descrittivo del danno, non solo al fine di rendere intellegibile la funzione del risarcimento, ma anche di verificare il collegamento e la corrispondenza tra le poste ammesse al risarcimento, i criteri di liquidazione adottati e la somma in concreto riconosciuta alla vittima che deve essere tale da garantire e coniugare l’uniformità di base – ciò si realizza facendo in modo che vittime della stessa età e con la stessa percentuale di invalidità permanente ottengano lo stesso risarcimento – con la valorizzazione del vissuto individuale in vista della realizzazione di una eguaglianza che sia anche sostanziale. In concreto ciò significa che ove le proiezioni negative patite non divergano da quelle subite da altre vittime della stessa età e con lo stesso grado di invalidità permanente la vittima non avrà diritto al riconoscimento di un quid pluris rispetto alla somma riconosciuta a titolo di danno biologico, sulla scorta della liquidazione standardizzata realizzata con l’applicazione del metodo tabellare.

La richiesta risarcitoria di poste ulteriori andrà presa in considerazione, pertanto, ove siano soddisfatte due condizioni: 1) la pretesa risarcitoria non sia stata già riconosciuta; 2) vi sia la prova della ricorrenza di circostanze che ne giustifichino l’accoglimento.

La prima condizione chiama in causa la natura per così dire “onnicomprensiva” del danno biologico, sulla quale è bene dissipare equivoci.

Il danno biologico è non solo quello derivante dalla violazione dell’integrità psico-fisica in sè e per sè considerata, giacchè deve anche tener conto dei riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività realizzatrici della persona umana; la compromissione dinamico-relazione, da ritenersi conseguenza normale dell’evento, costituisce danno biologico, non per assorbimento, ma per identificazione (Cass. 27/03/2018, n. 7513). La vittima non può pretendere, in assenza di prova della ricorrenza di una situazione eccezionale, la liquidazione di un quid pluris, nè come voce autonoma di danno, diversamente etichettato e nominato, nè come adeguamento in sede liquidatoria di quanto già riconosciutole a titolo di danno biologico.

Diversa è l’ipotesi, che si è verificata nel caso di specie, in cui la vittima chieda il riconoscimento a fini risarcitori di una conseguenza pregiudizievole diversa dal danno biologico; per diversa dal danno biologico si intende una proiezione negativa dell’illecito che non abbia costituito la base di riferimento per la liquidazione del danno biologico.

Anche in questo caso bisogna intendersi. Non basta lamentare una generica sofferenza fisica, la quale non può che accompagnarsi al danno biologico patito – chi subisce un danno biologico sottoponendosi, ad esempio, ad uno o più interventi chirurgici, a terapie, a percorsi di riabilitazione, perde o vede ridotta e modificata la possibilità di intrattenere rapporti sociali (Cass. 27/03/2018, n. 7513; Cass. 07/11/2014, n. 23778; Cass. 23/09/2013, n. 21716; Cass. 16/05/2013, n. 11950). Altro e diverso aspetto del danno risulta la sofferenza interiore (danno cd. morale) che dipenda, ad esempio, da come il danneggiato percepisce la lesione nella relazione intimistica con sè stesso, dalle circostanze in cui si è manifestato l’illecito, dalla gravità della condotta dell’agente (Cass. 22/01/2015, n. 1126).

Ricorrendo tali ipotesi, la posta risarcitoria oggetto di richiesta si colloca inevitabilmente al di fuori del danno biologico, quindi, dovrà ad esso sommarsi, senza la preoccupazione di dar luogo ad una inammissibile duplicazione.

Al fine di bandire ogni automatismo occorre però che la vittima alleghi situazioni circostanziate, non bastando enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche, e che dimostri – può avvalersi, a tal fine, di ogni mezzo di prova, anche del fatto notorio, delle massime di esperienza e della logica inferenziale – la ricorrenza di conseguenze peculiari che nel caso concreto abbiano reso il pregiudizio sofferto diverso e maggiore rispetto ai casi consimili (Cass. 27/03/2018, n. 7513; Cass. 18/11/2014, n. 24471).

Applicando tali principi alla vicenda oggetto dell’odierna controversia, questo Collegio ritiene che la ricorrente abbia correttamente prospettato l’erronea pretermissione dei profili pregiudizievoli ulteriori e diversi da quelli insiti nella liquidazione del danno biologico da parte della Corte territoriale, attraverso la deduzione di una serie articolata di fatti e di circostanze che avrebbero dovuto quantomeno far presumere che, pure a fronte di un danno biologico di entità contenuta, la sofferenza e l’angoscia patite esorbitassero i limiti della sofferenza che insita nel danno biologico, in quanto sua componente essenziale e non eliminabile: ricovero in terapia intensiva, trasferimento d’urgenza in elisoccorso in altro ospedale, plurimi ricoveri successivi al primo intervento, resisi necessari per fronteggiare gli esiti negativi del medesimo, necessità di continuo monitoraggio delle proprie condizioni di salute.

La Corte d’Appello si è limitata a liquidare alla vittima il danno biologico da invalidità temporanea e permanente, secondo le Tabelle di Milano vigenti, quantificandolo complessivamente in Euro 24.409,00, al netto degli accessori, ma il percorso liquidatorio non soddisfa affatto l’esigenza di trasparenza, perchè non contiene alcuna chiara specificazione delle ragioni alla base della decisione della Corte d’Appello di accogliere evidentemente solo la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno biologico e di disattendere quella avente ad oggetto, in aggiunta, il risarcimento del danno morale, non permette di verificare la corrispondenza tra il quanto liquidato, il quanto richiesto ed il dovuto, nè pare conforme alla giurisprudenza di questa Corte quanto alla liquidazione del danno alla persona.

2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la “Mancata liquidazione del danno alla capacità lavorativa specifica accertata dal CTU e provata in atti Violazione degli artt. 1223 e 2043 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili contenuti in sentenza – Violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

La ricorrente rappresenta di avere chiesto, tanto nel giudizio di primo grado quanto nel giudizio di appello, la liquidazione del danno alla capacità lavorativa specifica accertato e quantificato dal consulente in sede di accertamento tecnico preventivo nella misura dell’8%, individuando, in sede di precisazione delle conclusioni, i relativi importi. La Corte Territoriale ha ritenuto di non poterlo liquidare per difetto di prova, non giudicando sufficiente – perchè carente di alcuna specificazione atta a ricondurre l’idoneità al lavoro all’evento dannoso e perchè non chiariva perchè la richiedente potesse regolarmente esplicare la sua attività lavorativa in alcune fasce orarie e non in altre – la dichiarazione di inidoneità al servizio pomeridiano e notturno, attestata dal Servizio di medicina del Lavoro del (OMISSIS) e confermata dal medico competente della struttura ospedaliera ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994.

La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto anche delle altre prove offerte in giudizio e asseritamente non contestate dalla controparte – lo svolgimento dell’attività di ostetrica, il riscontro, in sede di accertamento tecnico preventivo, di una riduzione della capacità lavorativa specifica dell’8%, la certificazione neuropsichiatrica dell’occorrenza di un lieve deficit della memoria a breve termine, di ansia generalizzata e situazionale, deflesso tono dell’umore, labilità emotive e turbe della cenestesi, la TAC dell’addome superiore e inferiore, l’ecografia addominale, una busta paga del giugno 1999 riportante la retribuzione mensile di Lire 3.696.000 netti percepita in epoca anteriore al sinistro e una busta paga del marzo 2001 comprovante una retribuzione di Lire 2.642.000 netti, la copia della busta paga di altro collega di lavoro con identico inquadramento (Collaboratore Professionale Sanitario – Cat. D) di Lire 3.144.000 netti, da cui risultava la differenza stipendiale di circa Lire 500.000 mensili e la mancata percezione di tutte le varie indennità che oramai la ricorrente aveva perduto a seguito del divieto di svolgere lavoro in turni (quindi lavoro notturno, festivo, etc.), la copia del CUD 1999 attestante un reddito da lavoro dipendente nell’anno 1998 complessivamente pari a Lire 49.376.056 e copia del CUD 2001 riportante per l’anno 2000 un reddito pari a Lire 42.973.233, cioè con una differenza di circa Lire 7.000.000 in meno l’anno, le buste paga successive del 2002 (aprile ottobre-novembre) e del 2003 (marzo-aprile-maggio) tutte riportanti una retribuzione netta media e costante di Euro 1.360,00/1.370,00 circa mensili corrispondenti alle precedenti retribuzioni in lire di 2.600.000 circa mensili nonchè la busta paga di luglio 1998 di Lire 3.130.000 dianzi detta che, moltiplicata per le n. 14 mensilità percepite, confermava la differenza stipendiale risultante dal raffronto dei due CUD sopra menzionati di circa Lire 7.000.000 annui – rendendosi responsabile di un contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili oltre che della violazione dell’art. 115 c.p.c., che impone al giudice di “porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti (..) nonchè i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”.

E prima ancora, secondo la ricostruzione difensiva della ricorrente, la Corte territoriale sarebbe incorsa in un contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili desumibili dallo stesso testo della sentenza, là dove dapprima dichiarava di voler procedere ad una mera quantificazione del danno – avendolo dato per accertato in punto di “an” in base alle risultanze della relazione di CTU mentre nel rigo successivo sosteneva di non poterlo liquidare per mancanza di prova in atti.

Il motivo merita accoglimento.

La motivazione della sentenza non si fonda su un’argomentazione che faccia ben intendere le ragioni per le quali il giudice a quo ha ritenuto di discostarsi dagli esiti dell’accertamento tecnico preventivo – pure espressamente richiamato a p. 9, nel punto in cui il provvedimento impugnato ha affermato che la quantificazione del danno sarebbe stata effettuata tenendone conto – dal quale emergeva una incidenza dell’evento dannoso dell’8% sulla capacità di lavoro specifica e non è esauriente rispetto ad un altro dato di fatto che risulta documentato in atti, vale a dire la contrazione del reddito della vittima dopo l’evento di danno. La decisione si affida ad un solo argomento: la documentazione prodotta – il riferimento è alla dichiarazione di inidoneità al servizio pomeridiano e notturno dell’appellante attestata dal servizio di medicina de lavoro e confermata dalla medico competente della struttura ospedaliera – difetta di specificazione in ordine alla riconduzione della predetta inidoneità all’evento dannoso e non sono comprensibili le ragioni per cui l’inabilità riguarderebbe solo i turni pomeridiani e festivi e non le altre fasce orarie.

Ora, anche il danno da riduzione della capacità lavorativa specifica non è automaticamente riconoscibile neppure in presenza di un danno biologico di particolare intensità; spetta a chi ne invochi il riconoscimento l’onere di provarne la sussistenza anche presuntivamente unitamente a quello di fornire al giudice gli elementi sulla scorta dei quali quantificarlo.

Nel caso di specie, alla parte ricorrente in sede di accertamento tecnico preventivo era stato riconosciuto un danno da perdita della capacità lavorativa specifica dell’8%, era stata versata in atti documentazione da cui risultava che la vittima aveva subito dopo l’evento di danno una contrazione di reddito, derivante dal fatto di non poter prestare la sua attività lavorativa anche per il turno di servizio pomeridiano e notturno.

La motivazione sul punto della Corte d’Appello risulta laconica ed assertiva, oltre che illogica, visto che la incapacità di attendere a turni di lavoro serali e notturni ben avrebbe potuto mettersi in relazione quantomeno con la maggiore usura e la maggiore penosità del lavoro derivante dai postumi permanenti derivanti dall’intervento, che il giudice a quo ha del tutto omesso di prendere in considerazione.

3. Con il terzo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per “Erronea liquidazione delle spese vive e dei compensi – Violazione delle indicazioni contenute nella nota spese in ordine agli esborsi e spese vive documentate in atti”.

Pur difettando la riconduzione della censura formulata ai vizi di cui all’art. 360 c.c., deve ritenersi che la ricorrente lamenti la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La nota spese, al pari delle altre domande dell’attore, soggiace alla regola per cui deve esservi corrispondenza tra ciò che è chiesto e ciò che è pronunciato (Cass. 26/06/2019), n. 17057).

Non avendo, tuttavia, la parte ricorrente soddisfatto l’onere di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, la censura formulata deve ritenersi non meritevole di accoglimento.

Risulta riportato in atti un elenco di voci di spesa, ma non c’è alcun riferimento nè diretto nè indiretto che consenta a questa Corte di verificare se la domanda relativa a dette spese sia stata ritualmente e tempestivamente formulata, giacchè solo in tal caso, la Corte d’Appello, non avendo fornito alcuna giustificazione delle ragioni per cui ha ritenuto di non accogliere la richiesta di rimborso di talune voci di spesa, sarebbe incorsa nel vizio denunciato.

Ricorso incidentale V..

4. Con il primo motivo V.C. deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “l’omessa valutazione dell’esistenza della refertazione dell’esame ecografico prodromico all’ECRP”, per avere la Corte territoriale ritenuto erroneamente che “in ordine alla mancanza del preventivo esame ecografico è stato solo dimostrato che l’appellante lo effettuò qualche giorno prima dell’intervento in amicizia presso un radiologo della stessa struttura sanitaria che però non le consegnò la lastra. Ciò non esime, però, la struttura ospedaliera e il medico endoscopista dall’effettuare ulteriore ecografia, mancando il referto fotografico che doveva essere visionato dall’operatore sanitario alfine di valutare, con prudenza e perizia, la fattibilità dell’intervento e i rischi ad esso connessi”.

La Corte d’Appello, secondo l’endoscopista, non avrebbe tenuto conto che P.M., in sede di interrogatorio libero delle parti, aveva ammesso di essere stata sottoposta ad un esame ecografico prima della CPRE, che l’indicazione a procedere proprio alla esecuzione della CPRE era emersa dalle risultanze del medesimo esame ecografico che aveva individuato una calcolosi colecistica, che dell’avvenuto esame ecografico vi erano in atti i referti – dichiarazione del radiologo e dichiarazione del primario della I divisione di Chirurgia Generale – non sottoposti a querela di falso nè ad altra contestazione e quindi aventi pieno valore di prova. Di conseguenza, omettendo la valutazione di un fatto decisivo, cioè l’esistenza delle risultanze documentali dell’ecografia del (OMISSIS), pur avendo costituito oggetto di discussione tra le parti, la sentenza impugnata sarebbe giunta ad una decisione errata, motivandola in parte con uno stralcio della CTU suppletiva del secondo grado di giudizio, da cui sarebbe emersa non la prova che nessun accertamento ecografico avesse preceduto l’intervento di CPRE, ma solo che esso non risultasse dalla cartella clinica, parlandosi solo di una refertazione orale.

La Corte territoriale, ove avesse esaminato la refertazione, considerato che anche solo il sospetto di una calcolosi colecistica obbligava a procedere alla CPRE, anche secondo l’unanime parere espresso in tutte le consulenze medico-legali d’ufficio, avrebbe dovuto trarne la conseguenza che esisteva in atti una indicazione precisa in ordine alla necessità di eseguire la CPRE piuttosto che concludere che, data l’assenza di un preliminare esame ecografico, l’endoscopista non avesse valutato “con prudenza e perizia, la fattibilità dell’intervento e i rischi ad esso connessi” (in sentenza impugnata, pag. 7).

Il motivo è inammissibile. In aggiunta al fatto che chi deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è tenuto ad assolvere specifici oneri di allegazione, nel caso di specie non soddisfatti – è sufficiente por mente al fatto che l’accertamento ecografico del (OMISSIS) più volte menzionato non è stato localizzato nè direttamente nè indirettamente, così come la refertazione cui si fa riferimento – il mezzo impugnatorio è del tutto eccentrico rispetto alla motivazione della sentenza impugnata che imputa ai danneggianti: a) di non avere provveduto ad effettuare un’ulteriore ecografia – in aggiunta a quella eseguita a titolo di amicizia da un radiologo della stessa struttura che non consegnò il referto, la lastra, ma si limitò a riferirne verbalmente; la Corte d’appello quindi non ha omesso di tener conto che tale radiografia era stata eseguita, ma ha ritenuto che ciò non esimesse il nosocomio e l’endoscopista dall’obbligo di eseguirne una ulteriore, mancando la lastra; b) di doversi fare carico delle conseguenze negative derivanti dalle colpose omissioni della cartella clinica. Tale ultimo comportamento omissivo non è stato attinto dalle censure della ricorrente, ma deve riconoscerglisi, come non ha mancato di fare la Corte d’Appello, rilievo assorbente e conducente rispetto alle censure formulate. Dalla CTU è emerso in maniera inequivoca che l’esecuzione dell’intervento di CPRE doveva essere preceduto da un esame ecografico delle vie biliari, di conseguenza, l’intervento eventualmente eseguito in assenza di detto esame avrebbe dovuto considerarsi causalmente idoneo a cagionare l’evento dannoso; l’incompletezza della cartella ha impedito la ricostruzione fattuale sul piano concreto, e in particolare nel suo nucleo centrale, identificabile nella connessione materiale eziologica fra condotta sanitaria omissiva ed evento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui ha aderito la sentenza impugnata, “la valenza della incompletezza della cartella si pone, attraverso il mezzo presuntivo – su cui, a ben guardare, si riflette in concreto il principio della prossimità della prova – a favore di chi adduce di essere stato danneggiato, giacchè diversamente l’incompletezza verrebbe a giovare proprio a colui che, inadempimento al proprio obbligo di diligenza (Cass. 18/09/2009 n. 20101 precisa che “il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176 c.c., comma 2 e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”; la giurisprudenza successiva è conforme), tale incompletezza ha creato.

In aggiunta l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente quando, come nel caso di specie, il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno (Cass. 21/11/2017, n. 27561).

5. Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente denuncia “violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione alla valenza probatoria dei fatti emersi in giudizio e delle prove allegate dalle parti e non contestati”.

L’errore rimproverato alla Corte è quello di non aver fondato la propria decisione: a) nè sui fatti emersi con l’interrogatorio libero delle parti, disposto dal Giudice di primo grado, con ordinanza del 24/09/2006, in cui si era raggiunta la prova, per ammissione della stessa P., che l’esame ecografico del (OMISSIS) era stato correttamente eseguito qualche giorno prima della colangiopancreatografia retrograda endoscopica, presso lo studio privato del Dott. B., e che l’indicazione a procedere proprio alla esecuzione della CPRE, emergeva dalle risultanze del medesimo esame ecografico, con cui era stata individuata una calcolosi alla colecisti; b) nè sulle prove allegate dalle parti, e precisamente, sulla dichiarazione a firma dal Dott. B., del 27/11/2001, sulla dichiarazione agli atti del 31/01/2000, del primario Dott. Bo. della I Divisione di Chirurgia Generale dell’Azienda Ospedaliera (OMISSIS), nonchè sul certificato della visita endoscopica del 16/12/1998, in cui all’anamnesi viene riportata l’ecografia del (OMISSIS) con la sua refertazione (calcolosi colecisti-calcolosi VBP).

Pertanto, in violazione dell’art. 115 c.p.c., la Corte territoriale, nonostante il probatum conducesse, stante l’accertata esecuzione dell’ecografia e la diagnosi di calcolosi del coledolo, all’esclusione di qualsivoglia responsabilità medica in capo all’endoscopista e nonostante il probatum non fosse stato contestato dalla controparte, illogicamente avrebbe laconicamente rinviato, errando e mal interpretandole, alle conclusioni dei consulenti d’ufficio.

Il motivo è inammissibile.

La ricorrente incentra il proprio apparato difensivo su circostanze non dimostrate e cioè che la radiografia eseguita in via amichevole dal radiologo avesse confermato la indicazione terapeutica di esecuzione della CPRE.

Quando sia denunciato, con il ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza, sotto il profilo dell’omesso esame di fatti dal parte del CTU, è necessario che il ricorrente non si limiti a censure apodittiche di erroneità e/o di inadeguatezza della motivazione, o anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, ma precisi e specifichi, sia pure in maniera sintetica, le risultanze e gli elementi di causa dei quali lamenta la mancata od insufficiente valutazione, evidenziando, in particolare, le eventuali controdeduzioni alla consulenza d’ufficio che assume non essere state prese in considerazione, ovvero gli eventuali mezzi di prova contrari non ammessi, per consentire al giudice di legittimità di esercitare il controllo sulla decisività degli stessi, che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere effettuato sulla sola base delle deduzioni contenute in tale atto (Cass. 03/08/1999, n. 8383).

Invece, non risulta individuato nel ricorso il referto che il CTU non avrebbe esaminato, senza che la Corte d’Appello adottasse i provvedimenti necessari, come lamentato dalla ricorrente, tantomeno risulta che alla CTU la ricorrente abbia mosso rilievi specifici proprio in relazione al mancato esame di tale referto; il che non fornisce a questa Corte gli elementi per valutare la decisività del fatto omesso e rende inammissibile il mezzo impugnatorio, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (cfr. in tal senso Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34469).

Ma v’è di più: anche ad ammettere che il radiologo avesse prospettato il sospetto di una calcolosi colecisti e che fosse necessario ricorrere alla CPRE, ciò che viene rimproverato alla odierna ricorrente è di avere eseguito detto intervento senza farlo precedere da una ripetizione dell’esame radiologico che ne indicasse l’utilità diagnostica e/o terapeutica.

Il fatto che la ecografia fosse stata eseguita e che l’esito fosse stato comunicato alla paziente – circostanze emerse in sede di interrogatorio formale, come documentato dalla ricorrente a p. 3 del ricorso – non provano che l’endoscopista si fosse determinata ad eseguire l’intervento proprio sulla scorta delle risultanze ecografiche. Questo aspetto è messo bene in evidenza dalla sentenza che, infatti, prende in considerazione, al fine di discostarsene, l’affermazione del Tribunale che aveva ritenuto probabile che il referto fosse stato visionato dall’endoscopista e fosse stato poi restituito alla paziente, visto che si trattava di un accertamento eseguito privatamente. Non essendo stata rinvenuta la lastra, non essendovi traccia dell’esame eseguito nella cartella clinica, il fatto che il radiologo avesse individuato tramite la radiografia la calcolosi e che avesse suggerito alla paziente la CPRE non fornisce indicazioni sulla fattibilità di detto intervento e sul tipo di indicazione formulata: per confermare una diagnosi di sospetta calcolosi colecistica o per prelevare campioni di tessuto a scopo diagnostico, essendo il gold standard per la diagnosi preoperatoria della calcolosi della via biliare comune.

Non vi è invece alcuna prova che la endoscopista si fosse determinata ad eseguire la CPRE proprio perchè indirizzatavi dagli esiti dell’esame strumentale, nè la prova che la CPRE fosse da utilizzare non a scopo, ad esempio, diagnostico, per confermare i sospetti emersi dalla ecografia, bensì a scopo terapeutico, come era avvenuto.

Sono destituite di fondamento, pertanto, le censure mosse alla sentenza impugnata, basate su asserti che non trovano supporto nei fatti di causa, come accertati dal giudice e come conosciuti da questa Corte.

6. Con il terzo motivo, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente imputa al giudice a quo la “violazione e falsa applicazione degli artt. 346 c.p.c., in relazione alla rinuncia alla domanda di manleva”, per avere erroneamente ritenuto che “in ordine alla posizione della Milano Ass.ni S.p.A., la Corte non è chiamata a statuire, non avendo, V.C. espressamente e tempestivamente riproposto in appello, ai sensi e dell’art. 346 c.p.c., la chiamata in garanzia della compagnia effettuata in primo grado, con conseguente rinuncia all’azione” (pag. 11 in sentenza impugnata).

La ricorrente conferma di non avere espressamente proposto la domanda di manleva, ma contesta di avervi mai rinunciato e ritiene che la Corte d’Appello avrebbe dovuto decidere nel merito riguardo ad essa, perchè, sanando di fatto la mancata esplicita riproposizione della domanda, Milano Assicurazioni, con il suo appello incidentale, aveva chiesto, per il caso di accoglimento dell’appello principale, “di rigettare qualsivoglia domanda e da chiunque proposta in danno della Milano Ass.ni S.p.A. e in subordine, ridotta la domanda attorea a quanto di ragione, contenere la condanna dell’odierna comparente nei limiti della quota di responsabilità ascrivibile al proprio assicurato e nei limiti del contratto di assicurazione ” (cfr. comparsa di costituzione e risposta di Milano Ass.ni del II grado di giudizio). La prospettiva difensiva della ricorrente, posto che l’art. 346 c.p.c., non indica le forme con le quali l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, è volta a sostenere che la domanda avrebbe dovuto considerarsi come egualmente sottoposta al giudice di appello in base al complesso dei motivi e delle difese esposte, rivelatrici di tale intento (Cass. 4/05/2007, n. 12162) in applicazione del principio secondo cui sebbene sia imposto alla parte vittoriosa in primo grado di richiamare le questioni stesse nelle proprie difese onde evitare la presunzione di rinuncia, tuttavia solo una rinuncia espressa o implicita, che nel caso di specie non è neppure desumibile, sarebbe valsa a far ritenere applicabile al caso di specie la decadenza prevista dall’art. 346 c.p.c. (in tal senso Cassazione civile, sez. III 25/09/2014 n. 20172).

Il motivo merita accoglimento.

Nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonchè dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta. Erra il giudizio che estenda tale potere fino al punto di ritenere come “implicitamente rinunciata una domanda” in precedenza formulata, sol perchè essa non era stata riformulata in sede di precisazione delle conclusioni. Tale valutazione risulta errata, perchè il comportamento concludente o implicito di una parte non può rilevare quale rinuncia a far valere una pretesa, che in sede processuale deve risultare espressa, secondo la regola del giusto contraddittorio che esige che sia chiaramente individuato il perimetro della lite. Difatti, la stessa mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda in precedenza formulata non autorizza alcuna presunzione di rinuncia tacita in capo a colui che ebbe originariamente a proporla, essendo necessario che, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, possa desumersi inequivocabilmente il venir meno del relativo interesse (Cass. 16/02/2010, n. 3593).

Peraltro, nel caso di specie, come la ricorrente rileva in maniera pertinente, che la domanda di manleva non fosse uscita dal perimetro della lite risulta inequivocamente dalle difese della chiamata in manleva.

7. Con il quarto ed ultimo motivo, V.C., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, assume la “Nullità della sentenza in relazione alla consulenza d’ufficio dell’accertamento tecnico preventivo, atto già dichiarato nullo nel primo grado di giudizio”.

La Corte territoriale sarebbe incorsa nel vizio denunciato, quando, in accoglimento della domanda risarcitoria dell’appellante, ha ritenuto che la quantificazione dei danni subiti potesse essere effettuata sulla scorta dell’accertamento tecnico preventivo del 20/06/2001 che aveva riscontrato un danno biologico dell’8%, un danno da capacità lavorativa specifica pari all’8%, giorni 70 di itt al 100% e gg. 60 di itp al 50%” (pag. 9 sentenza impugnata).

Non avrebbe tenuto conto del fatto che il CTU aveva travalicato i limiti dell’incarico conferitogli, soffermandosi sulle cause e sulla valutazione dei danni patiti dalla danneggiata (cfr. consulenza fase ATP pag. 4), che nella fase di merito il giudice aveva disposto altra CTU, limitando l’utilizzo della consulenza della ATP ai soli “dati oggettivi che possono trarsi dall’accertamento tecnico preventivo disposto su ricorso dell’attrice (con esclusione pertanto di ogni eventuale considerazione relativa all’individuazione delle cause e dell’entità del danno) ” (cfr. ordinanza del 5-7/1/2004, fascicolo d’ufficio primo grado del giudizio, pagg. 1-2). La Corte territoriale, avendo basato la propria decisione su un atto affetto da nullità, contravvenendo al principio “secondo il quale, in sede di accertamento tecnico preventivo, l’individuazione delle cause e dell’entità del danno lamentato, disposta contra legem dal giudice o effettuata, d’iniziativa del consulente, deve considerarsi tamquam non esset poichè, pur in mancanza di specifiche norme sanzionatorie; siffatto sconfinamento integra una violazione dal principio del contraddittorio ” (Cass. 17/11/1999 n. 12748), avrebbe emesso una sentenza nulla per derivazione.

Il motivo è infondato.

La nullità dell’accertamento tecnico preventivo, al pari di quella che investe la consulenza tecnica d’ufficio, dovuta all’eventuale sconfinamento dell’accertamento oltre i limiti di legge, ha carattere relativo e deve essere eccepita dalla parte legittimata. Non solo: la deduzione dell’eccezione deve esprimere in termini chiari e specifici la richiesta che sia dichiarata dal giudice la nullità dell’accertamento nei limiti in cui abbia sconfinato dai limiti meramente descrittivi consentiti, restando altrimenti detta nullità sanata secondo la regola generale di cui all’art. 157 c.p.c. (Cass. 17/10/2013, n. 23575, in motivazione; 28376 del 28/11/2017 cui adde Cass. n. 15436/2006).

Non risulta, invece, che la ricorrente abbia mai eccepito la nullità della CTU per sconfinamento, nè risulta che abbia in precedenza lamentato la lesione del principio del contraddittorio. In materia di accertamento tecnico preventivo, l’indirizzo di questa Corte è nel senso che il giudice del merito, in virtù del principio del libero convincimento, ha facoltà di apprezzare in piena autonomia tutti gli elementi presi in esame dal consulente tecnico e le considerazioni da lui espresse che ritenga utili ai fini della decisione, onde ben può trarre materia di convincimento anche dalla consulenza espletata in sede di accertamento preventivo, pur se il consulente abbia ecceduto i limiti del mandato conferito, una volta che la relazione di quest’ultimo sia stata ritualmente acquisita agli atti. (Cass. 9/03/2010, n. 5658; Cass. 05/04/2016, n. 6591).

Anche la giurisprudenza citata dalla ricorrente – Cass. n. 12748/1999 – è orientata negli stessi termini; conferma infatti che l’ipotesi di sconfinamento da parte del consulente integra in astratto una violazione del principio del contraddittorio, ma non ritiene automaticamente nullo l’accertamento tecnico preventivo con tutte le ripercussioni sulla sentenza gravata che la ricorrente pretenderebbe di trarne; non esclude infatti che possa darsi una sanatoria del vizio quando l’estensione delle indagini sia avvenuta nel rispetto di quel principio per il che non è sufficiente la sola notifica di cui all’art. 627 c.p.c., ma è necessaria l’effettiva partecipazione delle parti per un reale e concreto contraddittorio ovvero allorchè la relazione del consulente sia stata ritualmente acquisita agli atti senza opposizione delle parti.

8. In definitiva, vanno accolti il primo ed il secondo motivo del ricorso principale; del ricorso incidentale va accolto il terzo motivo, il primo ed il secondo sono inammissibili, il quarto motivo è infondato.

9. La sentenza vene cassata in relazione ai motivi accolti e la controversia rimessa alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso principale ed il terzo motivo del ricorso incidentale.

Cassa la decisione impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la controversia alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione che provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2020

 

 

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