Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19186 del 19/08/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 19186 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: FILABOZZI ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 23250-2008 preposto da:
GREGORI GIOCONDO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIALE PINTURICCHIO 21, presso lo studio dell’avvocato
ABBATE FERDINANDO EMILIO, che lo rappresenta e difende
giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
1567

contro

POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, presso l AREA
LEGALE TERRITORIALE DI ROMA DI POSTE ITALIANE,

Data pubblicazione: 19/08/2013

rappresentata e difesa dall’avvocato CLAVELLI ROSSANA,
che la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 2707/2007 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 28/09/2007 r.g.n. 10090/04;

udienza del 07/05/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
FILABOZZI;
udito l’Avvocato ROSSANA TEBAIDI per delega FERDINANDO
E. ABBATE;
udito l’Avvocato ROBERTA AIAZZI per delega CLAVELLI
ROSSANA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per l’accoglimento del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

r.g. n. 23250/08
udienza del 7.5.2013

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Roma, quale giudice del rinvio, ha rigettato la domanda di Giocondo Gregori

risoluzione del rapporto di lavoro comunicatagli in data 22.1.1997 per raggiungimento della
massima anzianità contributiva per effetto di clausola di risoluzione automatica stipulata in sede di
accordo sindacale aziendale. Ha ritenuto al riguardo la Corte territoriale che il lavoratore non avesse
fornito la prova di aver costituito in mora il datore di lavoro dopo la comunicazione, da parte del
medesimo, della risoluzione del rapporto di lavoro al raggiungimento della massima anzianità
contributiva, escludendo, peraltro, che la società Poste avesse prestato acquiescenza alla decisione
di primo grado per il fatto di non aver proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo con cui il
Gregori aveva chiesto il pagamento delle mensilità maturate dal marzo 1997 fino alla data della
sentenza di primo grado. Con la stessa sentenza la Corte d’appello ha poi condannato il lavoratore
alla restituzione di quanto corrispostogli dalla società in esecuzione del detto decreto ingiuntivo.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione Giocondo Gregori affidandosi a cinque
motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società Poste Italiane.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Preliminarmente, deve respingersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività della
notifica sollevata dalla società Poste con il controricorso. La sentenza impugnata, non notificata, è
stata infatti depositata in data 28.9.2007 ed il ricorso è stata consegnato all’ufficiale giudiziario per
la notifica il giorno 29.9.2008. Poiché il 28.9.2008 cadeva di domenica, la notifica, eseguita il
giorno successivo, deve pertanto ritenersi tempestiva (art. 155, quarto comma, c.p.c.).
2.- Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 1217 e 2697 c.c., chiedendo a questa
Corte di stabilire se “in materia di offerta della prestazione lavorativa, la mora accipiendi del datore
di lavoro non deve essere dimostrata dal lavoratore (su cui non incombe alcun onere probatorio,
essendo ragionevolmente presumibile il suo interesse alla continuità del rapporto), gravando invece
sul datore l’onere di fornire adeguata prova contraria”.
3.- Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 112 e 394 c.p.c., nonché vizio di
motivazione, il ricorrente censura la decisione impugnata per non aver preso in considerazione tutti

volta ad ottenere la condanna della società Poste Italiane al risarcimento del danno conseguente alla

gli elementi indicati dal lavoratore come idonei a determinare una situazione di

mora accipiendi

-. del datore di lavoro, chiedendo a questa Corte di stabilire se “il giudice del rinvio, in tema di
verifica della mora accipiendi del datore, rispetto alla prestazione offertagli, deve pronunciarsi su
tutti gli elementi differenziati forniti dal lavoratore, da ognuno dei quali emerga il suo interesse alla
prosecuzione e continuità del rapporto, non potendosi soffermare soltanto ed esclusivamente sulla
mancanza di una formale lettera di profferta della prestazione stessa”.
4.- Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 336, 389 e 394 c.p.c. censurando la

decreto ingiuntivo emesso sulla base della sentenza di primo grado, chiedendo a questa Corte di
stabilire se “la domanda di restituzione di somme pagate per effetto di sentenza di primo grado,
provvisoriamente esecutiva, deve essere formulata al giudice di appello, con la richiesta di riforma
della sentenza appellata: in caso di mancata formulazione in tale sede, essa non può essere proposta
nel giudizio di rinvio, instauratosi a seguito della cassazione della decisione di secondo grado, ma
può essere solo azionata in un separato giudizio, dopo il passaggio in giudicato della sentenza con
cui il giudice di rinvio abbia riformato quella di primo grado”.
5.- Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 336, 389, 394, 324, 641 e 647 c.p.c.,
sostenendo che il decreto ingiuntivo di cui sopra, non opposto, era passato in giudicato e chiedendo
a questa Corte di stabilire che “il giudice del rinvio può ordinare la restituzione, ex art. 389 c.p.c.,
delle somme percepite in diretta esecuzione della sentenza cassata e/o riformata, e non di quelle
conseguenti a statuizioni contenute in titoli costituitisi, tra le stesse parti, in altre e separate sedi
giudiziarie, e su cui si è oramai formato il giudicato esterno”.
6.- Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 336 e 389 c.p.c., sempre in ordine allo
stesso punto, chiedendo a questa Corte di stabilire che “la cassazione e/o la riforma della sentenza
estende i suoi effetti – anche restitutori, ex artt. 336 e 389 c.p.c. – ai soli atti e provvedimenti
immediatamente e direttamente dipendenti dalla sentenza cassata e/o riformata, e non a quelli che –

sentenza impugnata per avere dichiarato il Gregori tenuto a restituire la somma riscossa in forza del

per quanto alla stessa ricollegabili sotto un profilo logico giuridico – siano tuttavia conseguenti ad
un separato e diverso titolo, formatosi tra le stesse parti, in altra sede giudiziaria”.
7.- Il primo motivo è infondato.
Va premesso che con la sentenza di annullamento n. 17987 del 25.11.2003 questa Corte ha
enunciato il seguente principio di diritto: “al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione
lavorativa a seguito di comunicazione del datore di lavoro di risoluzione del rapporto al
raggiungimento della massima anzianità contributiva, per effetto di clausola di risoluzione
automatica stipulata in sede di accordo sindacale aziendale, non spetta la retribuzione per il periodo
successivo finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, non essendo atto idoneo alla

t

costituzione in mora credendi – in ordine alle prestazioni – la domanda giudiziale del lavoratore
volta a sentir dichiarare la illegittimità della comunicazione” (in base allo stesso principio, si era già
ritenuto che non spettasse al lavoratore il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni
perdute per il periodo successivo alla scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto di
lavoro, posto che dalla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di
lavoro deriva che, al di fuori di espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta soltanto
se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di

In base agli enunciati principi, il lavoratore deve, dunque, dimostrare di aver messo a disposizione
del datore di lavoro le sue energie lavorative, non essendo sufficiente, a tal fine, la domanda
giudiziale diretta a sentir dichiarare l’illegittimità della comunicazione del datore di lavoro di
risoluzione del rapporto al raggiungimento della massima anzianità contributiva, e non potendo
neppure ritenersi, in base agli stessi principi, che non occorra detta messa in mora, reputandosi – in
contrasto con gli artt. 1206 e 1217 c.c. – che l’offerta della prestazione coincida con l’interesse
all’esecuzione ed alla controprestazione (cfr. Cass. n. 8903/2007).
La soluzione adottata dalla sentenza impugnata appare, dunque, pienamente in linea con i suddetti
principi, avendo ritenuto la mancanza di prova relativa alla messa in mora del creditore, e non
merita le censure che le sono mosse con il primo motivo.
8.- Anche il secondo motivo è infondato. Come si è già detto, non può ritenersi che l’offerta della
prestazione coincida con l’interesse all’esecuzione o alla prosecuzione o alla continuità del
rapporto; né può ritenersi che l’onere probatorio che incombe a carico del lavoratore possa
considerarsi assolto con l’affermazione che le azioni monitorie rappresenterebbero la dimostrazione
del persistere di tale interesse o asserendo che dalla mancata impugnazione dei decreti ingiuntivi
dovrebbe potersi presumere un implicito riconoscimento dell’esistenza di una valida messa in mora
del creditore. Tale ultima affermazione, come già rilevato dalla Corte d’appello, non considera, fra
l’altro, che il pagamento delle somme ingiunte sulla base della pronuncia di primo grado,
favorevole al lavoratore, è stato effettuato in epoca successiva alla proposizione del ricorso in
appello e che, successivamente alla proposizione del gravame, non è mai intervenuta una rinuncia
espressa all’impugnazione da parte della società.
9.- Il terzo, il quarto e il quinto motivo – che possono essere esaminati congiuntamente in quanto
strettamente connessi – sono parimenti infondati.
La domanda di restituzione ben poteva essere formulata nel giudizio di rinvio (art. 389 c.p.c.), non
solo introducendo un nuovo, distinto giudizio, ma anche mediante il suo inserimento nell’atto di
riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio (cfr. ex plurimis Cass. n. 1779/2007), ed è

3

mora accipiendi nei confronti del dipendente: cfr. ex plurimis Cass. sez. unite n. 14381/2002).

stata legittimamente accolta dalla Corte d’appello in forza del principio stabilito dall’art. 336,
secondo comma, c.p.c. (secondo cui “la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai
provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”), che riguarda anche
l’ipotesi in cui la decisione sul “quantum” si sia formata in un processo distinto da quello vertente
sull'”an”. E’ stato, infatti, affermato (cfr. Cass. n. 12364/03) che con riferimento all’ipotesi in cui il
creditore agisca separatamente, prima per l’accertamento dell'”an debeatur” e successivamente per

in forza del disposto di cui all’art. 336, secondo comma, c.p.c., la riforma o la cassazione della
sentenza concernente l’accertamento del diritto pone nel nulla la sentenza che abbia deciso sul
“quantum”, ancorché su quest’ultima si sia formato il giudicato formale per mancata tempestiva
impugnazione (fattispecie relativa a decreto ingiuntivo non opposto, concernente l’indennità
sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro).
10.- In definitiva, quindi, il ricorso deve essere rigettato, ed a tale pronuncia segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo,
facendo riferimento alle disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi
allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 d.m. cit.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio
liquidate in € 40,00 oltre € 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 maggio 2013.

la determinazione del “quantum” e la condanna del debitore, dando così vita a due distinti processi,

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