Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19183 del 28/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 28/09/2016, (ud. 07/06/2016, dep. 28/09/2016), n.19183

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2360-2015 proposto da:

P.L., C.f. (OMISSIS) elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato ANDREA

MANZI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIANCARLO MAZZETTO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI PORTOGRUARO, P.I. (OMISSIS), in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI 4,

presso lo studio dell’avvocato FEDERICA SCAFARELLI che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ELISA DE BERTOLIS e

NICOLETTA STECCANELLA, giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 281/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 23/07/2014, R.G. N. 1480/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato CARLO ALBINI per delega ANDREA MANZI;

udito l’Avvocato ELISA DE BERTOLIS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Venezia ha respinto l’appello proposto da P.L. avverso la sentenza parziale n. 464 del 2012 e la sentenza definitiva n. 120 del 2013, con le quali il locale Tribunale aveva rigettato le domande volte ad ottenere la dichiarazione di “illegittimità e/o invalidità e/o nullità e/o annullabilità e/o inefficacia” del licenziamento intimato dal Comune di Portogruaro con atto del (OMISSIS) e la condanna dell’ente convenuto alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al risarcimento del danno, quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso sino a quella della effettiva riammissione in servizio.

2 – Alla P., dirigente dell’Area Uso e Tutela del Territorio, era stato contestato di essersi attivata, in concorso con l’Avv. Massimo Carlin, legale di fiducia del Comune, per indurre la Pirelli Re s.p.a., all’epoca dei fatti interessata alla trasformazione di un’ampia area del territorio di Portogruaro da agricola ad industriale ed artigianale, ad avvalersi delle prestazioni professionali dell’Avv. L.F. e ciò aveva fatto al fine di ottenere una quota dell’onorario che quest’ultimo avrebbe ricavato dall’incarico. La dirigente, inoltre, aveva enfatizzato la complessità e l’importanza degli adempimenti amministrativi, che la società Pirelli Re avrebbe dovuto effettuare, al solo scopo di incrementare l’onorario del L. ed aveva manifestato la sua disponibilità a far parte, con il C., di una società privata di consulenza giuridico-amministrativa, alla quale avrebbe partecipato attraverso un proprio fiduciario.

3 – La Corte di Appello ha ritenuto infondati tutti i motivi di gravame ed ha rilevato, in sintesi, che:

a) non era ravvisabile la asserita tardività della contestazione in quanto l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari solo il 15 luglio 2010 aveva avuto notizia del rinvio a giudizio disposto dal Giudice per le indagini preliminari ed aveva acquisito in pari data copia delle intercettazioni telefoniche e degli atti di indagine;

b) prima di tale data il procedimento disciplinare non poteva essere avviato, sebbene il Comune si fosse costituito parte civile in occasione della celebrazione dell’udienza preliminare iniziata il 14.10.2008, perchè all’epoca l’ente non aveva un quadro completo della vicenda;

c) il Comune, inoltre, aveva sottoscritto il 21.2.2008 un accordo dinanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro, con il quale si era impegnato a collocare la lavoratrice in aspettativa per un anno, riservandosi di esercitare l’azione disciplinare solo in caso di rinvio a giudizio;

d) doveva trovare applicazione il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, comma 1, introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009, poichè il procedimento disciplinare, governato dal principio tempus regit actum, era stato avviato dopo l’entrata in vigore della nuova normativa;

e) il procedimento, pertanto, non doveva essere sospeso obbligatoriamente, una volta venuta meno la cosiddetta pregiudiziale penale, anche perchè la P., condannata in via definitiva per il reato di cui all’art. 322 c.p., comma 4, non poteva invocare il disposto del D.Lgs. n. 97 del 2001, art. 3 che riguarda, fra gli altri, il delitto di cui all’art. 319 c.p. (in relazione al quale l’azione penale era stata esercitata) ma non quello per il quale vi era stata condanna;

f) in ogni caso la mancata sospensione non avrebbe potuto determinare la illegittimità del licenziamento, in quanto il processo penale si era ormai concluso con il passaggio in giudicato della sentenza che aveva riconosciuto la colpevolezza dell’imputata;

g) non rilevava nella fattispecie la mancata affissione del codice disciplinare, non necessaria nell’ipotesi in cui l’azione venga esercitata in relazione a condotte di rilievo penale o contrarie al cosiddetto “minimo etico”;

h) il licenziamento, intimato dal Segretario Generale, non richiedeva alcuna particolare motivazione, essendo sufficiente il richiamo ai fatti addebitati nella contestazione;

i) la sentenza del Tribunale aveva dato ampio conto delle ragioni per le quali le condotte dovevano ritenersi provate, richiamando le dichiarazioni rese dagli avvocati coinvolti nella vicenda, le intercettazioni telefoniche, le testimonianze ed anche l’esame dell’imputata, sicchè non rilevava la non definitività della condanna al momento della pronuncia di primo grado, poichè la appellante era stata licenziata per la gravità dei fatti commessi, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario;

l) la motivazione della sentenza impugnata era senz’altro condivisibile, anche perchè la sua correttezza aveva trovato ulteriore conferma nella pronuncia della Corte di Appello, passata in giudicato, che aveva confermato la condanna della P..

4 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Lorena P. sulla base di quattro motivi. Il Comune di Portugruaro ha resistito con tempestivo controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo la ricorrente denuncia “violazione di legge; falsa applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 55 bis e 55 ter; violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4; manifesta e grave illogicità della motivazione”. Sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere tempestiva l’azione disciplinare, poichè i fatti per i quali la dirigente era stata poi licenziata erano divenuti di dominio pubblico già nell’autunno del 2007. Il Comune, pertanto, avrebbe dovuto procedere alla contestazione degli addebiti quantomeno alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, che aveva eliminato la cosiddetta pregiudiziale penale, atteso che la piena conoscenza dei fatti era dimostrata dalla costituzione di parte civile effettuata dall’ente in sede penale il 16 settembre 2008. Aggiunge che, in ogni caso, anche a voler assumere quale dies a quo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio, il termine sarebbe stato violato poichè l’udienza preliminare si era conclusa il 12 aprile 2010 e non rilevava che il legale del Comune avesse lasciato trascorrere circa tre mesi per trasmettere all’ente il decreto, unitamente a copia degli atti del processo penale.

1.2 – Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per “violazione di legge; violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 in relazione all’art. 2106 c.c.; mancata applicazione della L. 241 del 1990, art. 3; violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c.; violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4; manifesta contraddittorietà della motivazione”. Sostiene, in sintesi, la ricorrente che la amministrazione avrebbe dovuto motivare l’atto amministrativo con il quale la risoluzione del rapporto era stata disposta, poichè l’obbligo di motivazione è imposto in via generale dalla L. n. 241 del 1990, art. 3. Aggiunge che il Tribunale e la Corte territoriale avrebbero dovuto tener conto dei soli elementi noti alla data di intimazione del licenziamento, essendo al giudice precluso di considerare fatti sopravvenuti e, nella specie, il giudicato penale formatosi successivamente alla irrogazione della sanzione disciplinare. Precisa, infine, che il brogliaccio delle intercettazioni telefoniche non costituiva prova certa della responsabilità della dirigente, poichè le conversazioni non avevano un tenore univoco.

1.3 – Con il terzo motivo la P. assume la erroneità del capo della sentenza impugnata relativo alla asserita irrilevanza della mancata affissione del codice disciplinare. Lamenta al riguardo la “falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 51 e 55 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1”, la violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione tra le parti e la manifesta contraddittorietà della motivazione. Sostiene che nella lettera di licenziamento il Comune aveva espressamente richiamato il Codice di Comportamento vigente alla data dei fatti, sicchè la Corte territoriale avrebbe dovuto far discendere la illegittimità della sanzione dalla mancata pubblicizzazione di detto codice.

1.4 – Il quarto motivo denuncia “violazione di legge; mancata applicazione della L. n. 97 del 2001, art. 3 in relazione alle disposizioni dei C.C.N.L. dirigenza enti locali 22/2/2006 e 22/2/2010 rispettivamente vigenti all’epoca dei fatti e della contestazione disciplinare; violazione dell’art. 112 c.p.c.; violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4; manifesta contraddittorietà della motivazione”. La ricorrente premette che la L. n. 97 del 2001, art. 3 non è stato abrogato dal D.Lgs. n. 150 del 2009ed inoltre risulta espressamente richiamato dal C.C.N.L. 22/2/2010. D’altro canto lo stesso Comune di Portogruaro, nel concedere alla dirigente la aspettativa, aveva espressamente richiamato la norma sopra indicata, in base alla quale il licenziamento non poteva essere intimato prima della condanna definitiva nel giudizio penale. Aggiunge la P. che la Corte territoriale, nell’attribuire rilevanza alla formazione del giudicato intervenuto in corso di causa, avrebbe compiuto una “inammissibile operazione di sanatoria postuma del procedimento”. Infine rileva che il giudice del merito avrebbe dovuto considerare che la condanna era stata pronunciata in relazione ad una ipotesi di reato diversa e meno grave rispetto a quella originariamente contestata e considerata dalla amministrazione al momento della contestazione disciplinare.

2.1 – Il primo motivo è infondato nella parte in cui assume l’erronea interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bised inammissibile per il resto.

La Corte territoriale ha escluso che il Comune di Portogruaro fosse tenuto ad esercitare l’azione disciplinare, già in epoca antecedente all’emissione del decreto di rinvio a giudizio, sulla base di più argomenti, ciascuno idoneo a sorreggere il decisum, poichè da un lato ha ritenuto che dalla mera pendenza del procedimento penale non si potesse desumere la piena conoscenza dei fatti, necessaria per formulare una corretta contestazione; dall’altro ha evidenziato che le parti avevano concordato dinanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro che la P. sarebbe stata collocata in aspettativa per un anno e che solo successivamente al decreto di rinvio a giudizio l’amministrazione avrebbe attivato il procedimento. Ha sottolineato che, prima del realizzarsi di detta condizione, l’ente non avrebbe potuto agire, perchè in tal caso “la dipendente gli avrebbe imputato l’inadempimento all’accordo medesimo” (pag. 9).

Il ricorso non censura in modo specifico detto capo della decisione, poichè nulla deduce sulla natura, sulla interpretazione e sulla validità dell’accordo, ritenuto ostativo all’immediato esercizio dell’azione disciplinare, ed insiste solo sulla notorietà dei fatti, dei quali il Comune era venuto a conoscenza nell’autunno 2007 e, comunque, allorquando aveva deliberato la costituzione di parte civile da effettuarsi all’udienza preliminare del 14.10.2008.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che “qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione.” (Cass. S.U. 29.3.2013 n. 7931).

Dalla assenza di censure al capo della decisione relativo alla efficacia vincolante dell’accordo, discende, per il principio di diritto sopra indicato, la inammissibilità del motivo nella parte in cui pretende di fare retroagire il dies a quo ad epoca antecedente al rinvio a giudizio.

2.2 – Quanto, poi, al tempo trascorso fra l’emissione del decreto e la contestazione, la Corte territoriale ha correttamente fatto decorrere il termine previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, commi 2 e 4, dalla data in cui le notizie fornite dal legale del Comune erano state trasmesse all’Ufficio competente per il procedimento disciplinare.

Va qui ribadito che la sanzione prevista dal quarto comma della norma sopra richiamata opera solo in relazione ai termini imposti all’ufficio competente per il procedimento, per cui rileva la data di ricezione degli atti da parte di quest’ultimo, o, eventualmente, la notizia che abbia diversamente acquisito il medesimo ufficio, e non altri organi o articolazioni dell’ente, con la sola eccezione del responsabile della struttura di assegnazione del dipendente (Cass. 26.8.2015 n. 17153 e Cass. 14.10.2015 n. 20733). E’ stato, inoltre, precisato da questa Corte che il termine di cinque giorni imposto dall’art. 55 bis, comma 3 per la trasmissione degli atti all’ufficio competente ha natura meramente sollecitatoria, sicchè la sua violazione non comporta conseguenze, se non nel caso in cui la trasmissione venga ritardata in misura tale da rendere difficoltoso il diritto di difesa, circostanza, quest’ultima, che il giudice di merito ha escluso, rilevando che nella specie non era stata violata “nessuna delle esigenze alle quali risponde il principio della tempestività del licenziamento”, poichè la P. era ben consapevole della intenzione dell’ente di perseguire disciplinarmente la condotta ed aveva inoltre efficacemente esercitato il diritto di difesa già in sede penale.

2.3 – Si deve, poi, aggiungere che l’accertamento in fatto del momento in cui l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari (nella specie il Segretario Generale del Comune) acquisisce la notizia dell’illecito è riservato al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità nei limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile alla fattispecie nel testo riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la disposizione sopra richiamata ha introdotto “nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.” (Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8041).

Con specifico riferimento al procedimento disciplinare è stato, poi, affermato che “la censura in sede di legittimità di violazione del principio di immediatezza della contestazione è inammissibile, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, qualora il motivo di ricorso per l’omesso esame di elementi istruttori non si risolva nella prospettazione di un vizio di omesso esame di un fatto decisivo ove il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.” (Cass. 9 luglio 2015 n. 14324).

Va, poi, evidenziato che per i giudizi di appello instaurati dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, il vizio non è denunciabile qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c. e richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2). In tal caso il sindacato di legittimità sulla motivazione è consentito solo nelle ipotesi di violazione del cosiddetto “minimo costituzionale”, che si risolvono in violazione di legge, ravvisabili solo qualora la motivazione stessa manchi del tutto o sia meramente apparente oppure si articoli su argomenti tra loro manifestamente contrastanti, o perplessi o obiettivamente incomprensibili (Cass. S.U. n. 80(3/2014 e Cass. n. 26097/2014).

Nel caso di specie la Corte territoriale, condividendo la pronuncia di prime cure, ha esaminato la successione cronologica dei fatti ed ha ritenuto, con articolata motivazione, che la notizia del rinvio a giudizio e degli elementi di prova valorizzati dal giudice per le indagini preliminari fosse pervenuta all’ufficio competente il 15 luglio 2010, data della missiva con la quale il Sindaco provvide alla trasmissione degli atti ricevuti dal legale che assisteva l’ente nel processo penale.

Il motivo, nella parte in cui prospetta una diversa valutazione delle risultanze processuali, è, quindi, inammissibile per le ragioni sopra esposte.

3 – E’ manifestamente infondata la censura di violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, formulata con il secondo motivo di ricorso.

Questa Corte ha da tempo affermato che il licenziamento disciplinare, nel regime giuridico dei rapporti di lavoro di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 è negozio giuridico di diritto privato regolato, quanto alla forma dell’atto, dalla L. n. 604 del 1966. L’obbligo di motivazione, quindi, non è quello dei provvedimenti amministrativi ed è assolto dall’amministrazione con l’indicazione del fatto, già oggetto di contestazione che, a giudizio del datore di lavoro, giustifica il recesso (Cass. 16.1.2006 n. 758).

Le norme della L. n. 241 del 1990 riguardano, infatti, i procedimenti strumentali alla emanazione da parte della P.A. di provvedimenti autoritativi, destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari dei medesimi e caratterizzati dalla situazione di preminenza dell’organo che li adotta. Le stesse, quindi, non sono applicabili agli atti concernenti il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, i quali sono adottati nell’esercizio dei poteri propri del datore di lavoro privato, connotati dalla supremazia gerarchica, ma privi dell’efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo (fra le più recenti in tal senso Cass. 27.6.2013 n. 16224 in tema di recesso per esito negativo della prova).

4 – Parimenti infondato è il secondo motivo nella parte in cui assume che, ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento, il giudice di merito avrebbe dovuto limitare l’esame ai soli elementi di prova già noti alla data di intimazione del recesso, senza valorizzare circostanze sopravvenute ed in particolare senza trarre elementi di convincimento dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per il delitto di cui all’art. 322 c.p..

In linea generale va detto che il principio della immutabilità attiene ai fatti posti a fondamento del recesso, non già ai mezzi di prova dei quali il datore di lavoro si avvalga per dimostrare giudizialmente la fondatezza dell’addebito.

Non è, pertanto, impedito al datore di lavoro di richiedere nel giudizio la acquisizione di prove che non siano emerse nel corso del procedimento disciplinare, integrando, ad esempio, la produzione documentale o richiedendo la escussione di testimoni le cui dichiarazioni non siano state acquisite già nel corso del procedimento stesso.

Quanto, poi, ai rapporti fra le azioni, si deve rilevare che, una volta venuta meno la cosiddetta pregiudiziale penale, resta la esigenza di evitare conflitti fra gli esiti dei procedimenti, che il legislatore ha voluto scongiurare con la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter nonchè dagli artt. 653 e 654 c.p.p..

Ne discende che la conclusione del procedimento disciplinare non impedisce alla P.A. di avvalersi, per dimostrare la sussistenza del fatto e la commissione da parte dell’incolpato, del giudicato penale di condanna che sopravvenga nel corso del giudizio di impugnazione della sanzione. Il legislatore ha predisposto un meccanismo di necessario raccordo fra le azioni, sicchè la sentenza impugnata non può essere censurata nella parte in cui ha valutato, non solo gli atti delle indagini preliminari, già noti al momento del licenziamento, ma anche l’esito del processo penale, per affermare la responsabilità disciplinare della dirigente.

5 – Non si ravvisa, poi, l’asserita violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001 e della L. n. 300 del 1970, art. 7 per la mancata affissione del codice disciplinare.

Deve essere qui ribadito l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perchè contrario al cosiddetto minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario che sia data adeguata pubblicità al codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (tra le più recenti in relazione all’impiego pubblico contrattualizzato Cass. 11.11.2014 n. 24881 ed al lavoro privato Cass. 7.4.2016 n. 6763).

Nè rileva che nell’atto di recesso siano state richiamate le previsioni del codice di comportamento, giacchè il principio della necessità della previa conoscenza degli illeciti disciplinari, come tipizzati dal datore, trova la sua ratio nella esigenza di impedire che il lavoratore possa essere perseguito in relazione a condotte dallo stesso ritenute lecite, esigenza che certo non ricorre qualora il fatto addebitato sia di rilievo penale e consista, come nella fattispecie, nell’avere il pubblico ufficiale sollecitato una promessa di denaro o di altra utilità da parte del privato a fini corruttivi (la P. è stata, infatti, condannata in via definitiva per il delitto di cui all’art. 322 c.p., comma 4, nel testo vigente ratione temporis).

6 – Non si ravvisa, infine, la violazione della L. n. 97 del 2001, art. 3 denunciata nel quarto motivo di ricorso, con il quale si assume che il Comune di Portogruaro avrebbe dovuto attendere l’esito del processo penale ed adottare nelle more i provvedimenti previsti dalla norma richiamata.

Il citato art. 3 è stato inserito dal legislatore in un contesto normativo caratterizzato, da un lato, dal principio della necessaria pregiudizialità dell’accertamento penale rispetto al procedimento disciplinare; dall’altro dalla non obbligatorietà della sospensione dal servizio del dipendente pubblico accusato della commissione di gravi illeciti penali, ma non raggiunto da misura restrittiva della libertà personale.

Con la norma in commento si è voluto fare divieto alle Pubbliche Amministrazioni, in pendenza del processo penale, di continuare ad utilizzare il dipendente nelle medesime funzioni in passato ricoperte (in relazione alle quali la consumazione del reato era avvenuta) e si è perciò previsto l’obbligo del datore di lavoro, che non avesse adottato il provvedimento di sospensione facoltativa, di trasferire il prestatore in altra sede, o di assegnare allo stesso mansioni diverse, e, ove ciò non fosse stato possibile, di collocare il dipendente in aspettativa o in disponibilità.

Mutato il contesto normativo e venuta meno la cosiddetta pregiudiziale penale, la norma sopravvive con un ambito di applicabilità più ristretto, nel senso che la stessa trova applicazione in quei limitati casi nei quali, a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, comma 1 l’ufficio competente per il procedimento disciplinare, a causa della complessità degli accertamenti, decida di sospendere il procedimento sino al passaggio in giudicato della sentenza penale.

Non a caso, infatti, lo stesso comma 1 dell’art. 55 ter fa “salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente”, evocando, in tal modo, proprio le misure disciplinate dal richiamato art. 3.

In altri termini la norma non è stata abrogata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, poichè la possibilità della sospensione del procedimento disciplinare, sia pure residuale, lascia uno spazio di applicabilità alla disposizione, che, però, non può certo essere ritenuta prevalente rispetto all’obbligo posto a carico delle amministrazioni pubbliche di definire con tempestività ed immediatezza i procedimenti, a prescindere dall’esito del processo penale.

Correttamente, pertanto, il Comune di Portogruaro ha avviato e definito l’azione disciplinare, nel rispetto di quanto previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter.

7 – Il ricorso va, quindi, rigettato con conseguente condanna della P. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dalla ricorrente.

PQM

La corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4500 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamneto, da pare della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2016

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