Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19182 del 15/09/2020

Cassazione civile sez. II, 15/09/2020, (ud. 04/02/2020, dep. 15/09/2020), n.19182

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19403/2019 proposto da:

D.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato ANDREA FARAON, ed

elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Luciano Faraon,

in ROMA, VIA COMANO 95;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto n. 4352/2019 del TRIBUNALE di VENEZIA emesso il

21/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/02/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso depositato in data 4.4.2018 D.S., cittadino (OMISSIS), impugnava il provvedimento emesso in data 23.1.2018 con il quale la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Verona – Sezione Padova, gli aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e di forme complementari di protezione.

Il MINISTERO dell’INTERNO si costituiva in giudizio.

Il ricorrente, di etnia mandinka e di religione musulmana, era ascoltato dalla Commissione Territoriale e poi dal Giudice onorario delegato e dichiarava di aver lasciato il Senegal in data 1.8.2016 e di essere arrivato in Italia il 16.10.2016, passando per il Mali, il Burkina Faso, il Niger e la Libia. Quanto alle ragioni che lo avevano indotto a lasciare il paese d’origine, il ricorrente riferiva di essere fuggito a causa delle minacce ricevute dallo zio presso cui era andato a vivere dopo la morte del padre. Il richiedente precisava che lo zio lo aveva sempre trattato diversamente dai propri figli, per poi accusarlo delle ustioni che la cugina convivente si era provocata in seguito a un incidente in casa.

Osservava il Tribunale che, alla luce di tali dichiarazioni, non risultavano integrati i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

Infatti, il racconto aveva a oggetto una vicenda relativa a dissidi familiari, spiegata in maniera estremamente generica e priva di riscontri. Generiche e poco credibili risultavano le dichiarazioni anche con riferimento al rischio che avrebbe corso in caso di rimpatrio (lo zio avrebbe minacciato di ucciderlo).

Quanto alla domanda volta al riconoscimento della protezione sussidiaria, il Tribunale sottolineava che tale misura è consentita in presenza di un danno grave ricorrente nelle sole ipotesi tassativamente indicate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14: a) condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) tortura o altra forma di trattamento inumano o degradante; c) minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Il ricorrente non deduceva in modo coerente di essere esposto ai rischi previsti dalle lett. a) e b) della citata norma. Non ricorreva neppure l’ipotesi di cui alla lett. c), dato che il Senegal, dalle informazioni assunte, godeva di una situazione di relativa stabilità. Il Senegal risultava avere un sistema democratico abbastanza efficiente e collaborare in ogni settore con le organizzazioni internazionali. Non sussistevano, ad ogni modo, conflitti che potessero mettere in pericolo fasce indiscriminate di popolazione civile, per cui non era applicabile la lett. c) citata.

Per quanto riguardava la protezione umanitaria, si rilevava che, tenuto conto della condizione del paese di origine, il ricorrente non dimostrava circostanze di particolare vulnerabilità che potessero assumere rilievo ai fini della concessione di un permesso per motivi umanitari. Egli non allegava alcuna documentazione relativa alla sua integrazione in Italia, essendo insufficiente l’attestazione di frequenza ai corsi di lingua italiana in atti. Inoltre, la vicenda personale del ricorrente non valeva a rappresentare un rischio specifico in caso di rimpatrio alla luce della genericità delle dichiarazioni, che attenevano comunque a un episodio di natura prettamente privatistica. Si precisava che neppure una compiuta integrazione lavorativa in Italia potesse avere rilievo, in mancanza di un rischio specifico per l’ipotesi di rimpatrio che fosse giustificato dalla vicenda personale del ricorrente e dalle condizioni del paese d’origine.

Avverso il decreto propone ricorso per cassazione D.S. sulla base di due motivi; l’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto alcuna difesa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce ex “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: (la) nullità del decreto per violazione di legge con riferimento all’art. 112 c.p.c.. Omessa pronuncia”, rilevando che con il primo motivo di impugnazione era stato eccepita la nullità assoluta del provvedimento per mancata indicazione della composizione della Commissione Territoriale, per mancata attestazione di certificazione del segretario e dell’indicazione della fonte del potere del Presidente nella redazione dell’atto. Tale censura non era esaminata dal Tribunale, con la conseguenza della nullità del decreto.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – E’ consolidato il principio secondo cui sussiste causa di nullità della sentenza per omessa pronuncia censurabile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 112 c.p.c., qualora il giudice non provveda sul motivo di impugnazione formulato in appello (Cass. n. 6929 del 2013), sempre che, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti (diversamente dal motivo oggetto del presente esame, con riguardo alla domanda ad esso sottesa) necessariamente la sua reiezione, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che (come nella fattispecie) si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto (ex plurimis, Cass. n. 15255 del 2019; Cass. n. 17956 del 2015; Cass. n. 21612 del 2013).

Peraltro, parte ricorrente non spiega in alcun modo in cosa si sarebbe sostanziata la asserita censura di violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 4 (riferita genericamente alla mancanza di indicazione della composizione della Commissione, della attestazione di certificazione del segretario e della indicazione della fonte del potere del presidente nella redazione dell’atto) e quale sarebbe la ricaduta di essa sulla successiva vicenda processuale; laddove neppure risulta che nel corso del giudizio in esame la parte (ascoltata dal Giudice onorario delegato) abbia nuovamente ed immediatamente eccepito tale nullità, nel rispetto del principio generale di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2, consentendone al resistente la tempestiva sanatoria.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta ex “art. 360 c.p.c., n. 3 (la) violazione di legge con riferimento al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e omessa pronuncia specifica sulla richiesta di protezione sussidiaria”, là dove il Tribunale ha sottolineato la relativa stabilità del Senegal senza fare riferimento alle fonti consultate (rilevando che, quando il Tribunale indica le fonti, è solo per dare conto di una prassi che nulla ha a che vedere con il caso di specie, ossia le mutilazioni genitali femminili).

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Va osservato al riguardo che per quanto concerne la protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), è dovere del giudice – una volta adempiuto, come è accaduto nella specie, l’onere di allegazione da parte del richiedente – verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base ad un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione (Cass. n. 17075 del 2018; Cass. n. 28990 del 2018). Al fine di ritenere adempiuto tale onere, inoltre, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312 del 2019).

Il Tribunale, dal canto suo, ha osservato che “il Senegal gode di una situazione di relativa stabilità. Tale ricorstruzione della situazione del paese di origine del richiedente trova oggettivi risccontri nei rapporti di organizzazioni umanitarie maggiormente accreditate, facilmente consultabili e tali da costituire elementi indiziari, che possono concorrere a formare il convincimento del giudice. La stabilità del Senegal trova altresì conferma nei rapporti dell’UNHCR. Il Senegal ha un sistema democratico abbastanza efficiente e collabora in ogni settore con le organizzazioni internazionali. Con riguardo alla vicenda riferita dal ricorrente, va osservato che il Governo ha il controllo delle forze di polizia”. Orbene, il riferimento ai rapporti delle “organizzazioni umanitarie maggiormente accreditate” e dell’UNHCR esclude la fondatezza dell’assunto del ricorrente secondo cui il Tribunale non avrebbe indicato le fonti consultate; e dimostra come il ricorrente non abbia, a sua volta, doverosamente provveduto egli stesso ad indicare eventuali fonti internazionali più aggiornate, limitandosi a contestare genericamente gli accertamenti del Tribunale.

La qual cosa – unitamente alla affermazione secondo cui il Tribunale avrebbe dovuto meglio indagare con riferimento al paese d’origine del ricorrente: se le accuse mosse dallo zio potessero essere causa di persecuzione per il ricorrente; se il sistema giustizia in Senegal sia garantista o meno; se in Senegal vengano rispettati i diritti umani e in che misura; se sia possibile per un ragazzo di appena 18 anni (all’epoca della fuga) e senza un’adeguata istruzione (non è mai andato a scuola) difendersi da un’accusa di lesioni aggravate; se le autorità di polizia siano o meno corrotte e se infine, nel caso in cui fosse rimasto in Senegal, avrebbe trovato adeguata protezione a fronte delle minacce di morte ricevute dallo zio (ricorso, pag. 6) – rende palese, piuttosto, lo scopo improprio del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).

3. – Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso è inammissibile. Nulla per le spese in ragione del fatto che l’intimato non ha svolto alcuna difesa. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Il D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2020

 

 

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