Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19182 del 06/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 06/07/2021, (ud. 14/05/2021, dep. 06/07/2021), n.19182

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16123/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n.

12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

B.F., difeso nel giudizio di secondo grado da Giuseppe

Piccioli, con studio in Carrara, piazza Menconi, n. 3;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana, n. 2461/1/14 depositata il 16 dicembre 2014;

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 14 maggio

2021 dal Consigliere Nicastro Giuseppe.

 

Fatto

RILEVATO

che:

l’8 settembre 2009, l’Agenzia delle entrate notificò a B.F., esercente l’attività di ragioniere commercialista, tre avvisi di accertamento con i quali determinò sinteticamente, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 4, (cosiddetto redditometro) – in relazione al contenuto induttivo della disponibilità di un immobile di proprietà adibito a residenza principale per l’acquisto del quale nel 1999 era stato acceso un mutuo, di un autoveicolo acquistato il 23 giugno 2004 e di un motociclo acquistato il 13 giugno 2005 – il reddito complessivo dello stesso contribuente per gli anni d’imposta, rispettivamente, 2004 (Euro 47.517,00 a fronte di un reddito dichiarato di Euro 9.763,00), 2005 (Euro 48.773,00 a fronte di un reddito dichiarato di Euro 28.397,00) e 2006 (Euro 44.420,00 a fronte di un reddito dichiarato di Euro 13.513,00), accertando le maggiori IRPEF e Addizionali regionale e comunale all’IRPEF conseguentemente dovute, oltre agli interessi, e irrogando le correlative sanzioni;

B.F. impugnò gli avvisi di accertamento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Massa Carrara (hinc anche: “CTP”) che, riuniti i ricorsi del contribuente, li accolse;

avverso tale pronuncia, l’Agenzia delle entrate propose appello alla Commissione tributaria regionale della Toscana (hinc anche: “CTR”) che lo rigettò, motivando, in particolare, che: a) “(l)’impostazione seguita dall’Ufficio non è tecnicamente giusta in quanto ha usato un metodo non corrispondente a legge. Le tabelle sono state determinate dalle Agenzie e non dalla Legge”; b) “N’appello dell’Ufficio non è stato motivato non impugnando separatamente i tre anni di accertamento senza indicare i motivi specifici dell’appello e le errate motivazioni della sentenza. Le argomentazioni dell’appello sono generiche e non affrontano, nel merito, le risultanze istruttorie e le relative osservazioni della sentenza”; c) “(l)’Agenzia non affronta nè motiva i conteggi e le presunzioni alla base dell’accertamento, spiegando gli errori della sentenza. Infatti i conteggi effettuati e i valori base e i coefficienti, sono stati non suffragati da documentazione o deposito di delibere. L’Ufficio ha dichiarato di avere eseguito i conteggi su parametri determinati dall’Agenzia delle entrate e non dalla Legge; ma tale delibera non è stata depositata, per cui non può essere presa in considerazione anche alla luce dello Statuto del Contribuente”; d) “(i) parametri indicati dall’Ufficio, non solo sono palesemente sproporzionati, ma anche non realistici e soprattutto sono delle semplici presunzioni anzi “indizi” per iniziare una indagine e controllare fondi neri o altri fatti dai quali ricavare il presunto mancato incasso a nero. Secondo l’Ufficio, chiunque compra un misero appartamento di 60 mq, cioè un appartamento di circa m. 7×8,5, deve avere come reddito netto la somma netta di incasso di Euro 32.206,00. In tal modo la maggioranza dei dipendenti sarebbe sotto accertamento”; e) “(n)on viene giustificato come mai l’appartamento è stato valutato ogni anno in maniera diversa e con valori diversi. Ugualmente l’auto è stata valutata circa Euro 2.500 nel 2004, Euro 4.345,00 nel 2005 ed Euro 4.183,00 nel 2006 con un reddito di complessivamente 45.000,00 in Euro 55.080,00 di reddito netto. Non viene, altresì, motivato che una macchina ha coefficienti diversi”; f) “17.11 contribuente ha dimostrato che nel 2004 ha avuto un incasso personale netto di Euro 7/8.000,00, la moglie di Euro 15.000,00 e l’Assicurazione di C 15.000,00 senza pensare che nell’anno precedente aveva avuto un incasso di altre Euro 30.000,00 oltre a quello della moglie. Negli altri anni i redditi denunciati sono oltre Euro 30.000,00 somma pari ad Euro 2.500,00 di reddito netto superiore di oltre Euro 1.000,00 per un dipendente medio”;

avverso tale decisione – depositata in segreteria il 16 dicembre 2014 – ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate, che affida il proprio ricorso, notificato il 15/18 giugno 2015, a cinque motivi;

B.F. non ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 5 (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alla sostituzione dei suddetti commi operata dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122), del decreto del Ministro delle finanze del 10 settembre 1992 e degli artt. 2697 e 2728 c.c., sotto due profili;

sotto un primo profilo, la ricorrente denuncia l’affermazione della CTR che “(l)’Ufficio ha dichiarato di avere eseguito i conteggi su parametri determinati dall’Agenzia delle entrate e non dalla Legge; ma tale delibera non è stata depositata, per cui non può essere presa in considerazione anche alla luce dello Statuto del Contribuente”, atteso che la determinazione dei redditi era stata effettuata sulla base degli elementi indicativi di capacità contributiva e del contenuto induttivo di essi stabiliti dal D.M. finanze 10 settembre 1992, emanato ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1972, art. 38, comma 4, e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale;

sotto un secondo profilo, è denunciata l’affermazione della CTR che “(i) parametri indicati dall’Ufficio (…) sono delle semplici presunzioni anzi “indizi” per iniziare una indagine”, atteso che la disponibilità dei beni considerati dal cosiddetto “redditometro” “costituisce una presunzione legale di capacità contributiva ai sensi dell’art. 2728 c.c.” e legittima l’amministrazione finanziaria a determinare il reddito sulla base degli indici e dei coefficienti previsti dal decreto del Ministro delle finanze del 10 settembre 1992, “senza necessità di fornire prove ulteriori rispetto alla effettiva disponibilità dei beni previsti dal redditometro”;

con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, comma 1, per avere la CTR ritenuto che il ricorso in appello dell’Agenzia delle entrate non contenesse i motivi specifici dell’impugnazione;

con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la CTR omesso di pronunciare su tutti i motivi di appello;

con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la violazione dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo del vizio di ultrapetizione, nonchè dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per avere la CTR pronunciato oltre i limiti della domanda, in particolare, là dove, nelle parti della motivazione trascritte, in narrativa, ai punti d) ed e), “contesta l’utilizzo dello strumento del redditometro e (i) risultati derivanti dalla sua applicazione nella fattispecie de qua”, atteso, da un lato, che “le difese svolte dalla parte privata ineriscono a profili di contestazione degli atti impositivi del tutto differenti” e, dall’altro lato, che “non spetta al giudice tributario sindacare l’attendibilità del reddito “sintetico”, giacchè quest’ultimo è frutto dell’applicazione di parametri e coefficienti predeterminati normativamente, le cui risultanze (…) hanno valore di presunzione legale relativa”;

con il quinto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame di più fatti decisivi per il giudizio, dedotti nel ricorso in appello a confutazione di alcune delle conclusioni cui era pervenuta la CTP, in particolare, dei fatti che: a) “contraddicono (l’)uso promiscuo (dell’immobile di proprietà) la circostanza che (esso) sia stato acquistato fruendo dell’agevolazione prima casa sull’intero ammontare del prezzo di acquisto (e non solo per i 2/3) ed il fatto che gli interessi passivi derivanti dal mutuo ipotecario sono stati detratti dall’imposta lorda senza scomputare la quota parte asseritamente riferibile all’impiego professionale dell’immobile. Inoltre, la normativa applicabile (D.M. 10 settembre 1992, art. 3, comma 2) pone a carico del contribuente l’onere di dimostrare, si badi bene “con idonea documentazione”, che il bene-indice di capacità contributiva è utilizzato nell’esercizio dell’impresa, arte o professione eventualmente svolta”; b) “(p)er quanto concerne il mutuo, la tabella allegata al D.M. prevede, al punto 6, che gli importi relativi alle residenze di proprietà siano aumentati delle rate di ammortamento degli eventuali mutui ad esse relativi. In tal caso, i rispettivi coefficienti sono ridotti di un’unità. Nulla dice circa l’esigenza di abbattere l’importo del mutuo in considerazione dell’utilizzo promiscuo dell’immobile (il che, comunque, non è dimostrato)”; c) “(i)n relazione alla circostanza che la spesa sostenuta per l’acquisto dell’auto, rilevante in quanto incremento patrimoniale, debba essere ridotta della plusvalenza connessa alla vendita della vecchia auto l’ufficio è d’accordo nel riconoscere l’importo della permuta, pari ad Euro 9.000,00, in diminuzione delle spese sostenute per incrementi patrimoniali”;

il primo motivo è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato;

il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla sostituzione (anche) di tale comma operata dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, stabiliva che “(I)’ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dai commi precedenti e dall’art. 39, può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato. A tal fine, con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, sono stabilite le modalità in base alle quali l’ufficio può determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito in relazione ad elementi indicativi di capacità contributiva individuati con lo stesso decreto, quando il reddito dichiarato non risulta congruo rispetto ai predetti elementi per due o più periodi di imposta”;

il decreto ministeriale previsto dal secondo periodo del comma appena trascritto fu emanato il 10 settembre 1992 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 16 settembre 1992, n. 218, e stabilì, appunto, che la disponibilità dei beni e dei servizi, descritti nella tabella allegata allo stesso decreto (poi sostituita con il D.M. finanze 19 novembre 1992, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 25 novembre 1992, n. 278), in quanto indicativa di capacità contributiva, fosse valutata, secondo le modalità indicate nel decreto (e nella tabella che ne “fa(ceva) parte integrante”; art. 1, comma 1), ai fini della determinazione sintetica del reddito complessivo netto delle persone fisiche;

a norma del D.M. 10 settembre 1992, art. 5, comma 1, gli importi previsti nella tabella dovevano essere adeguati ogni due anni, in base alle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale calcolato dall’ISTAT, “(c)on successivi decreti ministeriali”, atti ai quali, a seguito dell’istituzione delle agenzie fiscali (con il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300), subentrarono, a decorrere dal biennio 2000-2001, analoghi provvedimenti del direttore dell’Agenzia delle entrate, pubblicati anch’essi nella Gazzetta Ufficiale (si veda, per quanto qui rileva, per il biennio 2004-2005, il Provv. 17 maggio 2005 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 6 giugno 2005, n. 129, e, per il biennio 2006-2007, il Provv. 14 febbraio 2007 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 2 marzo 2007, n. 51);

il cosiddetto “redditometro”, di cui al D.M. 10 settembre 1992, è quindi uno strumento che – operando a fini che sono esclusivamente accertativi e probatori, e non sostanziali (ciò che “esclude, alla radice, (una) lesione dell’art. 23 Cost. che riserva alla legge la facoltà di imporre (…) prestazioni patrimoniali”; Cass., 24/04/2018, n. 10037) consente all’amministrazione finanziaria di presumere che alla disponibilità dei beni e dei servizi indicati nella tabella allegata al decreto corrisponda un reddito del contribuente dell’entità che risulta dall’applicazione dello stesso “redditometro”;

quest’ultimo pone dunque delle presunzioni normative, le quali vanno qualificate come relative, nel senso che l’applicazione del “redditometro”: a) da un lato, dispensa l’amministrazione finanziaria da qualunque prova ulteriore rispetto a quella della disponibilità degli elementi indicativi di capacità contributiva (beni e servizi) indicati nella menzionata tabella e legittima l’accertamento fondato su tale disponibilità (Cass., 19/04/2013, n. 9539, 10/08/2016, n. 16912, 31/10/2018, n. 27811); b) dall’altro lato, consente al contribuente di fornire la prova contraria, la quale, come chiarito da questa Corte, non è limitata a quella prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6 – che attribuisce al contribuente la facoltà di dimostrare che il maggior reddito determinato sinteticamente “è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta” (la cui entità e durata del possesso “devono risultare da idonea documentazione”) – ma include la possibilità di dimostrare, più in generale, che il reddito presunto sulla base del “redditometro” non esiste o esiste in misura inferiore (Cass., 24/10/2005, n. 20588, 19/10/2016, n. 21141, 24/04/2018, n. 10037);

da quanto esposto, risulta in modo evidente la commissione, da parte della CTR, degli errores in iudicando denunciati;

quanto a quello denunciato con il primo profilo del motivo, esso discende pianamente dalle considerazioni che: a) diversamente da quanto affermato dalla CTR, nell’accertamento sintetico mediante il cosiddetto “redditometro”, la determinazione del reddito del contribuente è operata sulla base di indici e coefficienti stabiliti con regolamento del Ministro delle finanze (adottato, nella specie, con il D.M. 10 settembre 1992), cui il secondo periodo D.P.R. n. 600 del 1973, comma 4, ha espressamente conferito tale potere, mentre i provvedimenti dell’Agenzia delle entrate (in particolare, del suo direttore) si sono limitati, come si è visto, ad aggiornare la tabella allegata al D.M. 10 settembre 1992 sulla base della variazione dell’indice dei prezzi al consumo calcolata dall’ISTAT; b) sia il D.M. 10 settembre 1992 sia il D.M. 19 novembre 1992 sia, infine, i provvedimenti di aggiornamento della tabella sono stati tutti pubblicati nella Gazzetta Ufficiale, il che esclude che essi dovessero essere allegati agli avvisi di accertamento o depositati in giudizio;

quanto all’errore denunciato con il secondo profilo del motivo, esso discende dal fatto che, diversamente da quanto affermato dalla CTR, i parametri stabiliti dal “redditometro” non sono delle “semplici presunzioni” nè degli “”indizi” per iniziare una indagine” ma, come si è detto, delle presunzioni normative (relative), che legittimano senz’altro l’amministrazione finanziaria a procedere all’accertamento fondato sulla disponibilità dei beni e dei servizi, indicativi di capacità contributiva, di cui alla tabella allegata al D.M. 10 settembre 1992;

il secondo motivo è fondato;

dalla lettura del ricorso in appello – depositato dalla ricorrente insieme con il ricorso per cassazione e al quale questa Corte, essendo stato denunciato un error in procedendo, ha il potere-dovere di accedere – risulta che, dopo la sintetica, e corretta, esposizione, nella parte narrativa, dei sette punti in cui si articolava la motivazione della sentenza della CTP (anch’essa depositata insieme con il ricorso), nella parte contenente i motivi dell’impugnazione (esposti nelle pagine da 2 a 5), l’Agenzia delle entrate confutava in modo puntuale e diffuso le argomentazioni svolte dai giudici di primo grado in ordine a ciascuno dei suddetti sette punti (quanto al primo, negli ultimi 20 righi di pag. 2; quanto al secondo, nei primi 23 righi di pag. 3; quanto al terzo, dal ventiquattresimo al quarantesimo rigo di pag. 3; quanto al quarto, dal quarantunesimo al quarantaquattresimo rigo di pag. 3; quanto al quinto, negli ultimi 3 righi di pag. 3 e nei primi 23 righi di pag. 4; quanto al sesto, dal ventiquattresimo al quarantatreesimo rigo di pag. 4; quanto al settimo, negli ultimi 4 righi di pag. 4 e nei primi 16 righi di pag. 5);

ciò esclude palesemente che il ricorso in appello dell’Agenzia delle entrate “non (fosse) motivato”, non “indica(sse) i motivi specifici dell’appello e le errate motivazioni della sentenza”, contenesse “argomentazioni generiche (…) che non affrontano, nel merito, le risultanze istruttorie e le relative motivazioni della sentenza”;

tanto riscontrato, neppure si può ritenere – contrariamente a quanto affermato dalla CTR – che l’Agenzia delle entrate dovesse “impugna(re) separatamente i tre anni di accertamento”, atteso che è la stessa sentenza della CTP impugnata ad affermare, sulla base dei sette menzionati punti della sua motivazione, che “devono ritenersi nulli, pertanto, gli accertamenti impugnati relativi agli anni 2004, 2005 e 2006, tutti analogamente redatti ed ai quali va riferita la suestesa motivazione” (quarta pagina, righi dal sestultimo al terzultimo);

si deve infine escludere anche che l’Agenzia appellante avesse l’onere di “affronta(re e) motiva(re) i conteggi e le presunzioni alla base dell’accertamento, spiegando gli errori della sentenza” impugnata, atteso, da un lato, che tali “conteggi e (…) presunzioni” erano esplicitati nei tre atti impositivi e, dall’altro lato, che “gli errori della sentenza”, come si è visto, erano stati confutati, punto per punto, nel ricorso in appello;

da ciò discende la fondatezza del motivo;

il terzo motivo è fondato;

come è in parte già emerso esaminando il secondo motivo, dalla lettura del ricorso in appello risulta che l’Agenzia delle entrate avanzò sette specifici motivi di impugnazione (contrassegnati da altrettanti numeri cardinali progressivi da 1 a 7), con i quali confutava le argomentazioni svolte nei sette punti in cui si articolava l’impugnata sentenza della CTP;

in particolare, con tali sette motivi, l’Agenzia delle entrate lamentava che la CTP avesse ritenuto che: a) l’immobile di proprietà era utilizzato, per un terzo della sua superficie, nell’esercizio della professione, pur non avendo il ricorrente fornito prova idonea al riguardo e nonostante tale utilizzo fosse smentito dalle circostanze che l’immobile era stato acquistato beneficiando delle agevolazioni cosiddette “prima casa” sul suo intero valore e che gli interessi passivi pagati in dipendenza del mutuo ipotecario acceso per il suo acquisto erano stati integralmente detratti dall’imposta lorda; b) l’autoveicolo era utilizzato, nella misura del 50%, nell’esercizio della professione, pur non avendo il ricorrente fornito prova idonea al riguardo (non potendosi ritenere tale l’indicazione dell’autoveicolo nel registro dei beni ammortizzabili) e nonostante il suddetto utilizzo fosse “inverosimile”, tenuto conto che, nel modello “Studi di settore”, il contribuente aveva affermato che la propria attività professionale lo impegnava solo per 13 ore alla settimana e consisteva in “Consulenza contabile, bilancio e dichiarazioni fiscali”, attività che non richiedono significativi spostamenti; c) le somme percepite a seguito della scadenza di una polizza assicurativa dovevano essere scomputate dal reddito accertato per l’anno 2004, nonostante la disponibilità di tali somme (il 23 ottobre 2004) fosse successiva all’acquisto dell’autoveicolo e il contribuente non avesse fornito la prova che l’esposizione bancaria che aveva coperto con le stesse somme fosse correlata a tale acquisto; d) la spesa per l’incremento patrimoniale dell’acquisto dell’autoveicolo doveva essere ridotta dell’importo derivante dalla vendita della vecchia autovettura, nonostante l’Agenzia delle entrate avesse concordato con tale riduzione; e) il reddito complessivo netto determinato sinteticamente doveva essere raffrontato con il reddito dichiarato dal contribuente al lordo degli oneri deducibili dichiarati, laddove il raffronto doveva essere fatto con il dato omogeneo del reddito netto dichiarato dal contribuente; f) il reddito del contribuente poteva subire variazioni anche consistenti di anno in anno in ragione del principio “di cassa”, nonostante questo non incidesse sulla fattispecie, atteso che i redditi del ricorrente erano risultati “non congrui” per tre consecutivi periodi d’imposta (2004, 2005 e 2006), il contribuente avesse dichiarato anche nel 2007 un reddito di soli Euro 4.571,00 ed “(e)ventuali dati relativi ad annualità successive non (fossero) emersi dagli atti del processo”; g) i redditi determinati applicando il “redditometro” sarebbero “inaffidabili” e tutti e tre gli avvisi di accertamento impugnati sarebbero nulli per gli stessi motivi per i quali era stato ritenuto nullo l’avviso di accertamento per l’anno 2004, nonostante le significative differenze tra le tre annualità d’imposta e nonostante non spettasse al giudice tributario sindacare l’attendibilità del reddito determinato mediante il “redditometro”, atteso che esso “è frutto dell’applicazione di parametri e coefficienti predeterminati normativamente”;

dalla lettura della sentenza impugnata emerge che essa non ha pronunciato su nessuno di tali motivi;

da ciò consegue la fondatezza del motivo in esame;

il quarto motivo è fondato;

la sentenza impugnata, nelle parti della sua motivazione che si sono trascritte, in narrativa, ai punti d) ed e), nega l’attendibilità dei redditi accertati mediante il “redditometro”, affermando che “(i) parametri indicati dall’Ufficio, non solo sono palesemente sproporzionati, ma anche non realistici”, contestando, in particolare, il valore di cui, secondo lo stesso “redditometro”, era considerato indicativo l’immobile del contribuente, nonchè la diversità, nei tre anni d’imposta oggetto di accertamento, dei valori di cui erano considerati indicativi, sempre in base al “redditometro”, sia l’immobile sia l’autoveicolo;

in proposito, si deve anzitutto osservare che, dalla lettura dei tre ricorsi introduttivi – anch’essi depositati dalla ricorrente insieme con il ricorso per cassazione e ai quali questa Corte, data la natura del vizio denunciato, ha il potere-dovere di accedere – risulta che il contribuente non avanzò motivi di doglianza relativi allo strumento del “redditometro” in sè, in particolare, ai valori da esso attribuiti all’immobile e all’autoveicolo;

in secondo luogo, come si è visto esaminando il primo motivo, il “redditometro” pone delle presunzioni normative relative, nel senso che: da un lato, dispensa l’amministrazione finanziaria da qualunque prova ulteriore rispetto a quella della disponibilità degli elementi indicativi di capacità contributiva (beni e servizi) indicati nella tabella allegata al D.M. 10 settembre 1992 e legittima l’accertamento fondato su tale disponibilità (Cass., n. 9539 del 2013, n. 16912 del 2016, n. 27811 del 2018); dall’altro lato, consente al contribuente di fornire la prova contraria;

ne discende che compito della CTR non era quello di negare l’attendibilità in sè dei redditi accertati mediante il “redditometro” bensì quello di valutare le prove addotte dal contribuente al fine di dimostrare che il reddito determinato mediante il “redditometro” era costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o, più in generale, non esisteva o esisteva in misura inferiore.

da ciò discende la fondatezza del motivo in esame;

l’esame del quinto motivo resta assorbito;

pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al primo, al secondo, al terzo e al quarto motivo, assorbito il quinto, e la causa deve essere rinviata alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, affinchè, tenuto conto dei motivi di appello, rivaluti la situazione probatoria e provveda altresì a regolare le spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

accoglie il primo, il secondo, il terzo e il quarto motivo, assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2021

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