Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19179 del 19/07/2018


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Civile Ord. Sez. 3 Num. 19179 Anno 2018
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: RUBINO LINA

ha pronunciato la seguente

Cd. 23/04/2018

ORDINANZA
CC

sul ricorso 5443-2016 proposto da:
LO VOI ROSALIA , considerata domiciliata ex lege in
ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,
rappresentata e difesa dall’avvocato MARIAGRAZIA
CARUSO giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro

A

GAMBITTA SEBASTIANA , considerata domiciliata ex lege
2018
1290

in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato
MASSIMO LIUZZO SCORPO giusta procura a margine del
controricorso;
– controricorrente –

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Data pubblicazione: 19/07/2018

avverso la sentenza n. 460/2015 della CORTE D’APPELLO
di CATANIA, depositata il 16/03/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di
consiglio del 23/04/2018 dal Consigliere Dott. LINA

RUBINO;

2

p
R.G. 5443/2016
I FATTI DI CAUSA
1. La vicenda che oggi viene a definizione trae origine da fatti che risalgono al 1997,
allorchè Rosalia Lo Voi convenne in giudizio i coniugi Sebastiana Gambitta e
Giovanni Mamazza per ottenere il riconoscimento del diritto reale di abitazione,
dagli stessi concessole con scrittura privata del 1989, relativo ad un immobile
acquistato per 4/5 dai coniugi Mamazza e per 1/5 dalla Lo Voi. Nell’ambito di tale
giudizio, la Gambitta disconosceva come propria la firma apposta alla scrittura. Il
Tribunale di Catania, Sezione distaccata di Mascalucia, con sentenza n. 233/2000,
accoglieva la domanda. La Corte d’appello di Catania, con sentenza n. 734/2004,
rigettava l’appello proposto avverso tale sentenza dalla Gambitta.
2. Nel 2005 la Lo Voi intentava una nuova azione giudiziaria nei confronti dei
Mamazza per sentirsi riconoscere l’esistenza di un credito pecuniario, relativo al
riparto di spese di ristrutturazione di un immobile di cui i Mamazza erano nudi
proprietari e la Lo Voi usufruttuaria.
3. Nel 2006, Rosalia Lo Voi conveniva in giudizio Sebastiana Gambitta per sentirla
condannare al risarcimento dei danni subiti in conseguenza “di tutti i (superiori)
procedimenti, accadimenti, espressioni sgradevoli e diffamatorie, false e calunniose,
(che si protraggono ancora oggi…)”, con cui la Gambitta “ha leso la dignità, l’onestà
e l’immagine della sig.ra Lo Voi Rosalia, causando un notevole aggravamento delle
condizioni psico-fisiche della Lo Voi medesima con molteplici sofferenze psichiche”.
Assumeva in particolare che, nel corsi dei precedenti giudizi, la Gambitta le avrebbe
rivolto frasi ingiuriose accusandola di aver concordato fraudolentemente con il
Mamazza (che si era costituito senza nulla opporre in merito alla richiesta della Lo
Voi) di usurpare parte dei propri beni e che la sua complessiva strategia processuale,
di strenua quanto inutile resistenza ad ogni domanda legittimamente proposta dalla
Lo Voi fosse giustificata solo da animosità nei suoi confronti a seguito della
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separazione personale intervenuta nel 1997, dal Mamazza, il quale viceversa non
aveva resistito alle domande. Si costituiva Sebastiana Gambitta, chiedendo il rigetto.
Nel corso del giudizio veniva espletata CTU, la quale riscontrava che la Lo Voi era
affetta da depressione cronica grave, quale esito di una forma depressiva cronica
preesistente, ma riacutizzatasi a causa dell’atteggiamento oppositivo mantenuto nei

biologico permanente della non trascurabile misura del 15,5%. Il Tribunale
dichiarava però improponibile la domanda risarcitoria, sul presupposto che la
competenza a decidere sulle richieste risarcitorie per le offese contenute negli scritti
presentati nei procedimenti dinnanzi all’autorità giudiziaria spetti solo al giudice
della causa nell’ambito della quale essi siano stati depositati.
4. Contro la sentenza n. 865/2014 del Tribunale di Catania proponeva appello
Rosalia Lo Voi, rappresentando che la sua attuale pretesa risarcitoria per le azioni
processuali in pregresso intentate dalla e verso la Gambitta in realtà non si riferiva
alle sole espressioni da quest’ultima utilizzate negli scritti difensivi.
5. La Corte d’appello, dopo aver invitato le parti a discutere i profili di ammissibilità
dell’appello, rigettava il gravame con sentenza resa ex art. 281 sexies c.p.c. In
particolare, la Corte affermava che la domanda ex art. 2043 c.c., anche laddove
interpretata non -in senso restrittivo- come volta a sanzionare l’uso di espressioni
offensive nei pregressi giudizi, ma invece -più in generale- come volta a sanzionare
l’abuso della stessa proposizione di quelle azioni giudiziali (con cui la controparte si
ostinava a negare la verità dei fatti), doveva comunque essere fatta valere nell’ambito
di ciascuno di quei procedimenti, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., in quanto il fatto
costitutivo di tale responsabilità consisteva proprio nella violazione del dovere di
lealtà della controparte. Aggiungeva che, se in linea di principio tale norma non
esaurisce in sé l’intera disciplina della responsabilità civile -la quale può fondarsi
anche sulla regola generale dell’art. 2043 c.c., di cui costituisce speciale applicazione,
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suoi riguardi dalla Gambitta; e che la stessa aveva riportato, a causa di ciò, un danno

essa va comunque sempre applicata a meno che l’accertamento che il giudice sia
chiamato a compiere abbia ad oggetto un fatto diverso da quello dei giudizi a quo. La
sentenza qui impugnata concludeva affermando che nel caso di specie l’abusività della
condotta avversaria avrebbe potuto esser azionata solo all’interno dei singoli
procedimenti, e non all’esterno di essi, perché il fatto costitutivo della responsabilità,

da parte della sua controparte, che si sarebbe tradotto nella proposizione di azioni
emulative.

6. Contro la sentenza n. 460/2015 della Corte d’appello di Catania, depositata il
16.3.2015, propone ricorso per Cassazione, con tre motivi, Rosalia Lo Voi.
Resiste con controricorso Sebastiana Gambitta.

LE RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 136 c.p.c., la
nullità della sentenza e del procedimento e conseguente violazione del principio del
contraddittorio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione agli artt. 156 e 159 c.p.c.
Per quanto è dato comprendere, la ricorrente lamenta che nessuna comunicazione di
una ordinanza pronunciata fuori udienza dalla Corte d’appello sia pervenuta alla
parte appellante (odierna ricorrente), e che non sia presente agli atti alcuna
attestazione di comunicazione da parte del cancelliere né vi sia alcun riferimento al
riscontro dell’avvenuta ricezione di tale comunicazione da parte del destinatario.
Osserva che, per tale ragione, l’appellante non abbia partecipato alle udienze
successive ( e, deve ritenersi, che per questo non abbia partecipato all’udienza in cui
la causa è stata decisa ex art. 281 sexies c.p.c., con la conseguenza che gli atti
processuali posteriori a tale ordinanza comunque all’assunzione della riserva e la
stessa sentenza gravata debbano considerarsi insanabilmente nulli per violazione del
principio del contraddittorio.

allegato dalla Lo Voi, era integrato dalla violazione del dovere di lealtà processuale

Il motivo è infondato: come risulta dalla attestazione di cancelleria prodotta dalla
parte controricorrente, la comunicazione della ordinanza contenente l’intervenuto
scioglimento della riserva e la fissazione dell’udienza per la discussione della causa
risulta essere stata regolarmente inviata a cura della cancelleria all’indirizzo di posta
elettronica certificata indicato nell’atto di appello dal procuratore della Lo Voi, e

il messaggio di ricezione indica mailbox full -quota exceeded. Pertanto la mancata
conoscibilità del testo del messaggio e quindi del contenuto della ordinanza che a
mezzo di esso veniva comunicata deriva da causa imputabile all’avvocato della
ricorrente e non può ridondare in pregiudizio della sua controparte.
Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2043 e 89 c.c.
in relazione all’art. 132, comma 2 n. 4 c.p.c. e all’art. 112 c.p.c. sotto un duplice
profilo: la diversità del fatto costitutivo posto a base della decisione, rispetto a quello
allegato in domanda e l’omessa pronuncia su una parte essenziale della domanda,
danno biologico e profili di danno connessi e conseguenti. Denuncia altresì la
violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.
Lamenta che la Corte d’appello abbia fondato la decisione di rigetto non
sull’interpretazione complessiva della domanda, ma sulla sua parziale e riduttiva
ricostruzione, in punto di fatto; che abbia pertanto sostituito alcuni elementi della

causa petendi a quelli complessivamente, logicamente e causalmente collegati, quali
formulati nella domanda introduttiva del giudizio e dibattuti; e che, di conseguenza,
una tale ricostruzione della domanda (fatto costitutivo) -parziale e riduttiva, in
quanto avrebbe sostituito la parte al tutto- violi il principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), perché avrebbe condotto ad una pronuncia
basata su un fatto costitutivo della domanda del tutto diverso da quello allegato.
Osserva come l’erroneità della sentenza impugnata si evinca agevolmente dal senso
letterale delle parole contenute nell’atto di appello e dal significato attribuibile alla
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non risulta ricevuta perché la casella di posta elettronica del ricevente risultava piena:

domanda; e come l’interpretazione della domanda, quando (come nel caso di specie)
abbia determinato una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato, non dia luogo ad un vizio di fatto, ma invece ad un error in procedendo,
in quanto tale sindacabile nel giudizio di Cassazione.
Lamenta, in particolare, che la domanda proposta non fosse volta ad ottenere il

offensività e levisità delle espressioni utilizzate in ciascuno dei due procedimenti
singolarmente considerati (ai sensi dell’art. 96 c.1 c.p.c.); né del ritardato
accertamento della verità e ritardato conseguimento del bene della vita, da risarcire
ex art. 96 c.3 c.p.c. (sia perché quest’ultima norma non sarebbe applicabile ratione

temporis, sia perché l’interesse giuridico tutelato dall’art. 96 c.p.c. sarebbe diverso da
quello azionato con la domanda risarcitoria della Lo Voi).
Osserva come, viceversa, l’insieme delle plurime e reiterate condotte processuali
della Gambitta sia tale da costituire un abuso del diritto e del processo, il quale
sarebbe stato piegato al perseguimento di finalità meramente emulative e
defatigatorie, motivate dall’avviata separazione dal coniuge, col quale aveva
sottoscritto gli atti negoziali -oggetto della causa- in favore della Lo Voi; e come le
suddette condotte, complessivamente considerate, abbiano causato nel tempo i
profili di danno (biologico, esistenziale, d’immagine e morale) costituenti lo specifico
interesse giuridico azionato dalla Lo Voi, rappresentando e costituendo la specifica e
complessa causa petendi della sua domanda risarcitoria. Lamenta che, per tale ragione,
la domanda fosse proponibile al di fuori ed anche dopo la conclusione dei singoli
processi in cui le espressioni offensive furono formulate, in quanto la tipologia di
danni denunciata si produsse nel tempo e si manifestò successivamente all’insieme
delle vicende processuali.
Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 89 c.p.c. e 2043
c.c. in relazione all’art. 132 c.p.c. nonché la violazione dell’art. 360 c.p.c.
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risarcimento dei danni causati alla Lo Voi dalla Gambitta in conseguenza della mera

Sostiene che, alla regola per cui la competenza per la liquidazione del danno spetta
allo stesso giudice dinanzi al quale si è svolto il giudizio in cui sono state usate le
espressioni offensive, si debba derogare quando il giudice non possa, o non possa più,
provvedere sulla domanda di risarcimento. Osserva come ciò accada, per quel che
interessa nel caso di specie, quando i danni si manifestino in uno stadio processuale

e che in ipotesi siffatte l’azione possa essere legittimamente proposta dinanzi al
giudice competente secondo le norme ordinarie, atteso che la responsabilità
processuale ha natura analoga a quella aquiliana e quindi l’antigiuridicità dei
comportamenti previsti dalle norme suddette non si esaurisce nell’ambito del
processo.
Lamenta che l’azione risarcitoria de qua fosse certamente proponibile in relazione
alle espressioni ingiuriose e diffamatorie contenute negli scritti difensivi conclusivi
delle procedure giudiziarie; e che, di conseguenza, la sentenza impugnata sia
illegittima per aver immotivatamente omesso di valutare, ai fini risarcitori, il
contenuto -offensivo e diffamatorio- degli scritti difensivi conclusivi stessi.
Parte ricorrente osserva conclusivamente come una corretta ricostruzione della
domanda quale conseguenza di tutte le condotte processuali complessivamente
considerate, causative di danni morali, connaturati da un disagio psicologico, danni
esistenziali, danni biologici e all’immagine, avrebbe dovuto condurre senz’altro
all’accoglimento della domanda stessa; che, non essendovi di tutto questo alcun
cenno nella sentenza impugnata, sussista il denunciato vizio di omessa pronuncia su
parte essenziale della domanda -danno biologico e profili di danno connessi e
conseguenti- in violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché i vizi di decisione non fondata
sulle prove proposte dalla parte e di omessa valutazione delle prove, di cui
rispettivamente agli artt. 115 e 116 c.p.c.; e che la Corte d’appello neppure avrebbe

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in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente dinanzi al Giudice di merito;

adeguatamente motivato la propria interpretazione parziale e riduttiva della
domanda attorea.
I motivi 2 e 3 possono essere congiuntamente esaminati in quanto pongono una
questione unitaria, che si specifica nei rilievi dei due motivi : ovvero, se , in caso di
plurime condotte che si traducano nell’agire o resistere in più di un giudizio nei

defatigatorie, o tenendo una condotta processuale ingiuriosa, sia ammissibile, ed in
quali limiti, la proposizione di un’azione generale di responsabilità civile nei
confronti del danneggiante, ovvero se la condotta processuale scorretta del
danneggiante possa esser fatta valere solo all’interno dei singoli giudizi, proponendo
la domanda di condanna per responsabilità processuale aggravata, ex art. 96 c.p.c. e,
quanto alle espressioni ingiuriose, chiedendo la condanna del responsabile alla
cancellazione di esse, ex art. 89 c.p.c.
Preliminarmente, il terzo motivo risente in parte di un deficit di autosufficienza,
laddove la ricorrente si limita ad affermare che le espressioni ingiuriose della
Gambitta siano comprese negli atti difensivi finali di questa, e di conseguenza non
avrebbero potuto essere denunciate se non in un giudizio successivo: la ricorrente
non riporta affatto quali siano queste espressioni offensive, né tento meno indica con
precisione verificabile la loro collocazione negli atti.
La questione posta dal ricorso è di recente stata esaminata e risolta dalla sentenza n.
25862 del 2017 che ha affermato il seguente principio di diritto : “L’azione di
risarcimento danni ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. è proponibile in un giudizio
separato ed autonomo, rispetto a quello in cui si è verificato l’abuso, ove il
danneggiato alleghi e provi che tale scelta sia dipesa, non già da una sua mera inerzia,
ma da un interesse specifico a non proporre la relativa domanda nello stesso giudizio
che ha dato origine all’altrui responsabilità aggravata, interesse che deve essere
valutato nel caso concreto per accertarne l’effettiva esistenza ed escludere che sia
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confronti di una medesima persona, assumendo linee difensive inutilmente

illegittimo o abusante”. Si intende in questa sede richiamare e dar continuità alle
recenti affermazioni della giurisprudenza di legittimità sopra richiamate, che non
conducono però all’accoglimento del ricorso.
La suddetta sentenza non si è discostata dal principio sopra enunciato.
La sentenza impugnata ha, condivisibilmente, delineato uno spazio autonomo di

comportamenti caratterizzati dall’aver avventatamente agito o dall’aver
ingiustificatamente e pervicacemente resistito in giudizio, scisso dalla proposizione
dell’azione processuale di responsabilità aggravata ex art. 96 comma 1 c.p.c., ma,
richiamando la sentenza citata, ma ha sottolineato che l’ambito di legittima
proponibilità della domanda risarcitoria in via autonoma è circoscritto alle
situazioni in cui esista un apprezzabile interesse alla proposizione autonoma
dell’azione, ed ha escluso, con giudizio in fatto non rinnovabile in questa sede, che
nel caso di specie, sulla base delle domande proposte e dei fatti allegati, un tale
apprezzabile interesse, atto a giustificare l’autonoma proponibilità della domanda,
fosse configurabile.
La sentenza impugnata ammette, sebbene pur sempre con un rapporto di eccezione
rispetto alla regola, l’ammissibilità di una azione risarcitoria autonoma in taluni casi
(che individua in quelli in cui l’accertamento che il giudice sia chiamato a compiere
abbia per oggetto un fatto diverso da quello dei giudizi a quo). Ciò premesso, essa
rigetta l’appello (confermando la pronuncia di primo grado di improponibilità
dell’autonoma domanda risarcitoria) escludendo che nel caso di specie fosse
giustificata l’autonoma proposizione della domanda, giacché il fatto costitutivo
allegato a fondamento della responsabilità processuale della Gambitta era dalla Lo
Voi stato indicato esclusivamente nella violazione del dovere di lealtà processuale,
che aveva indotto, nei due precedenti giudizi, la controparte a resistere
pervicacemente pur essendo consapevole della fondatezza della domanda altrui.

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utilizzabilità dell’azione generale di responsabilità civile anche a fronte di

Infine, la decisione d’appello ha negato, sulla base della formulazione della domanda
come originariamente proposta dalla Lo Voi ( che si era limitata a richiamare le due
cause precedenti e le non meglio precisate espressioni diffamatorie utilizzate dalla
Gambitta), che la pur infondata resistenza in giudizio della parte, eventualmente
accompagnata da espressioni sgradevoli nei confronti della controparte, ripetuta in

domanda risarcitoria fondata sulla mala fede processuale.
L’affermazione non appare errata.
Nella più recente ricostruzione di legittimità, il fondamento della previsione
normativa di cui agli artt. 96, primo e secondo comma, che impongono di regola la
proposizione dell’azione per responsabilità processuale all’interno dello stesso
processo in cui si è prodotto il comportamento scorretto è individuato, più che nella
competenza funzionale del giudice adito, in ragioni di economia processuale,
peraltro dotate di un preciso fondamento costituzionale nel principio del giusto
processo. La proposizione di una autonoma azione risarcitoria, volta a sanzionare il
comportamento processuale scorretto di una delle parti, e la conseguente deviazione
dal principio dell’economia processuale, può giustificarsi, con accertamento
riservato al giudice del caso concreto, qualora si alleghi l’esistenza di un interesse
specifico a ciò, che può consistere anche nell’indicare l’esistenza di una strategia
emulativa complessiva, che leghi l’una causa all’altra consentendone una lettura
coordinata in termini di abuso del processo e che valorizzi il complessivo
comportamento processuale ostativo come causa di un danno.
In altri termini, la proposizione di più azioni per uno stesso fatto, o di più azioni nei
confronti di una medesima persona, o anche la pervicace resistenza in giudizio a
fronte di più azioni proposte da una medesima persona, potrebbe giustificare la
proposizione di un’azione risarcitoria scissa dai singoli giudizi e che ad essi faccia
riferimento come elementi della fattispecie, qualora si assuma l’esistenza di un vero
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più di una causa, fosse di per sé idonea a giustificare l’autonoma proposizione di una

e proprio abuso del processo. In questo caso, comportamenti processuali (non
giustificati che dalla volontà di ostacolare il conseguimento di una posizione giuridica
più favorevole, o l’indisturbato godimento di un diritto) che, ove autonomamente
considerati potrebbero non superare la soglia del legittimo esercizio del diritto di
difesa, ove letti congiuntamente come componenti di un unico disegno emulativo,

Nel caso di specie, solo dalla formulazione del ricorso emerge una lettura
complessiva dei singoli comportamenti processuali che trascende i singoli giudizi e si
pone come unitaria strategia processuale volta a produrre un effetto meramente
emulativo sulla ricorrente e ad agire come moltiplicatore del disagio connesso alla
necessità di agire in giudizio a tutela dei propri diritti fino ad essere causa unitaria del
sorgere di un vero danno biologico. La conferma in appello della pronuncia di
inammissibilità della domanda risarcitoria autonoma in quanto non giustificata da
uno specifico interesse che trascendesse dalla possibilità di esercitarla all’interno dei
singoli giudizi non appare pertanto viziata.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.
Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e
la ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso
principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115
del 2002.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico della ricorrente le spese di giudizio sostenute
dalla parte controricorrente, che liquida in complessivi euro 2.000,00 oltre 200,00
per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.

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consentirebbero di far emergere una autonoma ed unitaria fattispecie di danno.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente
di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso principale.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 23 aprile 2018

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