Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19165 del 06/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 06/07/2021, (ud. 12/05/2021, dep. 06/07/2021), n.19165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11157/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

Fremantlemedia Italia s.p.a. (già Grundy s.p.a.), in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, come da

procura a margine ricorso incidentale, dall’Avv. Giuseppe Marini,

elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via dei

Monti Parioli, n. 48;

– controricorrente-ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio,

n. 341/4/2012, depositata il 30 ottobre 2012.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 12 maggio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. L’Agenzia delle entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti della Grundy s.p.a. (ora Fremantlemedia Italia s.p.a.), per l’anno 2003, sulla base di 2 rilievi. In primo luogo, veniva contestata la modalità di contabilizzazione dei ricavi ricevuti dalla contribuente per la cessione dei diritti relativi allo sfruttamento economico dell’opera cinematografica “(OMISSIS)” alla società tedesca Degeto. Infatti, la contribuente, pur avendo ricevuto l’intera somma di Euro 2.000.000,00 al momento della stipulazione del contratto, aveva iscritto in bilancio i ricavi nei singoli anni dal 2003 al 2010, provvedendo ad iscrivere anche tali somme tra i risconti passivi. Per l’Agenzia, invece, i ricavi dovevano essere indicati per la cifra complessiva di Euro 2.000.000,00 proprio nell’anno 2003, data in cui era avvenuta la consegna dell’opera cinematografica alla Degeto, il (OMISSIS), mentre il contratto era stato sottoscritto il (OMISSIS). Il recupero a tassazione riguardava, allora, la mancata indicazione di ricavi per Euro 1.797.119,05, in quanto per il 2003 comunque la società aveva indicato la somma di Euro 202.380,95. In secondo luogo, l’Agenzia evidenziava che la società aveva indebitamente dedotto costi non di competenza per Euro 881.341,68 nell’anno 2003, mentre i costi relativi al contenzioso giudiziale intercorso tra la Grundy e la Aran/Endemol erano divenuti certi e determinati solo con l’atto di transazione del 2006.

2. La Commissione tributaria provinciale di Roma, con sentenza n. 108/26/10, accoglieva il ricorso integralmente, mentre la Commissione tributaria regionale del Lazio accoglieva solo in parte l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, dichiarando la legittimità dell’accertamento relativamente agli accantonamenti per costi di transazione, divenuti certi solo a seguito della stipulazione della transazione nell’anno 2006. Con riferimento, invece, alla dedotta violazione del principio di competenza, per l’utilizzo della tecnica contabile dei risconti passivi, il giudice d’appello evidenziava che il contratto di cessione dei diritti di sfruttamento di opera cinematografica costituiva un negozio atipico, qualificabile come contratto di licenza o di concessione, parificabile al contratto di locazione. I relativi ricavi costituivano, dunque, corrispettivi legati a prestazioni di servizi, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b), che dovevano considerarsi conseguiti alla data di maturazione dei corrispettivi, benchè vi fosse stato un pagamento anticipato da parte della società tedesca.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

4. Propone ricorso per cassazione anche la Fremantlemedia Italia s.p.a..

5. Resiste con controricorso al ricorso principale dell’Agenzia delle entrate la Fremantlemedia Italia s.p.a.

6. Il Procuratore Generale, Dott. Salzano Francesco, ha depositato conclusioni scritte chiedendo “il rigetto di entrambi i ricorsi”.

7. La società ha depositato memoria scritta.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Anzitutto, non può essere accolta la richiesta di trattazione della controversia in pubblica udienza avanzata dalla difesa della società nella memoria scritta. Invero, per questa Corte, in tema di giudizio di legittimità, la causa (nella specie tributaria) può essere trattata, anzichè in pubblica udienza, con il nuovo rito camerale “non partecipato”, ai sensi degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c., in presenza di particolari ragioni giustificative, purchè obiettive e razionali, tra cui rientra l’esigenza di evitare, nel periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19, assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone, alla luce sia del D.L. n. 34 del 2020, art. 221, comma 4, conv., con modif., in L. n. 77 del 2020 – che consente, fino a cessata emergenza sanitaria, la trattazione scritta delle cause civili (cd. udienza cartolare) – sia delle misure organizzative adottate dal Primo presidente della Cassazione, con propri decreti, al fine di regolamentare l’accesso ai servizi (Cass., sez. 5, 20 novembre 2020, n. 26480).

Deve aggiungersi che l’udienza pubblica è riservata alla particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, mentre nella specie, vi è un precedente di legittimità, pure se remoto. Inoltre, il contraddittorio tra le parti si è sviluppato in modo ampio attraverso il deposito di conclusioni scritte da parte della Procura Generale ed il deposito di memoria scritta da parte della società.

1.1. Il ricorso proposto dalla Agenzia delle entrate deve essere qualificato come principale, mentre il ricorso della società Fremantlemedia Italia s.p.a. deve essere indicato come incidentale, in quanto notificato in data successiva al primo.

Infatti, il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso, fermo restando che tale modalità non è essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorchè proposto con atto a sè stante, in ricorso incidentale (Cass., sez. 1, 4 dicembre 2014, n. 25662; Cass., sez. L, 20 marzo 2015, n. 5695). Solo nel caso in cui i due ricorsi risultino essere stati notificati nella stessa data, l’individuazione del ricorso principale e di quello incidentale va effettuata con riferimento alle date di deposito dei ricorsi, sicchè è principale il ricorso depositato per primo, mentre è incidentale quello depositato per secondo.

1.2. Con il primo motivo del ricorso principale l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b), nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Il giudice d’appello avrebbe errato nel regolare la contabilizzazione dei proventi derivanti alla contribuente dal contratto stipulato con la società di diritto tedesco Degeto, relativo alla concessione di diritti televisivi per l’opera cinematografica (OMISSIS). La società, infatti, aveva contabilizzato il compenso pattuito nel conto “risconti passivi”, ripartendolo nel periodo compreso tra il 2003, anno di avvenuta consegna dell’opera cinematografica, ed il 2010. Le somme attenevano al trasferimento del diritto di utilizzazione esclusiva del film per n. 6 passaggi televisivi in un arco temporale di 7 anni. In realtà, per la ricorrente la società avrebbe dovuto indicare la somma di Euro 1.797.619,05 nell’anno 2003, data di consegna dell’opera cinematografica da parte della Degeto, per il contratto stipulato in data (OMISSIS). Non era invece utilizzabile la tecnica contabile dei risconti passivi, consentita soltanto per il contratto di locazione, come del resto affermato dalle circolari della Agenzia delle entrate n. 5/E e n. 176/E del 2002. La circostanza che il pagamento fosse stato effettuato in unica soluzione al momento della sottoscrizione del contratto, denotava che il corrispettivo non era periodico.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “in subordine: motivazione insufficiente e contraddittoria su fatti decisivi e controversi del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto deve applicarsi la vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non essendo operante la modifica introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1. Peraltro, la censura, così come formulata, è conforme anche al nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il vizio che inficerebbe la sentenza d’appello si incentra sulla circostanza che non emerge da alcuna clausola del contratto che il rapporto contrattuale dovesse considerarsi periodico, a fronte di un pagamento unitario ed anticipato al momento della stipulazione del contratto. Non vi sono elementi o indici attestanti che il reale contenuto economico dell’operazione era nel senso di ripartire il valore complessivo del contratto in più anni.

2.1. Il primo motivo è infondato.

2.2. Invero, è pacifico tra le parti che sia stato stipulato un contratto di cessione dei diritti per lo sfruttamento economico dell’opera cinematografica (OMISSIS) tra la società contribuente e la società tedesca Degeto, per la somma di Euro 2.000.000,00, attraverso la rappresentazione di 6 spettacoli tra l’anno 2003, tempo di consegna dell’opera cinematografica, e l’anno 2010.

2.3. La società contribuente ha ripartito i ricavi in 8 anni, dal 2003 al 2010, indicando per il 2003 la somma di Euro 202.380,95, a fronte di un risconto passivo di Euro 1.797.119,05, nel 2004 la somma di Euro 285.714,29, a fronte di un risconto passivo di Euro 1.511.904,76. Negli anni dal 2005 al 2009 nei ricavi è stata descritta la somma di Euro 285.714,29, mentre nell’anno 2010 è stata indicata tra i ricavi la somma di Euro 83.333,33. I risconti passivi, invece, diminuiscono di anno in anno, sino a divenire “zero” nell’anno 2010.

2.4. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b), prevede che “ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza: b) i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi”.

2.5. Diviene, allora, dirimente qualificare il contratto di cessione dei diritti di utilizzazione di opere cinematografiche.

Per questa Corte, il contratto con cui il distributore di un film attribuisce al gestore di un cinema il diritto di proiettarlo per un tempo determinato (contratto di noleggio di films) è negozio atipico, inquadrabile nella categoria delle concessioni di diritti patrimoniali su beni immateriali, al quale sono ontologicamente applicabili le norme sul contratto di locazione (Cass., sez. 3, 6 maggio 1977, n. 1741; cfr. anche Cass., sez. 1, 6 settembre 1996, n. 8142, in relazione all’imposta di registro da applicare nel caso in cui il contratto di distribuzione, con la previsione del “minimo garantito” al produttore, contenga tre distinti negozi giuridici: per la commercializzazione dell’opera; per il finanziamento della sua produzione e per il trasferimento del rischio della commercializzazione dal produttore al distributore). Si tratta di una licenza di utilizzazione dell’opera cinematografica che ha come contenuto l’attribuzione della facoltà di godimento limitato di tale opera attraverso l’uso della relativa pellicola per un dato tempo e verso un determinato corrispettivo; tale facoltà appare analoga a quella del conduttore, in quanto ad essa assimilabile per la natura dei diritti e degli obblighi di pertinenza del gestore della sala cinematografica, quali il diritto alla consegna della pellicola, il diritto all’indisturbato esercizio del potere di sfruttamento dell’opera cinematografica; l’obbligo di ricevere la pellicola, di servirsene nel modo e per il tempo convenuti e di riconsegnarla alla scadenza nello stato in cui è stata ricevuta. Si è anche affermato che il contratto di cessione di diritti di autore di opera cinematografica è un contratto “atipico”, cui sono pertanto applicabili solo le norme a carattere generale dalla L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 107 al 114, sul diritto di autore, e anche l’art. 119, che disciplina la portata del contratto di trasferimento dei diritti di utilizzazione spettante all’autore, dovendosi ritenere tale disposizione applicabile ai soli contratti di edizione (Cass., sez. 1, 17 maggio 2013, n. 12086).

In dottrina il contratto di noleggio dell’opera cinematografica è stato così descritto: il contratto con il quale il produttore (noleggiatore) cede temporaneamente ad una persona (esercente) l’esercizio del diritto di proiezione dell’opera per spettacoli cinematografici contro compenso, trasferendogli a tale finalità il corpus mechanicum (pellicola del film) occorrente per effettuare proiezioni”.

La L. n. 220 del 2016, art. 2, comma 1, definisce come “film” o “opera cinematografica”, l’opera audiovisiva destinata prioritariamente al pubblico per la visione nelle sale cinematografiche.

La finalità del contratto non è, dunque, quella di noleggiare un bene mobile, quale è il film, ma il mobile in quanto strumento della proiezione; il film diventa riproduttore di un bene astratto, che è l’opera.

Sul punto, deve evidenziarsi che la disciplina giuridica del film, da considerarsi come opera dell’ingegno, fa riferimento principalmente alla legge sul diritto di autore, di cui alla L. 22 aprile 1941, n. 633. Inoltre, il rapporto giuridico derivante dall’esercizio dei diritti d’autore che si instaura per la proiezione del film, non è soltanto fra due soggetti, ossia il produttore, in quanto esercente i diritti di autore sull’opera, e l’imprenditore di sale di proiezione cinematografiche, perchè ricorre normalmente anche l’ausilio di un intermediario denominato distributore.

Devono distinguersi, infatti, due rapporti diversi: il contratto di distribuzione tra produttore e distributore, ove si innestano questioni inerenti all’opera cinematografica, come opera dell’ingegno; il contratto di noleggio tra distributore ed esercente sale di proiezione cinematografica, ove prevalgono elementi riguardanti il film come prodotto industriale.

In quest’ultima ipotesi, infatti, il distributore mantiene in capo a sè la titolarità dei rapporti, con la concessione all’esercente della facoltà, limitata nel tempo e nello spazio, di utilizzare il film per la proiezione. L’esercente si impegna solo per la parte che attiene alla materiale circolazione della pellicola, senza che si trasferiscano in capo a lui rapporti che attengono al diritto di sfruttamento economico del film. Il rapporto intercorrente tra il distributore e gli esercenti le sale di proiezione è individuato, secondo la dottrina, nel contratto di noleggio. Ci si trova, dunque, dinanzi ad un contratto atipico, che presenta però notevoli contatti con la locazione. Parte della dottrina ha sostenuto che tale rapporto tra distributore ed esercente la sala cinematografica, debba essere qualificato come “contratto misto di locazione di cosa produttiva e di licenza di sfruttamento dell’opera cinematografica”. Evidenti sono anche le divergenze, in quanto la locazione presuppone la consegna di una cosa determinata fisicamente e localizzata nello spazio, mentre tali attributi non connotano la creazione intellettuale, quale è, appunto, l’opera cinematografica. Va distinta la trasmissione della cosa materiale da quella dei diritti sull’opera dell’ingegno. Inoltre, l’esercente-noleggiatore ha l’obbligo, e non soltanto il diritto, di proiettare il film; infatti, la mancata programmazione costituisce inadempimento del contratto, con conseguente obbligo dell’esercente di risarcire i danni subiti dal distributore. Il conduttore, invece, è libero di servirsi o meno della cosa, salva la sua responsabilità per l’impedimento o il deterioramento della stessa, ai sensi dell’art. 1588 c.c.. Il distributore, poi, è interessato non solo allo sfruttamento economico, ma anche al fatto in sè della circolazione del film.

Per la dottrina, i contratti di noleggio al fine di massimizzare lo sfruttamento economico dell’opera, stipulati tra il distributore e gli esercenti cinematografici, si sostanziano in contratti di locazione di bene immobile produttivo, ovvero la copia del film (fisica o digitale) fornita dal distributore. Al distributore spetta un “canone di noleggio”, che può essere a quota fissa o variabile in percentuale delle vendite, che va a scalare di settimana in settimana (escalator). La prassi commerciale prevede che il distributore offra l’intero suo listino (block booking) proprio per equilibrare i rischi di impresa tra i vari film, con la previsione, nel contratto, di clausole penali volte al rispetto degli obblighi di programmazione.

Ovviamente, con la digitalizzazione e la diffusione di piattaforme di streaming on demand, la “catena di valore” del film si è allargata con la prospettiva di nuovi mercati di sbocco. Emerge sempre di più la natura mista e atipica degli schemi contrattuali, che si adeguano alle nuove esigenze del mercato.

2.6. Peraltro, con la risoluzione del 12 febbraio 1999, n. 21, del Ministero delle Finanze si è affrontato il caso della corretta imputazione temporale dei proventi derivanti dallo sfruttamento economico dei films dati in uso mediante la concessione dei relativi diritti. Si è affermato, dunque, che il corrispettivo pattuito per la concessione dei diritti di sfruttamento dei films, indipendentemente dalle modalità di pagamento contrattualmente previste, non può che essere collegato alla fruizione del diritto patrimoniale nell’arco di tempo della concessione. Ne deriva, quindi, che concorre a formare il reddito di ciascun esercizio la parte di corrispettivo maturata nell’esercizio stesso. Solo nella diversa ipotesi di “concessione perpetua”, non assumendo rilevanza la considerazione dell’intera durata di tutela del diritto d’autore, non può che soccorrere la regolamentazione contrattuale, anche nell’aspetto della previsione temporale di pagamento del corrispettivo pattuito che riflette di regola l’intensità economica del grado di utilizzo del diritto concesso.

2.7. Con riferimento ai contratti di locazione, nel caso in cui il pagamento dei canoni avvenga immediatamente con la stipula del contratto, con la risoluzione del 5 giugno 1979 n. 705 (anche risoluzione del 17 maggio 1976, n. 1093), il Ministero delle Finanze ha ritenuto corretta la contabilizzazione dei ricavi anticipati, quali risconti passivi.

Il criterio di competenza impone la distinta imputazione dei corrispettivi agli esercizi ai quali si riferiscono, a nulla rilevando il fatto che essi siano di fatto corrisposti in anticipo. La circostanza che l’ammontare del canone è soggetto a variazioni nel corso della concessione, non assurge ad elemento modificativo di tale criterio; tali variazioni interesseranno, peraltro, l’esercizio di insorgenza come maggiori ricavi o come sopravvenienze attive a secondo del loro riferimento rispettivamente all’esercizio stesso ovvero a esercizi precedenti.

2.7.1. Per questa Corte, poi, in tema di redditi di impresa, i ricavi derivanti dai canoni di locazione devono considerarsi conseguiti, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b), alla data di “maturazione” dei medesimi, in quanto, fino all’eventuale risoluzione del contratto, non possono essere qualificati componenti positivi dei quali non sia certa l’esistenza o la determinazione dell’ammontare, a prescindere dalla concreta corresponsione (Cass., sez. 6-5, 11 maggio 2018, n. 11556). Solo a seguito della ordinanza di convalida dello sfratto i canoni non devono più essere iscritti nel bilancio della contribuente locatrice e non vanno, quindi, dichiarati. Prima del provvedimento di convalida dello sfratto, invece, i canoni di locazione non pagati devono essere dichiarati, salva la loro deduzione come “sopravvenienze passive” o, in caso di ricorrenza dei relativi presupposti, come “perdite su crediti” (Cass., sez. 5, 21 novembre 2019, n. 30372).

2.8. Le circolari dell’Agenzia delle entrate n. 5/E delle 10 gennaio 2002 e n. 176/E del 6 giugno 2002 non conducono a conclusioni diverse da quelle affermate. Nella prima, si fa riferimento alla concessione al licenziatario di una licenza interamente pagata relativa al know how alla scadenza del contratto. Si ritiene, dunque, che le caratteristiche del contratto non rendono applicabile lo schema previsto per i contratti di durata, quali la locazione, in cui la maturazione del diritto al corrispettivo è proporzionale al trascorrere del tempo. Deve, dunque, farsi riferimento, per il principio di competenza, al momento della sottoscrizione del contratto. La ripartizione temporale dei ricavi di competenza deve avvenire, infatti, in base al decorso fisico-temporale del tempo solo quando le prestazioni contrattuali rese o ricevute abbiano contenuto economico costante nel tempo. Diversamente, è necessario adottare il concetto di “tempo economico” che riflette il reale contenuto economico dell’operazione, determinante ai fini della ripartizione del valore imputabile ciascun esercizio. Nella risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 176/E del 6 giugno 2002, si precisa che la prestazione principale si considera ultimata al momento dell’attribuzione del diritto e, quindi, all’atto della sottoscrizione del contratto stesso. La norma prevista per i contratti di durata, quali la locazione, si applica solo nella ipotesi in cui la maturazione del diritto al corrispettivo è proporzionale al trascorrere del tempo.

2.9. In realtà, però, nella fattispecie in esame il contenuto giuridico ed economico della prestazione è rimasto costante nel tempo. Infatti, la società contribuente ha consentito alla società tedesca l’utilizzazione dei diritti cinematografici sul film (OMISSIS) per 6 volte nel periodo dal 2003 al 2010.

Ciò ha comportato, come correttamente dedotto dalla contribuente, e come correttamente affermato dal giudice di merito, che l’obbligazione principale del concedente (licenziante) consiste nel consentire il godimento temporaneo delle opere al licenziatario, con l’ulteriore obbligo di esercitare le azioni necessarie a tenere indenne il licenziatario da turbative di terzi. La L. 14 novembre 2016, n. 220, art. 32, sul tema, ha previsto l’istituzione presso il Ministero del Registro pubblico delle opere cinematografiche e audiovisive, al fine di assicurare la pubblicità e l’opponibilità ai terzi dell’attribuzione dell’opera ad autori e produttori che sono reputati tali a seguito della registrazione fino a prova contraria.

Ai sensi della L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 46, “l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica, spettante al produttore, ha per oggetto lo sfruttamento cinematografico dell’opera prodotta”. Tale L., art. 45, al comma 1, stabilisce che “l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell’opera cinematografica spetta a chi ha organizzato la produzione dell’opera stessa, nei limiti indicati dei successivi articoli”. Lo sfruttamento dell’opera cinematografica spetta, quindi, produttore, che può utilizzarla direttamente, oppure cedendo l’esercizio dello sfruttamento ad intermediari o esercenti, attraverso il contratto “di noleggio”.

La L. n. 633 del 1941, art. 171, in materia penale, fa riferimento specifico alla “rappresentazione o esecuzione” che “comprende la proiezione pubblica dell’opera cinematografica”.

La L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 156, prevede, nella versione in vigore dal 18 dicembre 1942 al 21 aprile 2006, che “chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di utilizzazione economica a lui spettante in virtù di questa legge, oppure intende impedire la continuazione o la ripetizione di una violazione già avvenuta, può agire in giudizio per ottenere che il suo diritto sia accertato e si è interdetta violazione”. Inoltre, la L. n. 633 del 1941, art. 157, dispone che “chi si trova nell’esercizio dei diritti di rappresentazione o di esecuzione di un’opera adatta al pubblico spettacolo, compresa l’opera cinematografica… può richiedere al prefetto della provincia… la proibizione della rappresentazione o della esecuzione, ogni qualvolta manchi la prova scritta del consenso da esso prestato”. Inoltre, ai sensi della L. n. 633 del 1941, art. 163, “il titolare di un diritto di utilizzazione economica può chiedere che sia disposta l’inibitoria di qualsiasi attività e costituisca violazione del diritto stesso”.

Si è anche affermato che, in tema di diritti di utilizzazione esclusiva di opere cinematografiche, chi agisce in rivendicazione, facendo valere il possesso legittimo di tali diritti, previsto dal R.D. n. 633 del 1941, art. 167, e chiedendone l’accertamento in capo a sè con inibitoria dell’utilizzo da parte di terzi (e conseguente richiesta dei danni), ai fini della legittimazione “ad causam”, deve allegarne, come accade in ogni azione di rivendicazione, la serie ininterrotta di trasferimenti dal produttore, unico originario proprietario di essi, non essendo sufficiente, pertanto, la produzione dell’atto scritto di cessione di tali diritti da parte di una società di distribuzione (Cass., sez. 1, 5 marzo 2010, n. 5359).

Pertanto, tra gli obblighi del produttore-noleggiatore si inseriscono, soprattutto, quello di garantire al noleggiatore il pacifico ed indisturbato esercizio dello sfruttamento cinematografico, oltre alla garanzia dell’esercente dalle molestie dei terzi che pretendono di avere diritti sui film e ne menomano o ne compromettono lo sfruttamento cinematografico.

Allo stesso modo, l’esercente ha il dovere di utilizzare il corpus mechanicum con la massima diligenza, assumendo la responsabilità del buon padre di famiglia; deve avvertire tempestivamente il noleggiatore delle pretese, molestie ed azioni di terzi, sfruttando il film soltanto in base agli accordi negoziali. Naturalmente, deve tenersi conto del passaggio ormai avvenuto dalla pellicola al “digitale”, come emerge dalla L. n. 220 del 2016, art. 29, per cui è stata istituita un’apposita sezione del Fondo per il cinema e l’audiovisivo, al fine di consentire il passaggio del patrimonio cinematografico e audiovisivo al formato digitale.

L’esistenza di tali obblighi, soprattutto da parte del produttore-noleggiatore, consente di comprendere che si tratta di contratto ad esecuzione continuata, sicchè si rende applicabile la disciplina della locazione, pur con le inevitabili distinzioni sopra descritte, con la conseguenza che i ricavi vanno “spalmati” di anno in anno, sino al termine di durata indicato nel contratto.

Del resto, questa Corte nel remoto precedente sopra menzionato (Cass., sez. 3, 6 maggio 1977, n. 1741), ha evidenziato l’applicabilità dell’art. 2581 c.c., in base al quale i diritti di utilizzazione sono trasferibili. La L. n. 633 del 1941, art. 107, poi, prevede che “i diritti di utilizzazione spettanti agli autori delle opere dell’ingegno, nonchè i diritti connessi aventi carattere patrimoniale, possono essere acquistati, alienati o trasmessi in tutti i modi e forme consentiti dalla legge”. Pertanto, il noleggio di films, concretandosi in una licenza di utilizzazione dell’opera cinematografica, ha come contenuto l’attribuzione della facoltà di godimento limitato di tale opera attraverso l’uso della relativa pellicola per un dato tempo e verso un determinato corrispettivo; tale facoltà è analoga a quella del conduttore, in quanto ad essa assimilabile per la natura dei diritti e degli obblighi di pertinenza del gestore della sala cinematografica.

2.10. Inoltre, in base ai principi contabili nazionali (OIC 24) del 30 maggio 2005, si evidenzia che il diritto d’autore può essere oggetto di trasferimento attraverso i seguenti atti di disposizione: contratto di edizione; contratto di rappresentazione, per le opere teatrali, coreografiche, con cui l’autore concede la facoltà di rappresentare o eseguire in pubblico l’opera, contro un determinato corrispettivo; contratto di esecuzione equivalente al precedente per le opere musicali. Per l’impresa possono scaturirne ricavi indiretti, che sono quelli connessi alla rappresentazione al pubblico attraverso radio, televisione ed altri mezzi di diffusione sonora e visiva, quando il pubblico non versa per tali rappresentazioni alcuna somma specifica, ovvero versa abbonamenti annuali, non riconducibili neanche indirettamente a quell’opera specifica. Tale tipologia di sfruttamento giustifica l’iscrizione del costo del diritto d’autore tra le immobilizzazioni immateriali. La legge non ha posto limiti precisì in ordine alla durata dell’ammortamento per i diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, sicchè vale la regola generale in base alla quale la vita utile dell’immobilizzazione è determinata con riferimento alla residua possibilità di utilizzazione (durata economica) del diritto.

Se, dunque, non si consentisse il frazionamento dei ricavi, pur se percepiti per intero al momento della stipula del contratto, in una pluralità di anni, corrispondenti all’utilizzo del diritto allo sfruttamento dell’opera, poichè la percentuale di ammortamento non può superare certe misure, ne deriverebbe un sicuro detrimento per la società contribuente, che dovrebbe dichiarare tutti i ricavi nell’anno in cui è stata consegnata l’opera.

Inoltre, nella risoluzione n. 35/E del 13 febbraio 2003 (ammortamento degli investimenti effettuati in opere cinematografiche), con riferimento al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 68, (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 103), l’Agenzia delle entrate ha affermato che, in base ai principi contabili (OIC 24 e IAS 38) la durata dell’ammortamento va rapportata alla durata della tutela legalmente prevista o, in caso di licenza d’uso, alla durata dell’utilizzazione prevista dal contratto, se ci si aspetta di ottenere benefici economici apprezzabili in tutto tale periodo. Per tale ragione, il bene immateriale, costituito dalla titolarità di un diritto, è iscrivibile nell’attivo patrimoniale tra le immobilizzazioni qualora abbia un costo di acquisizione certo che consenta la recuperabilità negli esercizi successivi, attraverso lo sfruttamento del diritto stesso. L’ammortamento civilistico dei beni immateriali, acquisiti in licenza o a titolo di proprietà, segue una regola comune in base alla quale la vita utile è determinata con riferimento alla residua possibilità di utilizzazione, coincidente con la durata economica del diritto.

3. Il “risconto passivo” costituisce la rettifica di un ricavo contabilizzato ma non interamente di competenza (regolamento anticipato). Tale risconto è come un debito, in quanto rappresenta un obbligo verso chi utilizza i servizi, sicchè nell’esercizio successivo tale debito scompare a fronte dei fitti attivi di competenza.

Il risconto passivo dunque, rappresenta una quota di ricavo di competenza dell’anno prossimo, ma già incassata interamente quest’anno. Se, quindi, quest’anno si incassa un ricavo anche di competenza dell’anno successivo, si deve eliminare la parte che non è di competenza di quest’anno. Pertanto, come emerge dallo schema riportato nel ricorso dell’Agenzia delle entrate, nell’anno 2003, sono stati computati ricavi per Euro 202.380,95, con risconti passivi per Euro 1.797.319,05 (Euro 2.000.000 meno Euro 202.380,95). Allo stesso modo, nell’anno 2004, sono stati indicati ricavi per Euro 285.714,29, a fronte di risconti passivi per Euro 1.511.904,76 (Euro 1.797.319,05 meno Euro 285.714,29).

4. Il secondo motivo è inammissibile.

Invero, la sentenza del giudice d’appello è stata depositata in data 30 ottobre 2012, sicchè il motivo di censura fondato sulla violazione della motivazione, doveva incentrarsi sulla nuova configurazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, applicabile alle sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012.

La ricorrente, invece, ha fatto riferimento alla vecchia disposizione, dolendosi della motivazione insufficiente e contraddittoria.

Anche laddove ha articolato il vizio di motivazione, 20 la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente non ha indicato il fatto decisivo, il cui esame sarebbe stato omesso da parte del giudice d’appello. L’Agenzia, infatti, si è limitata a evidenziare che “dal concreto tessuto contrattuale” non emerge “nessuna clausola dalla quale possa evincersi che, a fronte di un pagamento unitario ed anticipato al momento della stipula del contratto, il rapporto contrattuale si dovesse considerare periodico”.

La ricorrente non ha, peraltro, riportato, neppure in sintesi, il contenuto del contratto e delle singole clausole che lo completavano.

5. Con un unico motivo di ricorso incidentale la società deduce la “violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 107 e 109, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la Commissione regionale avrebbe erroneamente ritenuto che la pendenza di un contenzioso in sede civile circa la debenza di un costo determinasse l’incertezza dello stesso ai fini Ires e Irap. L’Agenzia delle entrate aveva contestato l’indeducibilità di un costo pari ad Euro 881.341,68, solo perchè consìderato “incerto”, in pendenza di un giudizio civile. Tale costo era stato, quindi, dedotto nell’anno 2003, anche se la transazione tra la Grundy e l’Aran (poi Aran-Endemol) era avvenuta nel 2006. Per la ricorrente, quindi, era corretta la deducibilità del costo già nell’anno 2003 sussistendo i requisiti della certezza del debito e della oggettiva determinabilità, già prima della transazione del 2006.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. Invero, è pacifico che la contribuente assicurato la transazione 2006, sicchè solo in tale data il debito è risultato certo e determinato.

Non v’è stata, allora, alcuna violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, in ordine al principio di competenza.

Tale disposizione prevede che “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”.

Con la menzione dei requisiti della “certezza” e della “determinabilità” il legislatore ha voluto escludere dalla formazione del reddito i componenti solo “stimati”, mentre deve tenersi conto solo degli elementi reddituali caratterizzati da un sufficiente grado di attendibilità. La certezza va intesa non in senso materiale, ma giuridico, con esclusione di componenti di redditi meramente presunti. Deve esistere un vincolo giuridico avente origine in un contratto, in un fatto illecito o in un provvedimento della pubblica amministrazione. La determinabilità attiene, invece, al quantum del componente di reddito, desumibile da elementi oggettivi, quindi con esclusione di quello basato su mere congetture soggettive o fondato su calcoli probabilistici.

Pertanto, inizialmente deve individuarsi l’esercizio di competenza civilistica, in base al principio di derivazione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83. Successivamente, si assiste ad un allontanamento dai principi civilistici, in quanto occorre verificare i requisiti di esistenza degli elementi reddituali e della loro oggettiva determinabilità, sicchè il legislatore fiscale ha inserito criteri più rigidi ed obiettivi di quelli civilistici per determinare l’imputazione temporale.

Per la Suprema Corte, in tema di transazione, è necessario che il giudice di merito valuti in concreto gli elementi dai quali desumere l’esistenza o la determinabilità in modo obiettivo degli elementi positivi o negativi del reddito, non potendo le parti decidere discrezionalmente l’esercizio di competenza in cui indicare tali elementi.

Le regole sulla imputazione temporale delle componenti di reddito sono inderogabili, sia per i contribuenti, ai quali è precluso ogni spostamento dei ricavi e delle spese da un periodo all’altro, sia per l’amministrazione finanziaria (Cass., sez. 5, 24 novembre 2020, n. 26650; Cass., 11 ottobre 2010, n. 25218; Cass., 18 giugno 2019, n. 12265). Tale inderogabilità non risponde ad una logica sanzionatoria, ma origina dalla circostanza che l’eventuale rilevazione in un periodo successivo del componente sarebbe priva di giustificazione in senso economico, in quanto l’evento di gestione si è già completamente esaurito in precedenza.

Si è, dunque, affermato che, in tema di imposte sui redditi d’impresa, dalla complessiva prescrizione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109), si desume che anche per le spese e gli altri componenti negativi, dei quali “non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare”, il legislatore considera come “esercizio di competenza” – l’individuazione del quale in concreto involge accertamenti di fatto di competenza esclusiva del giudice di merito, il cui apprezzamento può essere censurato in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio motivazionale – quello nel quale nasce e si forma il titolo giuridico che costituisce la fonte di ciascuna di tali voci, limitandosi soltanto a prevedere una deroga al principio della competenza, col consentire deducibilità di dette particolari spese e componenti nel diverso esercizio nel quale si raggiunge la certezza della loro esistenza ovvero la determinabilità, in modo obiettivo, del relativo ammontare. L’obbiettiva determinabilità sancita dalla legge non è collegata o collegabile alla manifestazione della volontà delle parti sul costo, essendo, altrimenti, ad esse demandata la scelta di stabilire a quale esercizio di competenza imputare la relativa componente del reddito d’impresa, sicchè il mancato accordo delle parti non significa necessariamente che il costo non sia, prima dell’accordo stesso, obbiettivamente determinabile (Cass., sez. 6-5, 24 ottobre 2012, n. 18237).

5.3. Questa Corte (Cass., sez. 5, 25 marzo 2015, n. 5976) ha, poi, distinto la nozione di costo inteso come “debito”, che presuppone i requisiti di “certezza e determinabilità” ex ante (come nel caso di assunzione di una obbligazione pecuniaria da eseguire in una certa data), che deve essere dedotto quale costo nell’anno di insorgenza della obbligazione per il principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 1 (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 1), dal costo inteso come “passività”, priva dei requisiti di certezza e determinabilità. In questa seconda accezione rientrano tre categorie di passività: quelle in cui l’obbligazione è certa nell’an ma è ex ante indeterminabile nel quantum; quelle in cui la stessa insorgenza della obbligazione appare incerta (in caso di contestazione giudiziale della esistenza o della validità del titolo); quelle in cui l’obbligazione assunta è subordinata, quanto all’efficacia, ad un evento futuro ed incerto non rimesso alla mera volontà del debitore (condizione sospensiva). Nelle ultime due ipotesi, qualificate “passività potenziali”, tra le quali deve collocarsi anche la fattispecie del credito/debito litigioso, non può trovare applicazione il principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, e la passività, ove anche suscettibile di stima previsionale, non deve nè può essere dedotta dal reddito per il solo fatto dell’inizio della lite. Pertanto, in caso di lite giudiziaria deve farsi riferimento all’anno di intervenuta transazione (in quel caso del 1999) e non ad anni precedenti, essendo la lite iniziata nel 1993. In presenza di accordo transattivo, dunque, gli importi derivanti dallo stesso devono essere imputati al periodo di sottoscrizione dello stesso, non assumendo rilevanza i relativi flussi finanziari (Cass., sez. 5, 28 aprile 2014, n. 9317). Infatti, D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, impone che gli elementi reddituali positivi e negativi siano imputati al periodo di imposta in cui si verificano le vicende gestionali dalle quali scaturiscono, anche se non si sono ancora verificati i conseguenti movimenti finanziari attivi e passivi.

5.4. Inoltre, si è precisato che l’onere di provare il requisito della certezza e determinabilità dei componenti positivi del reddito, in un determinato esercizio sociale, incombe sull’amministrazione finanziaria, mentre per quelli negativi l’onere grava sul contribuente (Cass., sez. 5, 22 settembre 2006, n. 20521). Più recentemente si è affermato che incombe sull’amministrazione finanziaria, che assume erroneamente imputato un costo, dimostrare la determinatezza o determinabilità del medesimo; sul contribuente, invece, grava la prova che solo in un diverso anno i medesimi costi sono diventati certi e determinabili nell’ammontare (Cass., sez. 5, 12 dicembre 2018, n. 32102).

5.5. Nella fattispecie in esame, dunque, la transazione è intervenuta nel 2006, sicchè l’Ufficio ha fornito la prova su di esso incombente (costi sostenuti nel 2006 in virtù della transazione stipulata in tale anno), mentre la contribuente non ha dato la prova della imputabilità dei costi già nel 2003.

La Commissione regionale ha evidenziato tutte le circostanze di fatto, in base alle quali ha ritenuto che fosse stato rispettato il principio di competenza. In particolare, il giudice d’appello ha messo in evidenza che, con la contestazione giudiziale, la Grundy ha contestato in radice la sussistenza dell’obbligazione nei confronti dell’Aran, “con un vero e proprio disconoscimento dell’obbligazione”; tanto che “la citazione in giudizio era motivata dalla circostanza che l’obbligazione contenuta nel contratto del 1997 era da considerare nulla, ai sensi dell’art. 1418 c.c., perchè completamente priva di causa”. In tal modo, la Commissione regionale ha evidenziato che era venuto a mancare il requisito della certezza previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. Ha precisato anche che la deducibilità fiscale è consentita solo per gli accantonamenti tassativamente indicati dalle norme tributarie, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 107.

6. Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate per intero tra le parti, in ragione della reciproca soccombenza.

7. Non opera a carico dell’Agenzia ricorrente il raddoppio del contributo unificato (Cass., n. 890/2017; Cass., n. 5955/2014).

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale.

Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2021

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