Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19149 del 19/07/2018


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 19149 Anno 2018
Presidente: ARMANO ULIANA
Relatore: SAIJA SALVATORE

SENTENZA
sul ricorso 1372-2016 proposto da:
NOTARI ALFREDO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA COLA DI RIENZO 111, presso lo studio
dell’avvocato LUCIO IANNOTTA, che lo rappresenta e
difende giusta procura speciale a margine del
ricorso;
– ricorrente –

2018
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contro

LIGUORI MASSIMO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA CARLO MIRABELLO, 23, presso lo studio
dell’avvocato ELEONORA NICLA MOIRAGHI, rappresentato

1

Data pubblicazione: 19/07/2018

e difeso dall’avvocato CARMINE CAPASSO giusta procura
speciale a margine del controricorso;
– controricorrente nonchè contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587 in persona del

in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, da cui è difeso per legge;
– resistente con atto di costituzione –

avverso

la

sentenza

n.

4043/2015

della

CORTE

D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 15/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza

del

21/02/2018

dal

Consigliere

Dott.

SALVATORE SAIJA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CARDINO che ha concluso per il
rigetto, in subordine improcedibilità;
udito l’Avvocato LUCIA IANNOTTA;
udito l’Avvocato CARMINE CAPASSO;

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Ministro in carica pro tempore, domiciliato ex lege

N. 1372/16 R.G.

FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Napoli, con sentenza del 25.9.2009, rigettò la domanda
proposta da Alfredo Notari, già Presidente della Sez. Lav. del Tribunale di
Salerno, nei confronti di Massimo Liguori (a sua volta chiamante in causa il

aveva visto il predetto magistrato dapprima indagato e poi imputato per
presunti illeciti da lui commessi nello svolgimento della propria attività. Il
Notari, che era stato poi assolto dalle accuse, aveva chiesto la condanna del
Liguori al risarcimento dei danni non patrimoniali, in misura pari ad C
258.228,45, giacché la sua messa in stato d’accusa era derivata, in tesi,
dall’elaborato peritale redatto dallo stesso Liguori, che si era reso responsabile,
a causa della “fallacia” e della “trasandatezza” del suo operato, dei delitti di cui
agli artt. 328, 373, 368 e 585 c.p. Il Tribunale rilevò infatti che il Notari,
nell’atto introduttivo, aveva chiesto i danni non patrimoniali conseguenti ai
predetti delitti, il cui accertamento era quindi il necessario presupposto per la
concessione della richiesta tutela risarcitoria, con la conseguenza che, non
sussistendo alcuna di tale ipotesi delittuosa, la pretesa era da considerarsi
infondata.
La Corte d’appello di Napoli rigettò il gravame proposto dal Notari con sentenza
del 15.10.2015, confermando la prima decisione e compensando integralmente
le spese del grado.
Alfredo Notari ricorre ora per cassazione, affidandosi a tre motivi, illustrati da
memoria, cui resiste con controricorso Massimo Liguori. Il Ministero della
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Ministero della Giustizia), consulente del P.M. nel procedimento penale che

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Giustizia non ha resistito tempestivamente, ma si è costituito con atto del
19.2.2016, al solo fine di eventualmente partecipare all’udienza di discussione.
RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, si deduce “violazione dell’art. 2059 c.c. (art. 360

comma 1 n. 3 c.p.c.”. Invocando il principio affermato da Cass. n. 5677/2005

secondo cui “Il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un
interesse, costituzionalmente garantito, inerente alla persona, non è soggetto,
ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata
all’art.185 cod. pen., e non presuppone, pertanto, la qualifica bilità del fatto
illecito come reato, atteso che il rinvio ai casi in cui la legge consente la
riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito – dopo l’entrata
in vigore della Costituzione – anche alle previsioni della Carta fondamentale
ove si consideri che il riconoscimento, in essa contenuto, dei diritti inviolabili
inerenti alla persona e non aventi natura economica, ne esige, implicitamente
ma necessariamente, la tutela, configurando, per l’effetto, una ipotesi
determinata dalla legge (al più alto livello) di riparazione del danno non
patrimoniale (principio riaffermato dalla Corte Cass. con riferimento a
fattispecie in cui erano stati attribuiti ad un magistrato requirente, da parte di
un alto ufficiale e nel corso di un colloquio con il capo dell’ufficio di Procura,
specifici comportamenti di dipendenza e di parzialità)” – si censura la decisione
impugnata perché essa si pone in contrasto con l’art. 2059 c.c., in quanto la
domanda attrice non poteva essere limitata al solo risarcimento da reato, ma
doveva estendersi a quello derivante dai medesimi fatti illeciti denunciati,
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1.1

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benché non integranti le singole fattispecie penali indicate. Al contempo,
alcuna mutatio libelli poteva configurarsi nel percorso argomentativo seguito in
seno alla comparsa conclusionale di primo grado depositata il 23.3.2009,
perché con essa si faceva esclusivo riferimento al pacifico (ed integrale) ambito

1.2 – Con il secondo motivo, si deduce “violazione dell’art. 112 c.p.c. nonché
dell’art. 115 c.p.c. (in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. e all’art. 360
comma 1 n. 3 c.p.c.)”. Il ricorrente sostiene che la violazione sostanziale di cui
al primo motivo si traduce, poi, anche nella denunciata violazione processuale,
perché la Corte non s’è pronunciata su tutta la domanda proposta da esso
ricorrente, non avendo valutato l’illiceità civilistica dei fatti addebitati al Liguori. r,/%
1.3 – Con il terzo motivo, si deduce “omesso esame di fatto decisivo per il
giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 comma 1 n. 5
c.p.c.)”. Si afferma l’erroneità della decisione della Corte d’appello, lacunosa
perché non ha valutato: a) il danno risarcibile sotto il profilo del pregiudizio al
valore e alla dignità del ricorrente; b) gli ulteriori motivi di doglianza, relativi
alla mancata considerazione che i delitti richiedevano il dolo generico, l’erronea
considerazione del ruolo del consulente del P.M., la sopravvalutazione delle
prove orali e l’erronea comprensione delle finalità della consulenza affidata al
Liguori.
2.1 – Si rileva preliminarmente che il Collegio ha autorizzato la redazione di
motivazione semplificata.

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applicativo del disposto dell’art. 2059 c.c.

N. 1372/16 R.G.

3.1 – Deve rilevarsi d’ufficio l’improcedibilità del ricorso, per violazione dell’art.
369, comma 2, n. 2, c.p.c.
Invero, il ricorrente assume che la sentenza gli sia stata notificata, ai fini del
decorso del termine breve per impugnare, a mezzo PEC in data 4.11.2015.

ricorso per cassazione, qualora la notificazione della sentenza impugnata sia
stata eseguita con modalità telematiche, per soddisfare l’onere di deposito
della copia autentica della relazione di notificazione, il difensore del ricorrente,
destinatario della suddetta notifica, deve estrarre copie cartacee del messaggio
di posta elettronica certificata pervenutogli e della relazione di notificazione
redatta dal mittente ex art. 3-bis, comma 5, della I. n. 53 del 1994, attestare
,/
con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali delle /’
copie analogiche formate e depositare nei termini queste ultime presso la
cancelleria della Corte” (così, Cass. n. 17450/2017, seguita da numerose altre
pronunce, tra cui Cass. n. 30765/2017).
Proprio in considerazione di tale ultima decisione, emessa su disposizione del
Presidente della Sezione VI civ. dal Collegio previsto dall’art. 41.2 delle tabelle
della Corte, il Primo Presidente – al quale era stata rimessa la valutazione della
investitura delle Sezioni Unite per la decisione ritenuta di massima di
particolare importanza da Cass. n. 30622/2017 – ha disposto la restituzione
degli atti alla Sezione III civ. con decreto del 29.12.2017, non ravvisando i
presupposti per l’intervento richiesto.

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In proposito, costituisce ormai ius receptum il principio secondo cui “In tema di

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Ciò posto, non v’è dubbio che il ricorrente non abbia assolto l’onere di deposito
richiesto dall’art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., giacché si è limitato a produrre
una mera copia cartacea della sentenza notificatagli via PEC, con la relata di
notifica allegata su supporto analogico, senza però che il proprio legale ne

ricevuta, come prescritto dall’art. 9, commi 1 bis e 1 ter, I. n. 53 del 1994, e

depositasse nei termini la documentazione così attestata presso la cancelleria
di questa Corte; detta carenza, peraltro, è stata constatata direttamente dal
Collegio nel corso dell’udienza pubblica e con la collaborazione del difensore del
ricorrente, che ha compulsato il proprio fascicolo di parte, senza tuttavia
rinvenire una copia della sentenza e della relata, depositata nei termini e
dotata dei requisiti prescritti dalla legge.
E’ poi il caso di evidenziare che l’assolvimento dell’onere in discorso

funzionale com’è alla verifica d’ufficio da parte della Corte circa la tempestività
dell’impugnazione, ove venga dedotta la notifica della sentenza ai fini del
decorso del termine di cui all’art. 326 c.p.c. – è assolutamente indispensabile
nel caso che occupa, atteso che il ricorso è stato proposto in data 4.1.2016,
ossia oltre il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione della sentenza
impugnata (avvenuta il 15.10.2015): qualora invece fosse stato proposto entro
detto termine, alcun dubbio avrebbe potuto porsi circa la tempestività
dell’impugnazione, ferma la necessità della verifica del rispetto degli ulteriori
oneri di cui all’art. 369 c.p.c., ovvero il possibile superamento delle relative

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certificasse la rispondenza rispetto al contenuto della comunicazione telematica

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problematiche per effetto del comportamento processuale del controricorrente
(v., sul punto, Cass., Sez. Un., 10648/2017).
4.1 – Ad abundantiam, rileva poi la Corte che il ricorso avrebbe dovuto
dichiararsi comunque inammissibile.

territoriale non abbia fatto piana applicazione dell’art. 2059 c.c.: se l’avesse
fatto, la domanda risarcitoria sarebbe stata esaminata nel merito, non essendo
neanche configurabile una vera e propria mutati() libelli. Infatti, la valutazione
della completa estensione dell’art. 2059 c.c. avrebbe comunque comportato
che la domanda da lui proposta non poteva che ricomprendere ogni lesione
della sua sfera personale, quand’anche non fosse stato conseguenza di reati
compiuti ai suoi danni.
Tuttavia, a fronte del chiaro decisum della Corte d’appello, sarebbe stato onere
del ricorrente – specialmente riguardo al secondo motivo, essendo stata
denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c. – riportare esattamente
(testualmente, o anche solo per riassunto) il contenuto dell’atto introduttivo,
onde consentire a questa Corte di verificare, sin dalla lettura del ricorso,
l’estensione della domanda originaria. Ma ciò non è stato fatto. Pertanto, vi è
una chiara violazione dell’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., perché ancorare la causa
petendi della spiegata domanda al fatto di essere vittima di determinati reati
(come accertato dalla Corte d’appello) è cosa diversa dall’agire a tutela del
proprio onore in genere: nel primo caso, la sussistenza del reato integra il fatto
costitutivo del diritto azionato.
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4.2 – Iniziando dai primi due connessi motivi, sostiene il ricorrente che la Corte

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Neppure v’è spazio, poi, per l’applicazione del principio affermato da Cass.,
Sez. Un., n. 12310/2015 (secondo cui “La modificazione della domanda
ammessa ex art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli
elementi oggettivi della stessa (lpetitum’ e ‘causa petendi’), sempre che la

dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione
delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi
processuali”), sia perché nella specie la modifica della

causa petendi è

avvenuta non già nella memoria ex art. 183 c.p.c., ma nella comparsa
conclusionale, sia perché – ancor prima – lo stesso Notari nega in radice che
nella specie vi sia stata mutati°, affermando che la domanda, come da ultimo
intesa, doveva considerarsi ricompresa in quella originariamente proposta. /
4.3 – Anche il terzo motivo avrebbe dovuto dichiararsi inammissibile.
Infatti, esso è proposto ai sensi del “nuovo” art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.,
ma a ben vedere il ricorrente non indica “fatti”, nell’accezione datane da Cass.,
Sez. Un., n. 8053/2014, bensì vera e propria omessa pronuncia su domande
(se non su deduzioni difensive), che avrebbero dovuto denunciarsi ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c.
5.1 – In definitiva, il ricorso è improcedibile. Le spese di lite del giudizio di
legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
In relazione alla data di proposizione del ricorso per cassazione (successiva al
30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità dell’art.13, comma 1 quater,

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domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale

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del D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17,
legge 24 dicembre 2012, n. 228).
P.Q.M.
dichiara il ricorso improcedibile e condanna il ricorrente alla rifusione delle

5.600,00 per compensi ed C 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese
generali in misura del 15%, oltre accessori di legge. Nulla sulle spese riguardo
al rapporto processuale col Ministero della Giustizia.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo
introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228), si dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il
giorno 21.2.2018.

spese processuali di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in C

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