Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19126 del 06/07/2021

Cassazione civile sez. VI, 06/07/2021, (ud. 16/04/2021, dep. 06/07/2021), n.19126

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4518-2019 proposto da:

S.N.L., C.R., S.A.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TACITO 90, presso lo studio

dell’avvocato VACCARO GIUSEPPE, rappresentati e difesi dall’avvocato

MUSCARA’GIUSEPPE LILIANO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

SC.AL., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NICOLO’

TARTAGLIA 5, presso lo studio dell’avvocato AROMOLO SANDRA,

rappresentato e difeso dall’avvocato SPATARO ANGELO giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 368/2018 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 22/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/04/2021 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.

Lette le memorie depositate dalle parti;

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Sc.Al. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Enna il fratello S.G., deducendo che erano comproprietari in pari misura di un immobile sito in (OMISSIS), edificato su di un lotto di terreno a suo tempo acquistato in comunione; aggiungeva che per accordo con il fratello si era deciso che il primo piano del fabbricato sarebbe stato abitato dall’attore, mentre il secondo piano dal convenuto, restando indivise le altre parti comuni.

Concludeva quindi affinchè si procedesse allo scioglimento della comunione.

Il convenuto in via riconvenzionale chiedeva accertarsi l’intervenuta usucapione dell’appartamento al secondo piano, disponendosi la divisione dei restanti beni, con la condanna dell’attore al rimborso delle spese sostenute per i beni ancora comuni.

L’attore a sua volta spiegava una reconventio reconventionis chiedendo a sua volta accertarsi l’usucapione dell’appartamento al primo piano.

Con sentenza n. 252 del 28/7/2011 il Tribunale adito accoglieva la domanda riconvenzionale del convenuto, rigettava la domanda riconvenzionale di rimborso delle spese e la riconvenzionale successivamente proposta dall’attore, e disponeva la rimessione della causa sul ruolo per il prosieguo dell’istruttoria.

Avverso tale sentenza proponeva appello Sc.Al. nei confronti degli eredi legittimi di S.G. nonchè avverso la successiva sentenza definitiva n. 40/2013 con la quale il Tribunale aveva approvato il progetto di divisione.

La Corte d’Appello di Caltanissetta, con la sentenza n. 368 del 22 giugno 2018, rigettava la domanda di usucapione del convenuto, annullava la divisione come approvata con la sentenza definitiva e disponeva per il prosieguo del giudizio al fine della predisposizione di un nuovo progetto di divisione che contemplasse tutta la consistenza immobiliare.

I giudici di appello rilevavano che non potesse essere accolta la domanda di usucapione in quanto, sebbene fosse emerso che i due appartamenti erano stati occupati ed abitati, seppure con diverse modalità dai due fratelli con i rispettivi nuclei familiari, ciò era frutto di un accordo intervenuto tra i germani e quindi secondo le modalità di uso della cosa comune concordate o comunque tollerate.

Il godimento di fatto, seppur esclusivo, avvenuto su tale premessa non poteva quindi fondare il possesso utile ad usucapire, trattandosi di una mera modalità di utilizzo della cosa comune.

Il rigetto della domanda di usucapione comportava che dovesse provvedersi ad un nuovo progetto di divisione comprensivo anche del bene che invece il Tribunale aveva reputato essere di proprietà esclusiva del convenuto.

C.R., S.N. e S.A., quali eredi di S.G., hanno proposto ricorso avverso la sentenza di appello sulla base di tre motivi illustrati da memorie.

Sc.Al. ha resistito con controricorso a sua volta illustrato da memorie.

Il primo motivo di ricorso denuncia l’erronea applicazione dei principi in tema di usucapione dei beni comuni, ai sensi degli artt. 1102,1140,1158 e 2697 c.c.

Si deduce che ai fini dell’usucapione del bene comune non è necessario che il comunista che sia nel possesso del bene ponga in essere un’interversio possessionis ma è sufficiente che estenda il suo godimento in termini di esclusività, fruendo del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui.

La Corte d’Appello ha valorizzato invece un insussistente, e mai provato, accordo amichevole tra i germani volto ad assicurare il godimento separato dei due appartamenti realizzati, violando in tal modo i principi reiteratamente affermati da questa Corte. Emergeva invece che S.G. aveva sin dal 1975 occupato l’appartamento al primo piano, essendo l’esclusivo titolare delle chiavi di accesso, procedendo al pagamento di tutte le spese, ivi incluse anche quelle per il diverso appartamento in godimento al fratello che invece non aveva mai sostenuto spese per l’appartamento goduto dal convenuto e dalla sua famiglia.

Inoltre, S.G. aveva conservato una chiave dell’appartamento in uso al fratello, con la conseguenza che la sentenza di appello è evidentemente in contrasto con la pacifica giurisprudenza di questa Corte.

Il secondo motivo denuncia l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rappresentato dalle dichiarazioni rese dall’attore in sede di interrogatorio formale, dalle quali si ricavava la consapevolezza in capo alla parte dell’esclusività del possesso del dante causa dei ricorrenti, come confermato dal fatto che non avesse mai avuto le chiavi del relativo appartamento.

Trattasi di dichiarazioni di carattere confessorio che, ove adeguatamente apprezzate, avrebbero dovuto indurre al rigetto del gravame del controricorrente.

Il terzo motivo denuncia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, costituito dall’impossibilità per l’attore di poter instaurare un rapporto materiale con il bene posseduto da S.G., attesa l’esclusività del possesso di quest’ultimo, ed il totale disinteresse mostrato dallo stesso attore quanto al bene di cui si controverte l’avvenuta usucapione.

I tre motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, vanno dichiarati inammissibili.

In disparte l’erroneità del richiamo al vizio di omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, operato nella rubrica degli ultimi due motivi di ricorso che sembra far riferimento alla vecchia formulazione della norma, non più applicabile ratione temporis, va richiamato l’insegnamento di questa Corte secondo cui, ove anche voglia ritenersi che sia stata denunciata l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio, secondo la corretta previsione normativa applicabile, va ricordato che le Sezioni Unite (Cass. 8054/2014) hanno sottolineato che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”.

Ne deriva che, avendo la Corte d’Appello disatteso la domanda riconvenzionale di usucapione sul presupposto che il possesso, sebbene avvenuto con modalità conformi a quanto evidenziato nel secondo e terzo motivo, non poteva reputarsi idoneo a far maturare l’usucapione, attesa l’esistenza di un accordo a monte tra i due fratelli ovvero di una situazione di tolleranza, quanto al godimento separato dei beni edificati, le circostanze fattuali indicate nel secondo e nel terzo motivo di ricorso, ancorchè sussistenti, non appaiono dotate del carattere della decisività, nè ancor prima, può ritenersi che non siano state prese in esame, essendosene piuttosto considerata l’ininfluenza ai fini della decisione, essendo in ogni caso carente il requisito dell’esclusività idoneo a generare un possesso utile ad usucapire.

Quanto al primo motivo, deve escludersi che ricorra la dedotta violazione di legge, rilevandosi piuttosto la censura inammissibile ex art. 360-bis1 c.p.c..

In tal senso, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del consolidato principio di questa Corte a mente del quale (cfr. Cass. n. 10734/2018) il comunista che sia nel possesso del bene comune può usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso, ma deve a tal fine estendere il possesso esercitato quale comproprietario in termini di esclusività, il che avviene quando goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”, precisandosi altresì che non è, al riguardo, univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che gli altri comunisti si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione “iuris tantum” che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse degli altri (conf. Cass. n. 7221/2009; Cass. n. 9100/2018; Cass. n. 23539/2011; Cass. n. 9903/2006).

La sentenza impugnata, con accertamento in fatto, ha ritenuto che, alla luce della complessiva valutazione del materiale istruttorio, poteva reputarsi che il godimento frazionato delle due unità immobiliari collocate al primo ed al secondo piano dello stabile era frutto di un accordo intervenuto tra i germani che avevano illo tempore acquistato il terreno sul quale si era poi provveduto all’edificazione, e che quindi il godimento, sebbene avvenuto separatamente dei due appartamenti, era ricollegabile alla volontà di dare attuazione all’intesa originariamente raggiunta, mancando quindi quel connotato di esclusività tale da trasformare il godimento in possesso esclusivo uti dominus idoneo a favorire l’usucapione contro l’altro comunista.

In tal senso il riferimento al possesso da parte della famiglia di S.G. di una copia delle chiavi dell’appartamento in godimento di Sc.Al., lungi dal denotare una diversa modalità di uso del bene, ben può essere apprezzato alla stregua del fatto, pacificamente riferito da entrambe le parti, che mentre S.G. era rimasto a vivere in Sicilia, al contrario Sc.Al. per lavoro si era trasferito in Germania, e solo occasionalmente, ed in coincidenza con i periodi di ferie ritornava in Italia, essendo quindi funzionale anche alla sicurezza del bene che una persona in loco conservasse una copia delle chiavi dell’appartamento, e che questa persona fosse individuata nel fratello.

Non ignora il Collegio come un precedente questa Corte abbia affermato che (Cass. n. 12260/2002) il comproprietario possa usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla “res communis” in termini di esclusività, laddove il comproprietario – coerede sia stato, a seguito di amichevole divisione del compendio ereditario, immesso nel possesso di un bene in assenza di un contestuale atto di mandato ad amministrare da parte degli altri coeredi, prendendo, per tale via, a possedere (anche ai fini dell’usucapione) pubblicamente ed a titolo esclusivo il bene assegnatogli “de facto”, ma si tratta di vicenda la cui soluzione risulta giustificata dal mancato riscontro di un accordo tra i condividenti volto ad assicurare un godimento frazionato dei beni, ma reciprocamente accettato, come invece accaduto nel caso in esame.

In relazione alla ricostruzione in fatto operata dal giudice di appello, risulta invece pertinente il richiamo a quanto affermato da Cass. n. 5412/2015, ricordata dalla difesa di parte controricorrente, che in relazione ad una fattispecie nella quale ognuno dei fratelli occupava un appartamento di quelli costruiti dal padre ha negato la configurabilità di un possesso “ad usucapionem”, laddove la relazione di fatto con il bene sia la conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, soprattutto in ambito familiare. Nella vicenda decisa nel precedente ora richiamato, era stato accertato in fatto che il godimento frazionato aveva avuto origine per volere del padre dei tre fratelli che aveva fatto erigere l’intera costruzione, poi assegnando a ciascuno di essi un alloggio, laddove nel caso di specie, la volontà sarebbe da attribuire agli stessi soggetti che avevano realizzato l’immobile. Nè una situazione di tolleranza può reputarsi incompatibile con l’utilizzo esclusivo, senza l’obbligo di rendere conto della propria gestione e con l’esclusione degli altri compossessori, in quanto il godimento esclusivo non esprime una modalità di divisione dell’unica proprietà, ma una modalità di uso della cosa comune coerente con le caratteristiche e la funzione proprie dell’immobile in comproprietà che era stato realizzato verosimilmente proprio per consentire a ciascuno dei due fratelli di disporre di una abitazione, così che, nell’interesse di tutti, ogni porzione era destinata al godimento esclusivo di uno, senza peraltro che vi fosse la volontà di frazionare l’unitaria proprietà e senza che un uso non frazionato, per la particolare funzione, fosse concretamente coerente con le esigenze dei due germani. Inoltre, e non risulta che gli odierni ricorrenti abbiano compiuto atti incompatibili con quell’iniziale accordo o che abbiano espresso la volontà di sottrarvisi, mancando il compimento di atti dei ricorrenti che possano alterare nella struttura o nella destinazione la cosa comune o la porzione attribuita in godimento esclusivo così da rivelare un mutamento dell’animus possidendi uti condominus in animus possidendi uti dominus.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2021

 

 

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