Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19124 del 20/09/2011

Cassazione civile sez. III, 20/09/2011, (ud. 04/07/2011, dep. 20/09/2011), n.19124

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CIPRO 77, presso lo studio dell’avvocato GERARDO RUSSILLO,

rappresentato e difeso dagli avvocati TITOLO ANTONIO, FELICETTO

RUSSILLO giusto mandato in atti;

– ricorrente –

contro

SP.SA. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA GOIRAN 23, presso lo studio dell’avvocato CONTENTO GIANCARLO, che

lo rappresenta e difende giusto mandato in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 245/2006 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 27/01/2006 R.G.N. 1465/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/07/2011 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito l’Avvocato GIANCARLO CONTENTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 27/1/2006 la Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento del gravame interposto dalla sig. Sp.Sa. e in riforma della sentenza Trib. Napoli 22/10/2002, rigettava la domanda contro la medesima proposta dal sig. S.G. di risarcimento dei danni lamentati per la mancata restituzione, una volta ultimati i lavori di risanamento statico effettuati giusta ordinanza comunale di sgombero per la relativa inagibilità all’esito del sisma del 1980, dell’immobile sito in (OMISSIS), a suo tempo locatogli dalla sig. Sa.Em. – dante causa della Sp. -, con conseguente necessità di reperire altro alloggio, a più elevato canone.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito lo S. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi.

Resiste con controricorso la Sp..

Già chiamata all’udienza dell’11/4/2011, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo risultando quel Collegio composto anche dal Cons. Giovanni Carleo, a suo tempo componente del collegio della corte di merito che ha emesso l’impugnata sentenza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1 motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2727, 2729 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che erroneamente si è ritenuta non data la prova del danno subito derivante dalla differenza tra il canone precedentemente pagato e quello eventualmente corrisposto per l’alloggio in cui è stato costretto ad abitare, laddove egli non può essere punito per non aver predisposto le prove per un futuro giudizio che assolutamente non rientrava, nei suoi propositi.

Si duole che la corte di merito abbia ritenuto non applicabile nel caso l’art. 1226 c.c., e che il danno deve ritenersi addirittura in re ipsa.

Con il 2 motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè vizio della motivazione. Omesso esame e valutazione di elementi di prova, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che non sia stata dalla corte di merito valutata la prova per testi, che dimostrava esborsi, effettuati per il trasloco e per i lavori di sistemazione del quartino … e le ricevute allegate comprovanti il pagamento di L. 600 mila in canone per il nuovo quartino locato.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità, o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito e la sentenza impugnata (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare .il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano non osservati dall’odierno ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come il medesimo faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., alla richiesta di riconsegna dell’immobile locato all’esito dell’ordinanza del 08.10.1984, all’atto di citazione in giudizio in primo grado della S. per il risarcimento dei danni subiti e subendi fino all’effettivo ripristino della locazione, alla sentenza di primo grado, a tutti gli atti del processo, alla prova per testi), limitandosi a meramente richiamarli, senza debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero puntualmente indicare in quale sede processuale, pur individuati in ricorso, risultino prodotti e, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, se siano stati prodotti anche in sede di legittimità, laddove la mancanza anche di una sola delle suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (cfr. Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279).

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Con particolare riferimento al 1 motivo va ulteriormente osservato, da un canto, che il ricorrente non muove in realtà censura alcuna in ordine al mancato assolvimento dell’onere ex art. 2697 c.c. di fornire la prova dei lamentati danni, costituente fondamentale ratio decidendi dell’impugnata sentenza, anzi espressamente ammettendo di non aver predisposto le prove per un futuro giudizio che assolutamente non rientrava nei suoi propositi. Da altro canto, come nel dolersi che la corte di merito abbia ritenuto non applicabile, in mancanza di prova dell’an del lamentato danno, l’art. 1226 c.c., e nel sostenere che il danno debba ritenersi addirittura in re ipsa, il ricorrente propugni tesi esattamente contrarie al diritto effettivo in materia.

Risponde infatti a principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’esercizio del potere discrezionale di liquidazione del danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., è rigorosamente subordinato al duplice presupposto che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che sia impossibile, o estremamente difficile, la dimostrazione del loro preciso ammontare, non potendo con esso invero surrogarsi il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (v. Cass., 18/4/2007, n. 9244; Cass., 21/11/2006, n. 24680,- Cass., 12/4/2006, n. 8615. E, da ultimo, Cass., 30/4/2010, n. 10607).

A parte il rilievo che – come eccepito dalla controricorrente – il riferimento alla L. n. 392 del 1978 prospetta inammissibili profili di novità, va ulteriormente posto in rilievo che giusta orientamento del pari consolidato, avallato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, il danno (anche in caso di lesione di valori della persona) non può considerarsi in re ipsa, ma va / provato dal danneggiato secondo la regola generale ex art. 2697 c.c. ( v. Cass., Sez. Un., 15/1/2009, n. 794, cit.; Cass., 19/12/2008, n. 29832; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 18/9/2009, n. 20143, e, da ultimo, Cass., 12/4/2011, n. 8421).

In ordine al 2 motivo deve altresì sottolinearsi che ove il ricorrente in sede di legittimità denunci l’omessa valutazione di un documento ovvero di una prova testimoniale, il vizio di motivazione può ritenersi sussistente soltanto nel caso di totale obliterazione del documento o di elementi, deducibili dal documento, oppure dalla deposizione, che si palesino idonei a condurre – secondo una valutazione che la Corte di Cassazione esprime sul piano astratto e in base a criteri di verosimiglianza – ad una decisione diversa da quella adottata dal giudice di merito. Nella denuncia di questo vizio, il ricorrente ha dunque l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di riprodurre il tenore esatto del documento, ovvero della prova testimoniale, il cui omesso esame è denunciato, riportandone il contenuto nella sua integrità, in modo da permettere siffatta valutazione di decisività, essendo insufficienti i richiami per relationem agli atti della precedente fase del giudizio, inammissibili in sede di legittimità (v. Cass., 28/2/2006, n. 4405, e, da ultimo, Cass., 30/7/2010, n. 17915), dovendo porsi specificamente in rilievo quei capitoli di prova non ammessi o non valutati asseritamente concludenti e decisivi al fine di pervenire a soluzioni diverse da quelle raggiunte nell’impugnata sentenza (v. Cass., 19/3/2007, n. 6440); ovvero, trattandosi di prove documentali, il testo integrale o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentirne il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione (v. Cass., 16/10/2007, n. 21621; Cass., 25/8/2006, n. 18506).

Va per altro verso ribadito che, come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare, la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e l’osservanza degli artt. 115 e 116 c.p.c., non richiedono che il giudice di merito dia conto dell’esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite agli atti e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della sua decisione, offrendo una motivazione logica ed adeguata, evidenziando le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (v. Cass., 27/7/2006, n. 1714, e, conformemente, Cass., 28/10/2009, n. 22801. V. altresì Cass., 2/8/2001, n. 10569 e Cass., 20/11/2009, n. 24542).

L’indicazione in sentenza, ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., delle disposizioni di legge applicate, non è prescritta a pena di nullità e, pertanto, non sono ravvisabili nè il vizio di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè il vizio di violazione di legge ai sensi del comma 1, n. 3, della stessa norma qualora nella sentenza impugnata non sia stato operato l’espresso richiamo alla specifica disciplina legale posta a fondamento della statuizione, atteso che, in base alla ratio dell’art. 118 disp. att. c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, è essenziale che dal complesso delle argomentazioni svolte dal giudice emergano gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della decisione adottata (v. Cass., 24/11/2008, n. 27890).

In altri termini, la valutazione delle prove, e con essa il controllo sulla loro attendibilità e concludenza, e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, sono rimesse al giudice del merito e sono sindacabili in cassazione solo sotto il profilo della adeguata e congrua motivazione che sostiene la scelta nell’attribuire valore probatorio ad un elemento emergente dall’istruttoria piuttosto che ad un altro.

Ai fini di una corretta decisione adeguatamente motivata, il giudice non è tenuto nemmeno a confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti, essendo, invece, sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter logico seguito nella valutazione degli stessi per giungere alle proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli morfologicamente incompatibili con la decisione adottata.

Nè si è mancato di sottolineare che nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia delle prove stesse, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, ma (al fuori dei casi di prova legale) esse, anche se a carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento (v.

Cass., 18/4/2007, n. 9245; Cass., 28/6/2006, n. 14972).

Si è del pari precisato che il vizio di motivazione non può essere utilizzato per far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non valendo esso a proporre in particolare un pretesamente migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice (v. Cass., 9/5/2003, n. 7058).

Secondo risalente orientamento di questa Corte, al giudice di merito non può imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì di quelle ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (cfr. Cass., 9/3/2011, n. 5586).

Emerge dunque alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto evidente come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierno ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v.

Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, anzichè censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., il ricorrente in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 4 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2011

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