Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19104 del 16/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 16/07/2019, (ud. 05/04/2019, dep. 16/07/2019), n.19104

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20061-2018 proposto da:

C.I.V.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato LUCA PECORARO;

– ricorrente –

contro

C.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

MARATONA 187, presso lo studio dell’avvocato SABINA COLLETTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato DARIO VLADIMIRO GAMBA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 739/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 20/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 05/04/2019 dal Consigliere Relatore Dott. TEDESCO

GIUSEPPE.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte d’appello di Torino ha rigettato gli appelli proposti da C.M. contro le sentenze, non definitiva e definitiva, del Tribunale di Torino, intervenute nella causa di scioglimento della comunione promossa da C.V. nei confronti della stessa C.M., relativamente a un immobile in (OMISSIS) (TO) di proprietà per 7/9 dell’attore e per 2/9 della convenuta.

La corte d’appello riteneva che la divisione proposta dal consulente tecnico, fatta propria dal tribunale, era da condividere, tenuto conto delle caratteristiche dell’immobile e della diversa misura delle quote.

Essa osservava in linea di principio che la divisione deve essere fatta secondo criteri oggettivi, là dove l’appellante pretendeva una diversa ripartizione in base a sue particolari esigenze soggettive.

La corte riteneva inammissibile la deduzione di parte appellante circa l’esistenza di un vincolo architettonico sulla porzione a lei destinata, in quanto profilo non tempestivamente dedotto in primo grado. In ogni caso riconosceva l’insussistenza del vincolo alla luce della certificazione proveniente dal Ministero dei beni culturali, versata in atti dall’appellato.

Per la cassazione della sentenza C.M. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi.

C.V. ha resistito con controricorso.

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 116 e 193 c.p.c.

La ricorrente lamenta che la corte d’appello ha condiviso la ripartizione proposta dal consulente tecnico, nonostante questa prevedesse, in favore dell’attuale ricorrente, l’attribuzione di una porzione di immobile non abitabile, le imponesse un conguaglio di Euro 2.000,00, la costringesse a reperire un altro immobile, perchè le porzioni a lei destinate non potevano essere rese abitabili in ragioni di vincoli inerenti l’immobile comune.

La corte di merito ha disatteso le critiche rivolte contro il progetto, perchè ha ritenuto che queste fossero unicamente ispirate dall’intento della appellante di avere in assegnazione la porzione da lei abitata e non invece da ragioni di giustizia ed efficienza della divisione.

Mossa da tale pregiudizio la corte non si è avveduta che l’ipotesi suggerita dal consulente tecnico era la meno idonea a soddisfare i requisiti di cui agli art. 713 e ss. in materia di divisione.

Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 116,193 c.p.c. e dell’art. 727 c.c.

La decisione è censurata per avere la corte preferito il progetto formato dal consulente tecnico d’ufficio solo perchè ne derivava un conguaglio inferiore rispetto a quello che sarebbe stato in ipotesi dovuto ove si fosse dato seguito alla diversa ipotesi suggerita dall’appellante.

Si sottolinea che, in sede di divisione, non esiste un criterio che fra più soluzioni divisorie alternative impone di preferire quella da cui scaturiscono i minori conguagli.

Non era poi vero che, in ipotesi si fosse adottata l’ipotesi divisionale alternativa, il condividente avrebbe goduto di un unico accesso decentrato. Risultava al contrario dalle risultanze documentali che la diversa porzione destinata C.V. avrebbe avuto una pluralità di accessi.

Il terzo motivo ripropone le medesime censure in ordine al fatto che la soluzione divisoria prescelta sacrificava ingiustamente l’appellante.

Si aggiunge una censura diretta contro la statuizione della sentenza nella parte in cui ha escluso il vincolo architettonico sulla porzione di immobile oggetto di attribuzione all’attuale ricorrente.

Con riguardo a questo aspetto si lamenta che la corte ha attribuito rilievo privilegiato al Certificato del Ministero dei beni culturali rispetto alla dichiarazione resa dal Comune di (OMISSIS).

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente possibilità di definizione nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In vista dell’adunanza la ricorrente ha depositato memoria.

I primi due motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

In materia di accertamento della comoda divisibilità e dei criteri da seguire nella formazione dei lotti la giurisprudenza ha elaborato regole di esperienza sufficientemente precise, ma è chiaro che la varietà de casi concreti rende inevitabile una certa libertà di apprezzamento da parte del giudice di merito, la cui scelte non sono sindacabili in sede di legittimità se sorrette da motivazione congrua, corretta e completa (Cass. n. 9203/2004; n. 7961/2003).

Ciò posto, è certamente nel giusto la corte di merito quanto ricorda che, in questa materia, qualsiasi indagine o verifica (da quella relativa alla comoda o incomoda divisibilità a quella riguardante il criterio di omogeneità delle porzioni eventualmente ricavabili dalla cosa comune) va condotta alla stregua di criteri squisitamente oggettivi costituiti dalla concreta possibilità di ripartire il bene, nella sua attuale consistenza e destinazione, senza pregiudizio per il suo valore economico, ed in modo tale che la porzione da attribuirsi a ciascun condividente configuri un’entità autonoma e funzionale. Al fine indicato, pertanto, rimane irrilevante accertare eventuali possibilità di ristrutturazione o modificazione dell’immobile, così come sono irrilevanti le finalità che i singoli compartecipanti si propongano attraverso la divisione e la formazione delle porzioni (Cass. n. 4738/1977).

Costituisce principio acquisito che la divisione in natura non esige la possibile ripartizione della cosa in tante parti esattamente corrispondenti alle quote dei partecipanti, essendo compensabile la eventuale differenza mediante conguagli in danaro (Cass. n. 2117/1995; n. 4499/1996). Si esige tuttavia che il conguaglio non sia sproporzionato rispetto al valore di ciò che si riceve in natura (Cass. n. 7961/2003). Se il conguaglio eccede questo limite quantitativo la soluzione divisoria deve essere diversa, senza che possa avere la minima rilevanza che il condividente, in ipotesi tenuto al pagamento, abbia manifestato la disponibilità a corrisponderlo. Non si possono costringere gli altri condividenti a ricevere in denaro un valore non proporzionato rispetto al valore delle rispettive quote.

La corte d’appello è partita dalla descrizione dell’immobile, identificando le singole porzioni distribuite nei diversi piani. Ha poi considerato la diversa misura delle quote dei compartecipi in rapporto alle caratteristiche dell’immobile (costituito da una lunga “stecca” con due piani fuori terra); quindi ha ritenuto di fare propria la soluzione divisoria suggerita dal consulente tecnico mediante attribuzione all’appellante di un lato estremo della “stecca” e assegnazione della restante parte all’appellato, senza soluzione di continuità.

Ha aggiunto che la richiesta dell’appellante, di vedersi attribuito un lotto diversamente conformato, non poteva avere seguito, perchè imponeva a carico della stessa appellante un conguaglio assai più consistente e poi perchè portava ad attribuire all’appellante non già una parte posta all’estremità della “stecca”, bensì all’interno della stessa, con assegnazione all’appellato di unità immobiliari non contigue e quindi “di minore valorizzazione economica e di uso”.

Ebbene tali considerazioni non rilevano errori di diritto o errori logici nell’applicazione dei criteri divisori.

Non è vero che la corte di merito sia stata guidata esclusivamente dal criterio del minore conguaglio, posto che la relativa considerazione è inserita nell’ambito di una ricostruzione più ampia, intesa a chiarire le ragioni per cui doveva ritenersi congrua la soluzione suggerita dal consulente. Emerge con chiarezza che la corte ha considerato la misura del conguaglio non quale criterio prioritario e decisivo in base al quale fare la divisione, ma alla stregua di un ulteriore elemento di positività della soluzione suggerita dal consulente tecnico rispetto ad altre soluzioni.

In questi termini la decisione è in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 726/2018).

Del resto, ancora in questa sede, la ricorrente continua a sostenere la congruità del maggiore conguaglio imposto dalla ipotesi divisoria secondo lei preferibile non in base a considerazioni oggettive (supra), ma sottolineando che l’importo è comunque inferiore rispetto a quello che dovrebbe sostenere per eseguire i lavori di ristrutturazione per rendere abitabili i locali a lei destinati.

Ma è chiaro che, così ragionando, si vorrebbe dare ingresso a una valutazione di convenienza soggettiva che è in linea di principio irrilevante in sede di divisione, risultando, per contro, dalla stessa sentenza impugnata che la corte ha tenuto conto delle diverse condizioni delle varie porzioni nella determinazione del loro valore unitario.

Infine, quanto al fatto che la corte non avrebbe considerato che, nella prospettiva divisoria prospettata dalla ricorrente, il ricorrente avrebbe comunque fruito di più accessi, il rilievo è privo di decisività, posto che la corte è stata guidata dal diverso criterio, destinato ad assorbire il rilievo ora in esame, di attribuire le porzioni senza soluzione di continuità e in modo da non dar luogo a conguagli eccessivi.

Il terzo motivo è inammissibile.

Si richiamano in proposito i rilievi già operati nell’esame dei motivi precedenti, aggiungendo, quanto alle censure sul vincolo, che sono richiamati documenti dei quali non si indica se e quando sono stati prodotti, nè se ne trascrive il contenuto, là dove colui che denunci, in sede di legittimità, “l’omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l’onere di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività” (Cass. n. 18506/2006; n. 21621/2007).

Quanto alla censura che la corte avrebbe riconosciuto una valenza probatoria superiore al certificato del Ministero dei beni culturali rispetto alla documentazione del Comune, trattasi di apprezzamento insindacabile in questa sede, spettando soltanto al giudice di merito “individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al riguardo, salvo che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 9234/2006).

Il ricorso, pertanto, va rigettato, con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti dell’obbligo del versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettaria nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dichiara ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 5 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2019

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