Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19090 del 06/07/2021

Cassazione civile sez. VI, 06/07/2021, (ud. 16/04/2021, dep. 06/07/2021), n.19090

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 37472-2019 proposto da:

F.P.L., quale difensore di se stesso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il

08/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/04/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO; Lette le memorie

del ricorrente.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

F.P.L., con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Messina, chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’indennizzo dovuto per la violazione della ragionevole durata di una procedura fallimentare relativa ad una società di fatto per la quale si era insinuato al passivo con decreto del 19/10/1994, procedura conclusasi con decreto del 6/11/2018, per una durata complessiva di 24 anni, 7 mesi e 15 giorni.

Il Consigliere delegato con decreto del 30 aprile 2019 rigettava la domanda, ritenendo che la carenza di un attivo fallimentare e la presenza di numerosi altri creditori privilegiati ammessi al passivo del fallimento, dovessero far propendere per l’assenza di un pregiudizio indennizzabile in capo al ricorrente.

La Corte d’Appello di L’Aquila in composizione collegiale, con decreto n. 1311 dell’8 ottobre 2019, rigettava l’opposizione del F..

Rilevava che il danno patrimoniale indennizzabile deve essere ricollegabile al superamento del termine di durata ragionevole e non può invece essere riconosciuto nel caso in cui l’impossibilità di recupero del credito derivi da insufficienza dell’attivo fallimentare.

Nella fattispecie emergeva che il ricorrente aveva avuto contezza dell’assoluta impossibilità di soddisfacimento del proprio credito ovvero della remota possibilità di soddisfacimento, atteso l’ammontare complessivo del passivo, raffrontato all’attivo.

Ciò aveva determinato il venir meno dell’ansia e del malessere correlati all’incertezza della lite, anche alla luce del fatto che il danno non patrimoniale non è in re ipsa, ma deve ritenersi normalmente ricorrente.

Ne derivava che quando sussiste la piena consapevolezza nella parte processuale dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità, ciò fa venir meno il danno non patrimoniale.

Per la cassazione di questo decreto F.P.L. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, illustrati da memorie.

Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione in merito alla irrituale notifica del ricorso, sollevata dal Ministero sul presupposto che lo stesso sia stato notificato presso la sede dell’avvocatura Distrettuale dello Stato, risultando invece in atti la prova che lo stesso sia stato indirizzato anche presso l’Avvocatura Generale.

Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e l’erronea applicazione dell’art. 6 CEDU, comma 1, nonchè dell’art. 111 Cost., e della L. n. 89 del 2001, in relazione alla domanda di indennizzo del danno non patrimoniale.

Si evidenzia che il ricorrente aveva chiesto il ristoro del solo danno non patrimoniale derivante dall’irragionevole durata della procedura concorsuale e si ribadisce la necessità di addivenire a tale riconoscimento, spettando anche alla parte interamente soccombente o a colui che non riceva alcun vantaggio dal giudizio presupposto.

Il motivo è fondato.

Ritiene il Collegio che debba darsi continuità ai principi già affermati da questa Corte nella decisione n. 21349/2017.

In tale occasione è stato ribadito che anche le procedure fallimentari, e non solo nel caso in cui si abbia riguardo alla posizione del fallito, ma anche nel caso in cui venga rilievo la posizione dei creditori insinuati al passivo, sono soggette al principio di ragionevole durata del processo; che questa Corte ha affermato il principio per cui “in tema di equa riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, la durata delle procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, la particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc.), la proliferazione di giudizi connessi o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata complessiva di sette anni” (Cass. n. 8468 del 2012; Cass. n. 9254 del 2012);

E’ stata quindi cassata la decisione della Corte d’appello che, pur in presenza di una procedura fallimentare protrattasi per circa diciotto anni alla data della domanda, aveva escluso la sussistenza di un pregiudizio per il creditore sia per la non imputabilità di ritardi agli organi della procedura, sia per la inesistenza di un attivo realizzabile nel corso della procedura, essendosi questa protratta in attesa dell’esito di due procedure esecutive immobiliari, il cui esito sfavorevole era certamente prevedibile.

E’ stato, quindi, considerato non corretto il ragionamento del giudice di merito che aveva ritenuto che il creditore avrebbe dovuto essere consapevole delle scarse possibilità di soddisfazione del proprio credito, ma che in tal modo aveva omesso di considerare che “in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 6: sicchè, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale “in re ipsa” – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente.

Trattasi di lettura della norma di legge interna – oltre che ricavabile dalla ratio giustificativa collegata alla sua introduzione, particolarmente emergente dai lavori preparatori (dove è sottolineata la finalità di apprestare in favore della vittima della violazione un rimedio giurisdizionale interno effettivo, capace di porre rimedio alle conseguenze della violazione stessa, analogamente alla tutela offerta nel quadro della istanza internazionale) – che è imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo (alla stregua della quale il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata detta violazione della Convenzione, art. 6, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via presuntiva), così evitandosi i dubbi di contrasto con la Costituzione italiana, la quale, con la specifica enunciazione contenuta nell’art. 111, tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dalla norma convenzionale” (Cass., S.U., n. 1338 del 2004).

Ritiene il Collegio di dover assicurare continuità a tale precedente non senza rilevare come non possa spiegare efficacia in senso contrario la novella di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, per effetto della L. n. 208 del 2015, applicabile alle domande di equa riparazione proposte in data successiva al 1 gennaio 2016, che ha introdotto l’art. 2 comma 2-quinquies, lett. a), secondo cui non è riconosciuto alcun indennizzo in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’art. 96 c.p.c., non potendosi assimilare la posizione del creditore insinuato al passivo, il cui credito sia rimasto insoddisfatto per l’incapienza dell’attivo a quella di una parte le cui pretese debbano reputarsi ab origine o per fatti sopravvenuti infondate.

Contraddice tale equiparazione la evidente considerazione che è la stessa ammissione al passivo che denota la presenza di una valutazione positiva da parte degli organi della procedura circa la fondatezza delle ragioni di credito vantate dal creditore e che esclude che la sua pretesa possa essere reputata come infondata.

Il mancato soddisfacimento delle aspettative creditorie nel caso di specie non si correla ad una carenza dei presupposti del diritto di credito, quanto all’impossibilità di poter in concreto ottenere un materiale soddisfacimento ed in ragione delle condizioni patrimoniali del debitore che, anche in ragione della presenza di numerosi altri creditori destinati a soddisfarsi in maniera prioritaria, non consentono l’integrale tacitazione delle altre ragioni di credito vantate.

Ed, invero, se la situazione di incapienza del patrimonio del debitore (cfr. Cass. n. 26166 del 2006) può portare ad escludere l’indennizzabilità del danno patrimoniale da durata irragionevole del processo (conf. Cass. n. 11829 del 2018), laddove venga a mancare il nesso di causalità eziologica tra il pregiudizio lamentato e la durata irragionevole della procedura, non altrettanto è a dirsi quanto al pregiudizio di natura non patrimoniale, non potendosi ragionevolmente sostenere che la sola consapevolezza delle difficoltà di concreta realizzazione del proprio credito elidano il pregiudizio, soprattutto laddove, come nel caso di specie, la fondatezza della pretesa abbia trovato conforto nell’intervenuta ammissione al passivo.

A tal fine va altresì ricordato che questa Corte (Cass. n. 10176 del 2018), nel valutare la corretta applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, che stabilisce che, anche in deroga ai criteri stabiliti dal medesimo articolo, comma 1, “la misura dell’indennizzo…, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice”, ha affermato che, nel caso del giudizio di verificazione dello stato passivo, occorre aver riguardo al credito azionato dal ricorrente (L. Fall., art. 93, comma 3) ovvero, se inferiore, alla somma per la quale il creditore, all’esito del giudizio stesso, risulti essere stato ammesso (L. Fall., artt. 96 e 99), a nulla, almeno a tal fine, rilevando la somma per la quale il creditore ammesso risulti, poi, iscritto al riparto (L. Fall., artt. 110 e segg.), confermando in tal modo il convincimento che il diritto accertato dal giudice è quello per il quale vi è stata ammissione, non incidendo sulla fondatezza della domanda il diverso profilo del suo concreto soddisfacimento.

In accoglimento del motivo, il decreto impugnato deve pertanto essere cassato, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di Messina in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

L’accoglimento del primo motivo determina poi l’assorbimento del secondo motivo di ricorso con il quale si denuncia l’omessa ed insufficiente considerazione su di un punto decisivo della controversia in quanto non si sarebbe tenuto conto del fatto che il ricorrente aveva potuto avere piena contezza dell’effettiva situazione patrimoniale del fallimento solo in occasione dell’udienza di discussione del rendiconto, intervenuta in prossimità della chiusura del fallimento.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso, ed assorbito il secondo, cassa il decreto impugnato, con rinvio anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Messina in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2021

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