Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19084 del 14/09/2020

Cassazione civile sez. un., 14/09/2020, (ud. 21/07/2020, dep. 14/09/2020), n.19084

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17474-2019 proposto da:

M.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BELSIANA 71,

presso lo studio dell’avvocato MARIO OCCHIPINTI, che lo rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto stesso, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLA

MASSAFRA ed ANGELO GUADAGNINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6761/2018 del CONSIGLIO DI STATO, depositata

il 28/11/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/07/2020 dal Consigliere Dr. TORRICE AMELIA;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale LUCIO

CAPASSO, il quale conclude chiedendo dichiararsi l’inammissibilità

del proposto ricorso.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. che M.C., già dipendente dell’Inadel, poi, dell’Inpdap, e, infine dell’Inps, a seguito di ordinanza di custodia cautelare e successivo promovimento di due giudizi penali, fu dapprima sospeso dal servizio e poi riammesso con decorrenza 1 agosto 1996; con lettera del 14 marzo 1997 il M. esercitò la facoltà di recesso prevista dalle norme contrattuali all’epoca vigenti;

2. che all’esito della definizione dei giudizi penali il M. richiese all’Istituto di ricostruirgli la carriera e di pagargli tutti gli emolumenti non percepiti durante il periodo di sospensione dalle funzioni, ma l’Inpdap attivò nei suoi confronti un procedimento disciplinare avente ad oggetto i fatti oggetto del processo penale e con determinazione del 30 gennaio 2002 lo licenziò per giusta causa con decorrenza dal 2 febbraio 2003;

3. che il M., deducendo l’illegittimità del comportamento dell’Istituto, convenne in giudizio quest’ultimo innanzi al Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del Lavoro per chiedere, previa dichiarazione dell’invalidità del licenziamento, la condanna della controparte al riconoscimento degli avanzamenti di qualifica ed al pagamento di quanto dovuto a titolo di retribuzione, TFR e di danni;

4. che le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 19 aprile 2010 n. 9223 dichiararono il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sulle domande proposte dal M. il quale riassunse il giudizio innanzi al TAR del Lazio, il quale, con la sentenza del 17 novembre 2015 n. 12993 respinse le domande;

5. che il Consiglio di Stato, con la sentenza 28 novembre 2018 n. 6761 ha rigettato l’appello proposto dal M. avverso la sentenza del TAR, sulla scorta delle argomentazioni motivazionali che seguono:

6. tra il CCNL dell’11.10.1996, riservato ai professionisti, e quello del 6.7.1995, relativo a tutto il personale INADEL, non sussisteva, ai fini della disciplina del procedimento disciplinare, il rapporto di antinomia ravvisato dalla parte appellante, perchè l’art. 27, comma 5, del CCNL dell’11.10.1996 dispone che “il dirigente non è soggetto alle comuni sanzioni disciplinari conservative”, laddove quella applicata con il provvedimento di licenziamento impugnato ha evidentemente carattere e finalità estintiva;

7. per i profili procedimentali doveva aversi riguardo, ai fini della individuazione della disciplina contrattuale vigente al tempo dell’esercizio del potere disciplinare e non a quella vigente al tempo di commissione dei fatti addebitati (è stata richiamata la sentenza di questa Corte sez. lav. 7 giugno 2016 n. 11627);

8. il perimetro sanzionatorio del recesso per giusta causa non è circoscritto alle ipotesi di “mala gestio” del dirigente, come preteso dall’appellante, ma ricomprende tutti i comportamenti idonei ad integrare l’alterazione del rapporto di fiducia dell’Amministrazione con il dipendente in possesso della qualifica dirigenziale, quali sono deducibili a fondamento dell’attivazione del potere disciplinare tipico, pertanto era infondata la pretesa dell’appellante di dimostrare la non sanzionabilità del comportamento ascrittogli facendo leva sulla doverosa applicazione della disciplina contrattuale pertinente in relazione alla qualifica posseduta;

9. era infondata la tesi dell’appellante secondo cui la cessazione del rapporto di servizio conseguente alle dimissioni dell’appellante, facendo venir meno la posizione di supremazia speciale dell’Amministrazione, precludeva l’esercizio del potere disciplinare, perchè, per consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo “l’Amministrazione non solo ha il potere, ma in aggiunta ha il dovere di avviare o riprendere il procedimento disciplinare una volta concluso il procedimento penale nei casi in cui vi sia l’interesse giuridicamente qualificato della Amministrazione, e, in particolare, nei casi in cui come nella fattispecie in esame, occorra definire aspetti patrimoniali che siano rimasti sospesi e indefiniti in attesa della conclusione del procedimento penale anche in relazione a precedenti periodi di sospensione dal servizio”;

10. era, in conseguenza, infondato anche il motivo di appello inteso a ravvisare tratti di sviamento di potere nel provvedimento impugnato, in quanto questo, alla luce della citata giurisprudenza, risultava correttamente finalizzato a regolare i profili patrimoniali ancora da definire con il dipendente, in quanto concernenti il pregresso periodo di sospensione dal servizio, quali erano stati portati all’attenzione della stessa Amministrazione con la lettera dell’interessato dell’11.7.2011;

11. era infondata la censura con la quale il lavoratore aveva sostenuto che il potere disciplinare era stato tardivamente esercitato, atteso che doveva aversi riguardo, ai fini della decorrenza del termine (di 90 o 180 giorni), alla data di irrevocabilità della sentenza di proscioglimento, nella specie verificatasi il 30 ottobre 2000, perchè la sentenza della Corte di Appello di Roma del 22 gennaio 2000, con la quale i reati ascritti all’appellante erano stati riqualificati come corruzione impropria, con il suo conseguente proscioglimento per intervenuta prescrizione, era stata impugnata dal suddetto limitatamente ai capi G ed H, relativi ai reati commessi nella qualità di amministratore comunale (il gravame, peraltro, era stato dichiarato inammissibile con la sentenza della Corte di Cassazione n. 32938 del 7.6.2001), mentre la medesima sentenza di proscioglimento doveva ritenersi passata in giudicato, nonostante il ricorso in Cassazione, relativamente ai reati al suddetto contestati nella qualità di dirigente dell’Inadel;

12. la complessità della fattispecie processuale, caratterizzata dalla molteplicità delle imputazioni e delle impugnazioni rivolte avverso la sentenza di secondo grado, non rendeva facilmente intellegibile all’Amministrazione, nella veste di titolare del potere disciplinare, la cognizione del giudicato (parziale) eventualmente formatosi, nè una più puntuale conoscenza dello stesso avrebbe potuto essere acquisita mediante l’avviso di deposito ex art. 584 c.p.p., indipendentemente dalla precisa conoscenza del contenuto integrale dei ricorsi di legittimità proposti dalle parti;

13. era irrilevante il fatto che l’Amministrazione, quale parte civile, avesse partecipato ai giudizi di merito ed a quello di legittimità, tenuto conto della duplicità dei ruoli che l’Ente pubblico assume, quale parte del processo e titolare del potere disciplinare e del fatto che non risultava dimostrato che le informazioni acquisite dal suo difensore in ordine all’oggetto del giudizio pendente dinanzi alla Cassazione, sulla scorta dei ricorsi proposti dalle parti, erano state tempestivamente trasferite all’organo titolare dell’azione disciplinare;

14. era infondato il motivo di appello correlato al mancato espletamento da parte dell’Amministrazione di attività istruttoria in quanto non era stato allegato alcun elemento probatorio a dimostrazione della dedotta non esaustività degli accertamenti svolti in sede penale;

15. era infondato anche il motivo di appello concernente la mancata attivazione del procedimento disciplinare una volta che l’Amministrazione era venuta a conoscenza delle infrazioni addebitate al dipendente, perchè alla data della sospensione cautelare obbligatoria dell’appellante le disposizioni invocate (l’art. 28, comma 8, CCNL del 6 luglio 1995) non erano temporalmente applicabili, come del resto sostenuto dallo stesso appellante in altra parte dell’appello, perchè la loro estensione al personale dirigenziale era stata prevista solo dall’art. 40 CCNL del 13 marzo 1999;

16. che avverso la sentenza del Consiglio di Stato M.C. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, illustrato da successiva memoria, al quale ha resistito con controricorso l’Inps;

17. che il ricorso era stato avviato alla trattazione in camera di consiglio per l’Adunanza del 17.3.2020, sulla base delle conclusioni scritte del Pubblico Ministero, ai sensi dell’art. 380-ter c.p.c., il quale ha chiesto che si dichiari l’inammissibilità del ricorso perchè: a) si era formato giudicato interno in quanto il percorso argomentativo della sentenza del Consiglio di Stato è sovrapponibile alla pronuncia di primo grado del TAR sicchè se l’eccesso di potere di potere giurisdizionale è stato commesso dal giudice amministrativo tanto si è verificato già con la pronuncia di primo grado che non era stata appellata sul punto dinanzi al Consiglio di Stato con la conseguenza che non può più prospettarsi l’insorgenza sopravvenuta di una questione giurisdizionale all’esito del secondo grado del giudizio; b) non è configurabile un eccesso di potere giurisdizionale da parte del giudice amministrativo perchè il Consiglio di Stato non ha applicato una norma inesistente ma si è limitato all’interpretazione del quadro normativo;

18. che successivamente alla soppressione dell’Adunanza Camerale del 17.3.2020, disposta dal Primo Presidente con provvedimento in data 10.3.2020 ai sensi dell’art. 1, comma 1 del D.L. 8 marzo 2020, n. 11, il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di Consiglio per l’odierna Adunanza Camerale.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

19. che il ricorrente con l’unico motivo di ricorso denuncia “Eccesso di potere giurisdizionale per travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione. Difetto assoluto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto al legislatore. Ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 8 e art. 362 c.p.c., comma 1 e D.Lgs. n. 194 del 2010, art. 110. Eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore (Cass. Sezioni Unite Civili sentenza n. 8311 del 25.3.2019)”;

20. che il ricorrente:

21. imputa al Consiglio di Stato di non avere applicato le norme esistenti in punto di decadenza del potere disciplinare (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 97, comma. 3, art. 10, comma 3, “Norma transitoria” della L. n. 97 del 2001, artt. 585 e 154 c.p.p.) ma una norma inesistente “che prevede la irrevocabilità della sentenza in funzione di conoscenza effettiva e della notificazione della sentenza alla parte piuttosto che al difensore”, norma che il giudice amministrativo aveva creato mediante l’esercizio di un’attività di produzione normativa;

22. asserisce che le disposizioni in materia di decadenza del potere disciplinare sono chiare ed univoche e non richiedevano e non richiedono alcuna attività interpretativa da parte del Consiglio di Stato, il quale non aveva alcuna necessità di ricercare la “voluntas legis applicabile al caso concreto” desumibile sia dal tenore letterale che dalla “ratio” e dal “coordinamento sistematico”;

23. invoca la sentenza della Corte Costituzionale n. 374 del 13-25 luglio 1995 e la sentenza n. 8311 del 2019 delle Sezioni Unite di questa Corte per asserire che nell’ordinamento non esiste alcuna norma che addossa al lavoratore l’onere di far conoscere alla Amministrazione la sentenza di proscioglimento divenuta irrevocabile e di provare la data in cui “le informazioni acquisite dal suo difensore in ordine all’oggetto del giudizio pendente dinanzi alla Cassazione” sono pervenute all’organo della P.A. competente in materia disciplinare;

24. conclude per la declaratoria del difetto di giurisdizione e per l’annullamento della sentenza impugnata per difetto assoluto di giurisdizione per invasione e/o sconfinamento nella sfera riservata al potere legislativo dello Stato e domanda l’adozione di “ogni conseguente e necessaria statuizione;

in via preliminare

25. che va disattesa l’eccezione di improcedibilità del ricorso formulata dal controricorrente per violazione degli oneri di cui all’art. 369 c.p.c. sul rilievo che dalla lettura del ricorso non si evincerebbe quali “atti e documenti come da separato indice” siano stati prodotti, se sia stata depositata copia autentica della sentenza impugnata e se sia stata richiesta al Consiglio di Stato la trasmissione del fascicolo di ufficio; ciò perchè insieme al ricorso risultano depositati l’indice degli atti e dei documenti allegati al ricorso, l’istanza al Consiglio di Stato di trasmissione del fascicolo di ufficio, copia della decisione impugnata;

26. che, d’altra parte, la mancata richiesta di trasmissione, da parte del ricorrente, del fascicolo d’ufficio del giudice “a quo” non comporta l’improcedibilità del ricorso per Cassazione qualora, come nella specie, l’esame di tale fascicolo non sia necessario per la risoluzione delle questioni prospettate con l’impugnazione (Cass. Sez. Un., 24 marzo 2017; Cass. Sez. Un., 21 settembre 2006 n. 20504);

27. che nella fattispecie in esame l’unico atto rilevante ai fini del decidere, atteso il tenore delle censure, è solo la sentenza impugnata, redatta in formato elettronico e firmata digitalmente, la cui conformità all’originale non è stata disconosciuta dal controricorrente (Cass. Sez. Un. 25 marzo 2019 n. 8312, pg 42 p. n. 3);

28. che è infondata anche l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dal controricorrente con riguardo all’art. 360 bis c.p.c.; ciò perchè le situazioni di inammissibilità indicate nell’art. 360 bis c.p.c., comma 1 non integrano nuovi motivi di ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1 posto che sono state configurate dal legislatore come strumenti utili alla specifica funzione di “filtro”, dei ricorsi per cassazione di agevole soluzione, sicchè sarebbe contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi denunciabili (Cass. 13 agosto 2019 n. 21393; Cass. 29 ottobre 2012 n. 18551; Cass. 8 aprile 2016 n. 6905);

29. che, in particolare, quanto all’ipotesi di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 1, che viene qui in considerazione, le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che la funzione di filtro dell’ipotesi di inammissibilità prevista dalla disposizione consiste nell’esonerare la Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti” (Cass. Sez. Un. 21 marzo 2017);

30. che nella fattispecie in esame le censure formulate, a prescindere dalla loro ammissibilità e/o fondatezza, su cui si dirà di seguito, mettono in discussione la corretta applicazione alla fattispecie dedotta in giudizio dei principi di diritto già affermati da questa Corte in tema di eccesso di potere giurisdizionale per travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione e di difetto assoluto di giurisdizione;

31. che l’eccezione di giudicato interno formulata dal controricorrente va esaminata unitamente alla richiesta formulata nelle conclusioni scritte dal P.M. di declaratoria di inammissibilità per formazione giudicato interno sulla giurisdizione;

32. che queste Sezioni Unite hanno affermato di recente (Cass. Sez.Un. 13 maggio 2020, n. 13436, Cass. Sez.Un. 3 maggio 2020 n. 8846; Cass. Sez.Un. 9 aprile 2020 n. 7764; Cass. Sez.Un. 6 marzo 2020 n. 6462; Cass. Sez.Un. 5 aprile 2019 n. 9680; Cass. Sez.Un. 11 gennaio 2019 n. 543; Cass. Sez.Un. 16 gennaio 2019 n. 1034) che per potersi configurare il giudicato anche implicito “è necessaria l’esistenza, nella sentenza di primo grado, di un capo autonomo sulla giurisdizione impugnabile, ma non impugnato in appello”; tale situazione non sussiste in relazione ad una sentenza “che sia, astrattamente, affetta da vizio di eccesso di potere giurisdizionale”, perchè all’interno del plesso giurisdizionale tanto della Corte dei Conti come del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere che si sia determinato, in ipotesi, nel giudizio di primo grado dovrà essere corretto con l’esperimento delle relative impugnazioni, con la conseguenza che la parte lesa da tale eccesso di potere non è interessata a dolersene con un apposito motivo, posto che essa è tenuta semplicemente a proporre l’appello;

33. che è stato precisato che “l’interesse a coinvolgere le Sezioni Unite potrà sorgere esclusivamente rispetto alla sentenza d’appello che, essendo espressione dell’organo di vertice del relativo plesso giurisdizionale speciale, è anche la sola suscettibile di arrecare un vulnus all’integrità della sfera delle attribuzioni degli altri poteri, dell’amministrazione e del legislatore”;

34. che sulla scorta dei principi innanzi richiamati, ai quali va data continuità, deve essere nella specie esclusa, in relazione all’eccesso di potere giurisdizionale, la configurabilità di un giudicato interno che precluda l’impugnazione della sentenza in esame davanti a queste Sezioni Unite;

35. che ciò non esclude che la inammissibilità del ricorso possa essere predicato per le ragioni di seguito indicate;

36. che queste Sezioni Unite hanno affermato reiteratamente che l’eccesso di potere denunziabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione (che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale) o di difetto relativo di giurisdizione (riscontrabile quando detto giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici);

37. che è stato precisato, in coerenza con la nozione posta da Corte Cost. 5 dicembre 2018 n. 6, che siffatto vizio non è configurabile in relazione a vizi che non investano la sussistenza e i limiti esterni del potere giurisdizionale del giudice amministrativo e dei giudici speciali, bensì solo la legittimità dell’esercizio del potere medesimo (tra le più recenti, Cass., Sez. Un., 10 settembre 2019 n. 22569; Cass., Sez. Un., 6 luglio 2019 n. 18079; Cass., Sez. Un., 20 marzo 2019 n. 7926);

38. che tanto vale quale che sia la gravità della violazione, anche ove essa attinga alla soglia del c.d. stravolgimento delle norme di riferimento, sostanziali o processuali, applicate (Corte Cost., sent. 5 dicembre 2018 n. 6, cit.), con la precisazione che il controllo del limite esterno della giurisdizione, che l’art. 111 Cost., comma 8, affida alla Corte di cassazione, non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori “in iudicando” o “in procedendo” per contrasto con il diritto dell’Unione Europea, salva l’ipotesi, “estrema”, in cui l’errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme Europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, sì da precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo (Cass., Sez. Un.,10 maggio 2019 n. 12586, Cass., Sez. Un., 6 febbraio 2015 n. 2242);

39. che ai principi affermati nelle sentenze sopra richiamate va data continuità perchè il Collegio condivide le argomentazioni esposte in tali sentenze, da intendersi qui richiamate ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., dovendo ribadirsi in questa sede, in assenza di prospettazioni nel ricorso e nella memoria che inducano a disattendere i principi innanzi richiamati, che la mancata o inesatta applicazione di una norma di legge da parte del giudice amministrativo integra al più un “error in iudicando” ma non dà luogo alla creazione di una norma inesistente, comportante un’invasione della sfera di attribuzione del potere legislativo (Cass., Sez. U. 5 novembre 2019 n. 31754; Cass. Sez. Un. 27 giugno 2018 n. 16974);

40. che nel caso in esame l’assunto del ricorrente, secondo il quale il giudice amministrativo avrebbe invaso la sfera di attribuzioni proprie del legislatore, creando una norma di nuovo conio laddove nessuna corrispondente disposizioni di legge sussisterebbe, non trova alcun riscontro nella motivazione della sentenza impugnata;

41. che il Consiglio di Stato, ricostruito il quadro normativo di fonte legale e contrattuale, per respingere il ricorso proposto dal M. ha individuato (cfr. punti da 6 a 15 di questa sentenza) le norme di legge e della negoziazione collettiva ritenute applicabili “ratione temporis” alla fattispecie dedotta in giudizio, applicazione che include l’attività interpretativa delle norme stesse, e non ha “creato” alcuna norma ma si è limitato a svolgere un’attività di interpretazione normativa, che rappresenta il “proprium” della funzione giurisdizionale e potrebbe dare luogo, eventualmente, ad un “error in iudicando”, ma non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (Cass. Sez. U. n. 9151/2018, Cass. Sez. U. n., 11380/2016, Cass. Sez. U. n. 27341/2014, Cass. Sez. U. n. 22784/2012);

42. che il ricorso è, in conclusione, inammissibile:

43. che le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza;

44. che va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 1, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore controricorrente, liquidate Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per rimborso spese generali forfetarie, oltre IVA e CPA.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 21 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2020

 

 

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