Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1906 del 28/01/2010

Cassazione civile sez. I, 28/01/2010, (ud. 26/11/2009, dep. 28/01/2010), n.1906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Fondazione Vincenzo Agnesi in persona del legale rappresentante,

elettivamente domiciliata in Roma, P. B. Cairoli 6, presso l’avv.

ALPA Guido, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Colussi s.p.a. in persona del legale rappresentante;

– resistente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1994/05 del

9.5.2005.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

26.11.2009 dal Relatore Cons. Dott. Carlo Piccininni;

Uditi gli avv. Alpa per la Fondazione e Balzi per la Colussi;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto, che ha concluso per accoglimento per quanto di ragione

del terzo motivo del ricorso e per il rigetto per il resto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 15.7.1996 la Agnesi s.p.a. (poi incorporata dalla Agnesi 1824 s.p.a. e quindi dalla Colussi s.p.a.) conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma la Fondazione Vincenzo Agnesi, per sentir dichiarare la nullità del marchio “fondazione Vincenzo Agnesi” n. (OMISSIS) del 23.9.1991, relativo ai prodotti di cui alle classi 29 e 30, e sentirla dichiarare responsabile della contraffazione dei marchi di essa attrice, con l’inibizione del detto marchio e la condanna al risarcimento del danno.

La Fondazione si costituiva in giudizio sostenendo che il comportamento tenuto dall’attrice implicitamente avrebbe presupposto un consenso nei confronti di tutta l’attività svolta (quindi anche per la registrazione e l’utilizzazione del marchio in questione) e che comunque i due marchi non erano confondibili, prospettazione che non veniva tuttavia condivisa dal tribunale, che viceversa accoglieva la domanda.

La decisione, impugnata, veniva poi confermata dalla Corte di Appello, che ribadiva la confondibilità dei due marchi per la valenza poco significativa della diversità del secondo rispetto al primo, tenuto conto segnatamente della denominazione “Agnesi” comune ad entrambi. Quanto agli ulteriori profili sottoposti al suo esame (decadenza della società Agnesi per il mancato uso dei marchi relativamente ai prodotti di cui alle classi merceologiche 29, 32 e parzialmente – 30, preteso riconoscimento della legittimità del marchio della Fondazione da parte della società Agnesi, ammissione della Fondazione in ordine all’avvenuta commercializzazione di prodotti rientranti nelle classi merceologiche 29 e 30, per le quali valgono le registrazioni dei marchi della Agnesi), la Corte rispettivamente rilevava che le eccezioni erano tardive, che non erano emersi elementi deponenti in senso univoco al riguardo, che l’avvenuta usurpazione del marchio “Agnesi” costituisce di per se un fatto produttivo di danno.

Avverso la detta sentenza la Fondazione Vincenzo Agnesi proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui non resisteva con controricorso l’intimata.

La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 26.11.2009.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i tre motivi di ricorso la Fondazione Vincenzo Agnesi rispettivamente denunciala:

1) violazione del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, artt. 16, 17, 19, 47 e vizio di motivazione, in relazione al formulato giudizio di confondibilità dei marchi, incentrato esclusivamente sulla ricorrenza della denominazione “Agnesi”, vale a dire senza alcun accertamento in ordine alla qualità individualizzante propria del marchio precedente e alla confondibilità o meno dei prodotti, e per di più limitando la motivazione soltanto ad un laconico cenno alla sentenza di primo grado;

2 ) violazione del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, artt. 17 e 58, D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 89, artt. 112 e 345 c.p.c., per la mancata dimostrazione del perdurante uso del marchio asseritamente invalidante il marchio della Fondazione.

La questione sarebbe stata invero prospettata alla Corte territoriale, che però l’aveva disattesa per il suo carattere di novità.

Tuttavia la decisione sul punto sarebbe frutto di errore, derivante dal fatto che in primo grado era stata formulata riserva di far valere la decadenza del marchio “Agnesi” in separato giudizio, riserva che avrebbe dovuto essere interpretata come intenzione di non agire in via riconvenzionale e non come rinuncia ad una eccezione.

La statuizione peraltro sarebbe errata anche per altro verso, e cioè in quanto nella specie non si tratterebbe di eccezione ma di mera difesa: 3) violazione del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, artt. 1, 10, 11 e 65, artt. 2730 e 2733 c.c., artt. 228 e 229 c.p.c., oltre che vizio di motivazione, con riferimento al giudizio di contraffazione che risulterebbe errato per una duplicità di ragioni, e cioè: a) contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, i due marchi in questione non sarebbero confondibili; b) la dimostrazione dell’uso dei Marchi Agnesi da parte della Fondazione sarebbe stata a torto desunta dall’affermazione di essa ricorrente, secondo cui la commercializzazione di marmellate e cacao (prodotti rientranti nelle classi 29 e 30) non avrebbe potuto essere negata n posto che tra i predetti prodotti e la pasta alimentare non sussiste affinità di sorta, che possa ingenerare in qualche modo confusione”.

Dall’erroneità della decisione sotto gli aspetti indicati sarebbe poi derivata anche l’erroneità della statuizione concernente la condanna della Fondazione al risarcimento del danno. Le censure sono infondate.

Per quanto riguarda il primo motivo si rileva, infatti; che l’apprezzamento della confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto dal giudice del merito non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, tenendo in particolare conto che ove si tratti, come nella specie, di marchio “forte” (cioè frutto di fantasia, senza aderenze concettuali con i prodotti contraddistinti), detta tutela si caratterizza per una maggiore incisività rispetto a quella dei marchi “deboli”, poichè rende illegittime le variazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del nucleo individuante (C. 99/13592, C. 98/9617, C. 95/1473).

Nel caso in esame la Corte di appello ha ritenuto che la diversità fra i due marchi (consistente nel riferimento alla fondazione, nell’apposizione del nome V., nella differente grafica emergente dall’ovale ripartito da due sciabole incrociate nei cui quattro scomparti erano inserite le lettere f-V-A- ed una colomba) fosse insufficiente ad attribuire al marchio della fondazione caratteri di novità rispetto al marchio Agnesi, e ciò in particolare in ragione della peculiare distintività della parola Agnesi, che avrebbe per ciò solo determinato una situazione di potenziale confondibilità.

Si tratta dunque di giudizio di merito sufficientemente motivato, che, in quanto tale, si sottrae al controllo di legittimità. Il secondo motivo è articolato in due profili di censura, che risultano entrambi privi di pregio. Ed invero sul punto relativo al mancato uso del marchio con riferimento ai prodotti di cui alle classi merceologiche 29, 30 e 32, la Corte territoriale ha ritenuto che l’eccezione della Fondazione avesse carattere di novità, e non fosse pertanto recepibile in grado di appello.

Tale giudizio, secondo il ricorrente, sarebbe stato formulato per effetto di un’errata interpretazione di una propria affermazione resa nel processo di primo grado, secondo la quale la difesa si sarebbe riservata di far valere la decadenza per non uso del marchio Agnesi relativamente ai prodotti sopra indicati in autonomo e separato giudizio, riserva che viceversa avrebbe dovuto essere interpretata non nel senso di rinuncia a far valere l’eccezione di nullità, ma in quello di una possibile futura azione in via riconvenzionale.

Tuttavia in proposito occorre rilevare, da una parte, che la censura pecca sotto il profilo dell’autosufficienza poichè, a fronte del giudizio di tardività dell’eccezione, il ricorrente ha omesso di indicare i termini e l’occasione della relativa proposizione;

dall’altra, che l’interpretazione degli atti posti in essere dalle parti nell’ambito del processo (e quindi nella specie quelli dai quali poter desumere se vi sia stata o meno rinuncia a far valere l’eccezione in questione) è rimessa al giudice del merito, la cui valutazione è stato censurata soltanto con la prospettazione di una diversa interpretazione ritenuta preferibile (“E’ tuttavia evidente e logico che detta riserva vada soltanto interpretata nel senso che la Fondazione non ha inteso agire in via riconvenzionale nel giudizio radicato dalla Agnesi s.p.a.”.

Sul secondo aspetto si osserva che la correttezza del richiamo alla disciplina del D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 89, comma 3, non comporta la conseguenza rappresentata, vale a dire la necessità che la parte che deduca la nullità del marchio dia dimostrazione anche della sua perdurante validità, e quindi dell’uso del segno, impeditivo della decadenza.

L’utilizzazione del marchio nell’ultimo biennio non rappresenta infatti elemento costitutivo dell’azione di nullità, come si desume dalla circostanza che il citato art. 89 non configura il dato relativo all’accertata scadenza del marchio per non uso da oltre due anni come elemento preclusivo all’esercizio dell’azione di nullità, ma indica più semplicemente il detto presupposto come un fatto preclusivo alla relativa dichiarazione, da far valere quindi in via di eccezione, come impeditivo del verificarsi di esito che si sarebbe altrimenti determinato.

Sul terzo motivo va innanzitutto rilevato che le doglianze relative al preteso vizio del giudizio di contraffazione “per via degli errori commessi dalla Corte di merito in sede di valutazione della confondibilità tra i marchi” risultano inconsistenti, alla luce di quanto già considerato a proposito del primo motivo di ricorso.

Quanto poi alla contraffazione del marchio “Agnesi” da parte della Fondazione, che avrebbe fatto uso di marchio altrui in violazione del diritto di esclusiva spettante alla società, la Corte territoriale ha disposto la condanna generica al risarcimento del danno in considerazione, da una parte, della potenzialità dannosa in sè del fatto dell’avvenuta usurpazione del marchio (valutazione di merito immune da vizi logici, e per vero neppure censurata sotto questo aspetto dal ricorrente) e, dall’altra, dell’ammissione da parte della Fondazione circa la commercializzazione di prodotti rientranti nelle classi merceologiche per le quali la società Agnesi aveva registrato il marchio.

Tale ultimo punto, vale a dire quello concernente l’avvenuta commercializzazione di prodotti, è stato oggetto di contestazione da parte della ricorrente, che in particolare ha rilevato l’assenza di prova al riguardo, l’omessa previsione fra gli scopi statutari di attività di produzione e di commercializzazione, l’errata interpretazione della frase contenuta nella comparsa conclusionale di primo grado, alla quale a torto sarebbe stato riconosciuto valore confessorio.

In realtà il primo punto risulta superato dal fatto che la Corte ha ritenuto provata la commercializzazione dei beni in questione; il secondo appare generico ed ininfluente, atteso che l’omessa indicazione della commercializzazione fra gli scopi statutari non esclude di per sè che un’attività di commercializzazione (eventualmente strumentale rispetto al soddisfacimento dei fini statutari) nel concreto possa essere stata svolta; il terzo va disatteso nel merito, poichè è insussistente il denunciato vizio interpretativo, considerata l’assoluta chiarezza della frase oggetto di contestazione.

Nella comparsa conclusionale di primo grado, invero, la Fondazione nel sostenere l’infondatezza della pretesa avversaria, aveva precisato che la commercializzazione da parte sua dei prodotti rientranti nelle classi 29 e 30 non avrebbe potuto essere negata, “posto che fra i predetti prodotti e la pasta alimentare non sussiste affinità di sorta che possa ingenerare in qualche modo confusione”, e quindi sviluppando una linea difensiva incentrata non sulla mancata commercializzazione dei prodotti (che anzi veniva implicitamente data per ammessa), ma sulla non confondibilità dei detti prodotti (marmellate e cacao con la pasta) pur rientranti nell’ambito di medesime classi merceologiche.

Sulla base di ciò la Corte di appello con motivazione immune da vizi logici ha correttamente ritenuto che vi fosse prova dell’avvenuta commercializzazione dei prodotti, sicchè la relativa doglianza va disattesa.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità (l’intimato ha infatti partecipato alla discussione orale), liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2010

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