Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19053 del 19/09/2011

Cassazione civile sez. I, 19/09/2011, (ud. 26/05/2011, dep. 19/09/2011), n.19053

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23189/2005 proposto da:

G.G. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA ANGELO BROFFERIO 3, presso l’avvocato DI

SARNO CARACCIOLO Francesco, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato CEPPI EUGENIO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

RIUNIONE ADRIATICA DI SICURTA’ S.P.A. (C.F. (OMISSIS)),

elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9, presso

l’avvocato ZUCCHINALI Paolo, che la rappresenta e difende unitamente

agli avvocati MINUTOLO BONAVENTURA, TRIFIRO’ SALVATORE, giusta

procura a margine del controricorso;

FALLIMENTO SABE, in persona del Curatore Dott. M.C.,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 55, presso

l’avvocato CEFALY FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato BUSSANI MAURO, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

contro

R.A.L., SVILUPPO IMMOBILIARE CORIO S.R.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1744/2004 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 18/06/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

26/05/2011 dal Consigliere Dott. MAGDA CRISTIANO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato FRANCESCO CARACCIOLO DI SARNO

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente R.A.S. Ass.ni, l’Avvocato PAOLO

ZUCCHINALI che ha chiesto il rigetto del ricorse;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’Immobiliare Corio s.r.l. stipulò con la Sabe s.r.l. un contratto di appalto per la costruzione di una serie di villette in (OMISSIS). L’appaltatrice, a fronte dell’anticipazione ricevuta, rilasciò alla committente una polizza fideiussoria c.d. “a prima richiesta” stipulata con la RAS s.p.a., della quale si resero garanti i soci G.G. ed R.A.L.. Il 3.11.91 l’Immobiliare Corio, dichiarando di aver risolto il contratto d’appalto per l’inadempimento della Sabe, escusse la RAS, ottenendo nei suoi confronti un decreto ingiuntivo per il pagamento delle somme garantite dalla polizza.

La compagnia assicuratrice propose opposizione all’ingiunzione.

Il giudizio, nel corso del quale il G.I. concesse la provvisoria esecuzione del decreto, fu dichiarato interrotto per il fallimento della Sabe e si estinse per mancata riassunzione. La RAS, nel frattempo, pagata all’Immobiliare Corio la somma portata dal provvedimento monitorio, notificò a sua volta un decreto ingiuntivo al G. ed al R. per ottenere la ripetizione di quanto versato alla committente.

I soci garanti proposero separate opposizioni al decreto.

Il G., in particolare, eccepì l’insussistenza del diritto dell’Immobiliare Corio ad escutere la polizza fideiussoria rilasciata dalla RAS, dedusse che quest’ultima aveva provveduto al pagamento in assenza dei presupposti richiesti e solo per sua negligenza e contestò, in conseguenza, il diritto dell’assicuratrice al pagamento. L’opponente chiamò a partecipare al giudizio anche l’Immobiliare Corio ed il Fallimento della Sabe, chiedendo che, in caso di rigetto dell’opposizione, fosse accertato il suo diritto ad insinuarsi allo stato passivo.

Nelle more, fu pronunciato lodo arbitrale, che dichiarò l’illegittimità della risoluzione del contratto d’appalto effettuata dalla Corio e condannò la società a pagare alla Sabe la somma di L. 2.184.550.341.

Il G.U. del Tribunale di Milano dinanzi al quale pendevano le cause riunite di opposizione a decreto ingiuntivo promosse dai soci della fallita, con sentenza del 12.10.01, preso atto della decisione arbitrale non impugnata e del passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo ottenuto dalla Corio contro la RAS: 1) accertò che l’Immobiliare aveva agito nei confronti della compagnia assicuratrice abusando del proprio diritto; 2) affermò che il comportamento negligente della RAS, che non aveva riassunto la causa contro la Corio, non le precludeva l’esercizio dell’azione di regresso contro i garanti; 3) rilevò, infine, che nè il G. nè il R. avevano preposto domanda di rimborso verso la committente e respinse le opposizioni, riconoscendo il diritto degli opponenti ad insinuarsi in via di surroga o di regresso allo stato passivo del Fallimento.

La decisione fu appellata in via principale dal G. ed in via incidentale dal Fallimento della Sabe. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 18.6.2004, respinse l’appello principale ed accolse quello incidentale.

A sostegno della pronuncia, la Corte territoriale osservò: che il G. ed il R. si erano obbligati a tenere indenne la RAS da ogni pagamento che la società avesse dovuto effettuare in dipendenza della polizza fideiussoria rilasciata alla Immobiliare Corio a garanzia delle obbligazioni assunte dalla Sabe, espressamente rinunciando alle disposizioni di cui agli artt. 1950 e 1952 c.c., nonchè ai diritti discendenti dagli artt. 1955, 1956 e 1957 c.c., ed impegnandosi a versare in qualsiasi momento – senza alcuna eccezione ed a semplice richiesta tutte le somme a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione versate dalla RAS alla Corio; che da tali previsioni emergeva la natura autonoma delle garanzie da essi prestate, il che escludeva la loro facoltà di opporre alla creditrice le eccezioni proponibili dalla debitrice principale; che neppure appariva fondata la pretesa di opporre alla RAS l’exceptio doli, posto che lo stato di buona o mala fede dell’assicuratrice andava valutato al momento dell’escussione della garanzia da questa prestata; che la RAS non era stata acquiescente alle pretese della Corio, ma aveva anzi proposto opposizione al provvedimento monitorio notificatole ed aveva provveduto al pagamento solo a seguito della concessione della provvisoria esecuzione al decreto; che il lodo arbitrale era intervenuto a distanza di sei anni dal fallimento della Sabe, ed il fatto che la RAS non avesse più coltivato il giudizio di opposizione dopo il fallimento non era indicativo di una negligenza rilevante nella condotta ex ante della compagnia; che doveva pertanto escludersi che la RAS avesse perso il diritto a rivalersi verso i soci per aver mancato al dovere di protezione della garantita da possibili abusi della beneficiarla della polizza, dei quali, al momento del pagamento, non sussistevano prove certe; che il R. non aveva proposto alcuna domanda nei confronti del Fallimento, sicchè il primo giudice, affermando il diritto dell’opponente ad insinuarsi allo stato passivo in via di regresso, aveva pronunciato ultra petita; che la domanda formulata dal G. era invece improcedibile, posto che tutti i creditori concorsuali devono far accertare i loro crediti nelle forme previste dalla L. Fall., art. 52, e segg..

G.G. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a tre motivi.

La RAS s.p.a. e il Fallimento della Sabe s.r.l. hanno resistito con separati controricorsi.

R.A.L. e l’Immobiliare Corio s.r.l. non hanno svolto difese.

Il Fallimento ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1) Con il primo motivo di ricorso il G., denunciando violazione degli artt. 1322, 1362, 1936, 1939, 1941, 1944, 1945 c.c., nonchè vizio di motivazione, lamenta che la Corte di merito abbia qualificato la fideiussione da lui prestata in favore della RAS “contratto autonomo di garanzia”, senza tener conto del comportamento delle parti, della loro volontà e delle reali finalità dell’impegno assunto. Deduce che la clausola con la quale egli si era obbligato al pagamento “senza alcuna eccezione ed a semplice richiesta”, rinunciando nel contempo ad avvalersi del disposto dell’art. 1957 c.c., non era sufficiente ad interpretare in tal senso il contratto, in quanto l’oggetto della garanzia non era una cauzione, ma la solvibilità della Sabe. Rileva, richiamando giurisprudenza di questa Corte, che la carenza dell’elemento dell’accessorietà, che distingue il contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione, deve essere esplicitata con l’impiego di specifica clausola idonea ad indicare l’esclusione della facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, ivi compresa l’estinzione del rapporto, ed osserva che la scrittura azionata dalla RAS, nella cui intestazione era comunque riportata la dicitura “con la presente ci costituiamo fideiussori della ditta Sabe”, non conteneva una clausola volta espressamente ad escludere l’applicazione dell’art. 1945 c.c.. Sostiene inoltre che, pure a voler qualificare la scrittura come contratto autonomo di garanzia, la causa della stessa sarebbe consistita nel far conseguire alla RAS, senza indugio, l’oggetto della prestazione “in attesa della chiarificazione del rapporto principale” e che, poichè per tale rapporto nulla era dovuto alla Corio, la RAS, anzichè pretendere da lui il pagamento, avrebbe dovuto promuovere azione di ripetizione di indebito nei confronti della beneficiarla della polizza. Assume, infine, che seguendo l’interpretazione del giudice d’appello, si perverebbe ad enunciare un principio di assoluta ingiustizia, e cioè che, mentre il contraente di una polizza cautelativa non è tenuto a rimborsare la società garante quando risulti con certezza che quest’ultima abbia pagato il beneficiario che aveva agito in malafede e non aveva diritto all’escussione, il fideiussore del contraente sarebbe invece in ogni caso tenuto al rimborso senza potersi rivalere nei confronti della garantita (la cui obbligazione è insussistente) e senza poter esercitare l’azione di ripetizione di indebito verso la beneficiaria, spettante unicamente a chi ha pagato. Il motivo non può trovare accoglimento.

Va ricordato che, secondo la giurisprudenza costante e consolidata di questa Corte, l’interpretazione del contratto è tipico accertamento in fatto, affidato in via esclusiva al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica o per vizio di motivazione, qualora quella adottata non consenta il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (da ultimo, fra molte, Cass. nn. 1739/011, 20140/09, 10232/09).

Inoltre, l’ interpretazione data dal giudice al contratto, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non deve essere l’unica o la migliore possibile, ma una fra quelle possibili e plausibili, sicchè la parte non può dolersi, in sede di ricorso per cassazione, che sia stata privilegiata un’interpretazione diversa da quella da essa propugnata. Specularmente, il vizio di motivazione, in punto di interpretazione del contratto, deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e dalla coerenza formale, ossia dall’equilibrio, dei vari argomenti che sorreggono l’iter decisionale, e non dalla possibilità di un diverso significato attribuibile al negozio od alle sue singole clausole (fra molte, Cass. nn. 12992/010, 10753/09, 10131/06, 8360/05, 4063/04).

Pertanto, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente per cassazione che lamenti l’errata interpretazione del contratto non solo deve fare puntuale riferimento ai canoni ermeneutici asseritamene violati, ma, in ossequio ai principi di specificità ed autosufficienza del ricorso, è tenuto altresì a precisare in qual modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, riportando il testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto in contestazione, specie allorchè assuma che la sentenza ha dato prevalenza ad alcune clausole, senza considerarne altre, e non abbia tenuto conto del loro complessivo significato.

Analogamente, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente non può limitarsi a criticare la ricostruzione della volontà delle parti operata dal giudice a quo contrapponendovi la propria diversa interpretazione, ma, sempre in ossequio ai principi di specificità ed autosufficienza del ricorso, deve indicare con puntualità quali siano i vizi logici che inficiano il ragionamento del giudice e quali le circostanze decisive che questi ha omesso di valutare.

Alla luce di tali principi, la censura in esame risulta per più versi inammissibile.

In primo luogo il G., anzichè trascrivere per intero il testo del contratto, ne ha richiamato in maniera sommaria e frammentaria il contenuto, limitandosi a rilevare che la scrittura lo qualificava “fideiussore” della RAS e non prevedeva espressamente la sua rinuncia ad avvalersi del disposto dell’art. 1945 c.c..

Il ricorrente ha poi denunciato, in via generale, la violazione da parte della Corte di merito delle regole di ermeneutica contrattuale, ed in particolare della norma di cui all’art. 1362 c.c., che impone all’interprete di indagare sulla comune intenzione dei contraenti, valutabile dal loro comportamento complessivo, ma non ha in alcun modo indicato gli elementi di fatto e/o i comportamenti, trascurati dal giudice a quo, che sarebbero stati decisivi al fine di pervenire ad una diversa ricostruzione della volontà delle parti.

In maniera altrettanto generica, il G. ha trascritto in ricorso alcune massime giurisprudenziali di questa Corte (peraltro superate dalla sentenza, resa a S.U., n. 3947/010) senza chiarire le ragioni per le quali la Corte territoriale, nel giungere alle conclusioni esposte nella sentenza impugnata, avrebbe operato in contrasto con i principi in esse enunciati.

Infine, lungi dall’evidenziare l’illogicità delle argomentazioni che sorreggono il ragionamento del giudice d’appello, il ricorrente ha affermato di non condividerle, in tal modo rendendo palese come la censura si risolva, in realtà, nella richiesta, inammissibile in sede di legittimità, di sostituire all’interpretazione del contratto data dalla Corte di merito la propria personale interpretazione.

2) Col secondo motivo, denunciando ancora violazione degli artt. 1322, 1362, 1936, 1939, 1941, 1944, 1945 c.c., il ricorrente lamenta che la Corte milanese abbia escluso il suo diritto ad opporre alla RAS l’exceptio doli, formulabile nel caso in cui la richiesta di pagamento sia prima facie abusiva o fraudolenta. Assume che già al momento dell’escussione della polizza da parte dell’Immobiliare Corio v’era prova dell’inesistenza del lamentato inadempimento della Sabe, fornita attraverso una relazione peritale che, previa dettagliata contabilizzazione dei lavori, confermava come le prestazioni fornite dalla società poi fallita superassero di almeno cinque volte l’importo versato dall’Immobiliare come anticipo ed osserva che, proprio per tale ragione, il Tribunale di Lecco, con sentenza confermata in sede di appello, ha respinto la domanda della RAS di ammissione allo stato passivo della Sabe per il credito di regresso vantato.

Anche questo motivo va dichiarato inammissibile. Il ricorrente non chiarisce se la relazione peritale (alla quale non si fa accenno nella sentenza impugnata) sia stata prodotta nel corso del giudizio di merito, nè ne richiama puntualmente il contenuto: per tale aspetto, pertanto, la censura, al pari di quella che la precede, difetta del requisito dell’autosufficienza.

Ma, a prescindere da tale di per sè già dirimente rilievo, il motivo appare privo di attinenza al decisum, in quanto non rivolge alcuna critica all’effettiva ragione sulla quale si fonda la pronuncia di rigetto dell’exceptio doli, ovvero che la mala fede della RAS, dovendo essere valutata ex ante, al momento dell’escussione della garanzia, andava esclusa per il fatto che la compagnia assicuratrice (presumibilmente proprio perchè la Sabe le aveva fornito la relazione peritale) non aveva prestato supina acquiescenza alla pretesa della Corio, ma aveva proposto opposizione al decreto ingiuntivo ed aveva pagato solo dopo che il provvedimento era stato munito della formula esecutiva, allorchè la prova dell’inadempimento della committente (accertata con pronuncia arbitrale successiva di sei anni al fallimento dell’appaltatrice) non si era ancora formata.

3) Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia violazione degli artt. 333, 334 e 292 c.p.c. e L. Fall., art. 52, e rileva che l’appello del Fallimento della Sabe, in quanto volto alla riforma di un (presunto) capo della sentenza di primo grado che non era stato appellato in via principale, avrebbe dovuto essere notificato al R. ai sensi dell’art. 292 c.p.c., ed, in mancanza di detta notifica, avrebbe dovuto essere dichiarato improcedibile; sotto altro profilo, sostiene che l’assunto del Tribunale secondo cui egli e il R. avrebbero avuto diritto all’azione di regresso nei confronti del Fallimento non costituiva autonoma statuizione, suscettibile di passaggio in giudicato nel caso di omessa impugnazione, ma solo un indirizzo rivolto agli opponenti, non essendovi dubbio alcuno che la domanda di regresso avrebbe potuto essere proposta solo in via di insinuazione al passivo.

Entrambe le censure devono essere respinte.

Quanto alla prima di esse, è sufficiente rilevare che, nonostante l’avvenuta riunione delle opposizioni proposte dal G. e dal R., ciascun processo ha mantenuto la propria autonomia, attesa l’insussistenza di rapporti di garanzia propria o impropria fra l’uno e l’altro socio, debitori in solido della RAS. Si versa, pertanto, in tema di cause scindibili, sicchè il ricorrente non è legittimato a dolersi della mancata notifica dell’appello incidentale al R..

La seconda censura va invece dichiarata inammissibile, risolvendosi nella denuncia di un’errata interpretazione della sentenza di primo grado da parte della Corte di merito che avrebbe potuto essere fatta valere esclusivamente sotto il profilo del vizio di motivazione. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte: rigetta il ricorso; condanna G.G. al pagamento delle spese processuali che liquida sia in favore della RAS Ass.ni s.p.a. che in favore del Fallimento della Sabe s.r.l. in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2011

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