Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19036 del 06/07/2021

Cassazione civile sez. III, 06/07/2021, (ud. 10/02/2021, dep. 06/07/2021), n.19036

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi iscritti al n. 3450/2019 R.G. proposti da:

Reti Televisive Italiane S.p.a., rappresentata e difesa dagli Avv.ti

Salvatore Pino e Fabio Lepri, con domicilio eletto presso lo studio

di quest’ultimo in Roma, Via Pompeo Magno, n. 2/B;

– ricorrente –

contro

D.B.C., rappresentato e difeso dall’Avv. Elisabetta

Rubini, con domicilio eletto in Roma, Via Tacito, n. 90, presso lo

studio dell’Avv. Alessandro Piana;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Arnoldo Mondadori Editore S.p.a. e M.G.;

– intimati –

e da:

Arnoldo Mondadori Editore S.p.a. e M.G., rappresentati e

difesi dall’Avv. Fabio Lepri, con domicilio eletto presso il suo

studio in Roma, Via Pompeo Magno, n. 2/B;

– ricorrenti –

contro

D.B.C., rappresentato e difeso dall’Avv. Elisabetta

Rubini, con domicilio eletto in Roma, Via Tacito, n. 90, presso lo

studio dell’Avv. Alessandro Piana;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Reti Televisive Italiane S.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, n. 4799/2018

depositata il 7 novembre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 febbraio

2021 dal Consigliere Emilio Iannello;

lette le conclusioni motivate del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, formulate ai

sensi e con le modalità previste dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137,

art. 23, comma 8 bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176,

con le quali si chiede il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta da D.B.C., aveva condannato M.G., quale direttore del settimanale (OMISSIS), anche nella versione on line, la Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., quale editrice del settimanale, e la R.T.I. Reti Televisive s.p.a., quale concessionaria delle reti televisive (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), al pagamento, in solido tra loro e in favore dell’attore, della somma di Euro 55.000 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale subito in conseguenza della pubblicazione, tra settembre 2013 e marzo 2014, sul settimanale (OMISSIS), di alcuni articoli (in alcuni casi anche diffusi on line sul relativo sito) e della trasmissione, nei programmi di informazione giornalistica delle suddette reti televisive ((OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS)), di vari servizi televisivi, tutti lesivi dell’onore e dell’immagine del suddetto.

Secondo la tesi accolta dai giudici di merito, tali articoli di stampa (sette in tutto, compresi quelli apparsi sul sito internet del settimanale) e servizi televisivi (in numero di cinque) -temporalmente e funzionalmente collegati tra di loro, tanto da costituire una “martellante campagna di stampa” e da esaminare dunque anche nel loro complesso – erano dedicati con varie modalità ad associare il nome e l’immagine del predetto ai decessi che si assumevano provocati dalle emissioni della centrale a carbone di (OMISSIS), presentando la società che la gestisce ((OMISSIS) S.p.a.) come una controllata dalle società a lui riconducibili e accreditando l’idea che egli era riuscito più volte in passato a sottrarsi in modo non chiaro ad indagini.

2. Esaminando singolarmente dette pubblicazioni e trasmissioni televisive, in relazione ai motivi di gravame, la Corte d’appello ha rilevato quanto segue.

A) articolo pubblicato su (OMISSIS) il (OMISSIS), intitolato “(OMISSIS)”, sottotitolato “(OMISSIS)”, richiamato nella copertina del settimanale a sua volta recante, sovrapposti alla fotografia a tutta pagina di D.B.C., il titolo “(OMISSIS)” e il sottotitolo “(OMISSIS)”.

Nel testo degli articoli si dà conto di una indagine aperta dalla Procura di Savona contro ignoti, per disastro ambientale ed omicidio colposo, in relazione alle emissioni della centrale a carbone di (OMISSIS). Si dice che: l’impianto risulta essere della (OMISSIS) S.p.a. società posseduta per metà da (OMISSIS), per il resto da Energia Italiana, a propria volta detenuta per il 78% da Sorgenia, azienda controllata dalla (OMISSIS) della famiglia D.B.; “le emissioni avrebbero provocato mille morti di tumori”; “i PM indagano su migliaia di morti”. Si riportano alcune dichiarazioni di personaggi pubblici sul tema, evidenziate poi in caratteri maggiorati in appositi riquadri, tra le quali le seguenti: “stiamo facendo una battaglia contro poteri incredibili, come D.B.C…. questi sono i veri killer seriali della nostra epoca” ( G.B., pag. 46), e “crea malattie terrificanti come il cancro” ( F.C., pag. 48).

Ha osservato quindi la corte milanese che:

– “la notizia è in parte falsa: è vera laddove narra della pendenza di indagine per morti causati dall’inquinamento, è falsa nella parte in cui indica il numero dei decessi stimati in “migliaia” e là dove imputa le morti ai “tumori”” (secondo notizie apprese allora dagli inquirenti e di cui lo stesso settimanale dà conto in un successivo articolo i decessi sarebbero 450 e da imputare a patologie cardiorespiratorie). “E’ vero che D.B. ha partecipazioni azionarie, è falso che la famiglia di D.B. sia comproprietaria della centrale”;

– sebbene il testo dell’articolo correttamente spieghi che l’indagine è contro ignoti, e che il collegamento con D.B.C. è molto labile, rimane tuttavia il fatto che il tenore complessivo dell’articolo, quale risulta dalla copertina, che riporta in primo piano viso e nome di D.B.C., i titoli e sottotitoli gridati (“avvelenati”, “migliaia di morti”), i riquadri in caratteri maggiorati (con parole come “killer” e “cancro”), mettono direttamente la persona di D.B.C. in relazione con migliaia di morti per tumore;

– l’articolo, attraverso copertina, le foto, i titoli e sottotitoli, i riquadri grassettati, “sbatte il mostro in prima pagina”, “nè rileva che il lettore attento abbia modo di comprendere, all’esito della lettura completata dell’articolo, che D.B.C. non è indagato; l’impressione immediata è quella, del tutto falsa, del diretto coinvolgimento di D.B.C. nelle migliaia di morti”.

B) articolo pubblicato sul medesimo numero di (OMISSIS) del (OMISSIS), dal titolo “(OMISSIS)”, pubblicato anche on line sul sito (OMISSIS) il (OMISSIS).

Reca il sottotitolo “(OMISSIS)”.

Hanno rilevato i giudici a quibus che:

– “l’articolo ripercorre vicende giudiziarie anche assai risalenti nel tempo, commentando criticamente come non sia mai stato condannato in via definitiva, insinuando il sospetto che ciò sia avvenuto per l’effetto di favoritismi nei suoi confronti”;

– “alcune delle vicende narrate non sono vere; non lo è ad esempio la vicenda della multa per Euro 225.000 prospettata per plusvalenze realizzate nel 1991 e non dichiarate sulla spartizione della Mondadori tra (OMISSIS) e (OMISSIS), laddove la sanzione non risulta essere stata irrogata a (OMISSIS), ma al (OMISSIS), e la vicenda non attiene alle plusvalenze derivanti dalla spartizione della Mondadori tra (OMISSIS) e (OMISSIS), ma a una successiva operazione di fusione tra due società del (OMISSIS)”;

– in altre “non è tanto in discussione la ricostruzione fattuale dell’episodio (ad esempio, del processo per il fallimento del Banco Ambrosiano) quanto il fatto che venga suggerito – attraverso l’uso del titolo, “(OMISSIS)”; del sottotitolo… (sopra menzionato); del grassettato, evidenziato in giallo e carattere maggiorato nel testo, che evidenzia come “non c’è fretta quando c’è di mezzo l’ingegnere grazie ad una questione procedurale”; della copertina, che lo indica come “intoccabile” – che i denunciati ritardi o vizi procedurali sarebbero conseguenti ad agevolazioni sospette, frutto di ventilati ma non esplicitati accordi inconfessabili con giudici ed inquirenti”.

C) articolo pubblicato su (OMISSIS) il (OMISSIS), intitolato “(OMISSIS)”.

L’articolo, che riporta le dichiarazioni di alcuni soggetti residenti in zona, che avrebbero contratto malattie o visto il decesso di congiunti, ha, secondo la Corte d’appello, portata diffamatoria là dove afferma che la centrale, fino al 2002 di proprietà dell’Enel, “poi venne acquisita da una cordata guidata dalla (OMISSIS) di D.B.C.”, in tal modo ingenerando nel lettore l’impressione che lo stesso abbia il controllo della società.

Hanno osservato i giudici a quibus che, “al di là della scarsa precisione dell’affermazione, laddove la realtà è molto più complessa, quel che conta è che non sono stati offerti elementi, nè se ne discernono comunque in atti, per affermare che D.B.C. si fosse in qualche modo ingerito, od avesse responsabilità di sorta nella gestione di (OMISSIS) s.p.a. e in particolare della centrale di (OMISSIS), constando meramente la posizione di azionista di società aventi, all’esito di una lunga catena di passaggi, una partecipazione, in (OMISSIS) s.p.a.”.

D) articolo pubblicato su (OMISSIS) il (OMISSIS) dal titolo “(OMISSIS)”, pubblicato anche on line sul sito (OMISSIS) il (OMISSIS) col titolo “(OMISSIS)”.

Secondo la corte lombarda, anche in tal caso, “non è in contestazione il testo dell’articolo che correttamente dà conto delle dichiarazioni del PM, ed espone come i periti abbiano escluso dall’indagine i tumori, e ritenuto determinate dall’inquinamento da emissioni di combustione di carbone patologie cardiorespiratorie, che avrebbero causato 450 decessi”; rileva piuttosto “il titolo, gridato a doppia pagina, che attribuisce i “morti” all’ingegnere”, corredato da foto e nome di D.B.C., in situazione nella quale… non sussiste alcun rapporto diretto, ed il collegamento è meramente riferibile a remote partecipazioni azionarie”.

E) articolo pubblicato su (OMISSIS) il (OMISSIS), dal titolo “(OMISSIS)”.

Premesso che l’articolo spiega che “i guai per la famiglia di D.B.C. sembrano non aver fine… Ci sono di mezzo i 422 morti e i 2683 malati che sarebbero stati causati dalle esalazioni della centrale… l’inchiesta: per disastro ambientale e omicidio colposo”, hanno osservato i giudici a quibus che “l’aver posto l’accento sui riflessi di natura penalistica della vicenda, e l’aver messo in relazione il nome dell’attore con i decessi, in contesto per contro evidenziante la pacifica estraneità di D.B.C. alle indagini, e comunque alla gestione della centrale… abbia piena valenza diffamatoria”.

F) servizio di (OMISSIS) del (OMISSIS) ore 12.25.

Riferisce del caso “sollevato dal settimanale (OMISSIS) sulla centrale di (OMISSIS) partecipata dalla (OMISSIS) di D.B.” e che la Procura ha aperto un’inchiesta su “1000 morti sospette”; che la proprietà dell’impianto “è divisa tra il colosso francese (OMISSIS) e un’azienda che fa capo a (OMISSIS), la società energetica controllata dalla (OMISSIS) di D.B.”; durante il servizio vengono mostrate la foto di copertina del settimanale (OMISSIS), recante la scritta “L’intoccabile è nei guai”, ed altra accompagnata dal titolo “(OMISSIS)”; le parole, riferite a soggetto terzo, secondo cui “questi sono i killer della nostra epoca”, sono pronunciate in corrispondenza con la proiezione dell’immagine dell’attore e con la scritta “(OMISSIS)”.

Secondo la Corte d’appello “l’effetto cercato ed ottenuto è quello di mettere indebitamente i morti in collegamento con l’immagine di D.B.C.”.

G) servizio di (OMISSIS) del (OMISSIS) ore 12.40.

Citando la notizia già diffusa da (OMISSIS), relativa alla “centrale a carbone di (OMISSIS) di cui è azionista D.B.C.”, del quale ostenta l’immagine fotografica, espone che “si sarebbero ammalati di tumore da 300 a 500 bambini e 1500 adulti in più rispetto alla media nazionale” e riporta l’affermazione, attribuita a terzo, “questi sono i killer della nostra epoca”, mentre scorre a video l’immagine di repertorio di D.B.C..

Si osserva in sentenza che “come sopra già esplicitato… D.B. non è azionista di (OMISSIS) S.p.a.,… l’ipotesi tumorale non è stata confermata,… comunque il collegamento suggerito con le indagini ed i decessi è improprio”.

H) servizio di (OMISSIS) del (OMISSIS) ore 14.00.

Essendo analogo a quello di (OMISSIS) dello stesso giorno, la sentenza fa rinvio alle considerazioni per esso espresse (v. supra lett. F).

I) servizio del (OMISSIS) del (OMISSIS) ore 20.00.

Tratta dell’indagine della Procura per disastro ambientale, riferendo che “pare vi siano stati 3000 decessi per tumore”, e pur dando atto che la Procura indaga contro ignoti, indica che “il patron di Repubblica D.B.C.”, del quale diffonde foto, fino al 2011 “con la sua (OMISSIS) era azionista di maggioranza”.

L) trasmissione “Dentro la notizia del (OMISSIS)” del (OMISSIS).

Compare in sovraimpressione la scritta “Se a uccidere è la centrale legata ai D.B.”.

Per entrambe le trasmissioni la sentenza rimanda alle medesime osservazioni svolte per gli articoli, ritenendo “diffamatoria l’associazione del nome e delle immagini di D.B.C. alla notizia,… solo in parte vera, dell’indagine sulle morti sospette”.

Osserva anzi, più in generale che, per tutti i servizi televisivi, tale associazione si rivela maggiormente lesiva poichè, “a differenza dell’articolo scritto, si impone più per le immagini e le scritte in sovrimpressione che per il testo letto dal giornalista, che l’ascoltatore non ha neppure modo di andare a rileggere se non ha sentito bene od in un secondo tempo vuole approfondire”.

3. Il giudice del gravame ha reputato, altresì, congrua la liquidazione equitativa del danno effettuata dal Tribunale.

4. Avverso tale decisione Arnoldo Mondadori Editore S.p.a. e M.G., da un lato, e Reti Televisive Italiane S.p.a., dall’altro, propongono separati ricorsi per cassazione, entrambi affidati a due motivi.

Ad entrambi resiste D.B.C., depositando controricorsi.

5. Il Procuratore Generale presso la Corte ha depositato conclusioni scritte ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176.

Le parti ricorrenti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, non avendo alcuna delle parti nè il Procuratore Generale fatto richiesta di trattazione orale.

2. I due ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso il medesimo provvedimento, vanno riuniti per essere trattati unitariamente.

Può comunque procedersi ad un esame congiunto di entrambi, per essere esattamente identici i motivi che ne sono posti a fondamento.

3. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 51 c.p., artt. 2043 e 2059 c.c., e art. 21 Cost., per avere la Corte d’appello adottato un erroneo parametro legale di valutazione, giudicando i motivi di gravame e gli scritti in base ai parametri propri del solo diritto di cronaca mentre in essi era stato esercitato anche il diritto di critica.

Tale erronea impostazione ha condotto la corte territoriale, secondo i ricorrenti, ad adottare per tutti i materiali valutati ed i relativi motivi d’appello i parametri della verità dei fatti e della continenza espositiva intesi in modo rigoroso, nonostante essi dovessero invece trovare applicazione in forma attenuata e più elastica, perchè non si verteva in mero resoconto ma, su quanto riportato, sia il settimanale che le trasmissioni televisive avevano fondato prospettazioni, opinioni e critiche.

In particolare, per quanto concerne la verità dei fatti, sostengono che, per il legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della verità ben può sussistere soltanto con riguardo ad un nucleo essenziale di fatti essendo la critica espressione di opinione meramente soggettiva ed avendo per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica.

A maggior ragione, per quanto riguarda il requisito della continenza, deve ritenersi, secondo i ricorrenti, che la critica consenta rispetto alla cronaca forme espositive molto più forti, permettendo toni e forme di esposizione graffianti ed accesi.

Calando quindi tali rilievi nella disamina della valutazione condotta dalla corte territoriale in ordine ai singoli fatti lesivi, osservano i ricorrenti che:

– con riferimento al primo articolo (v. supra, “Fatti di causa”, lett. A), il requisito della verità è stato erroneamente escluso sebbene esistesse, secondo la stessa sentenza, nel suo nucleo essenziale: errato era – secondo i giudici distrettuali – il numero dei decessi (450 invece che “migliaia”) e il riferimento ai tumori (invece che a patologie cardiorespiratorie, tra le quali ben possono rientrare i tumori), ma queste – chiosano i ricorrenti – erano al più “inesattezze”, consentite in quanto prendevano le mosse dal fatto vero; quanto poi alle partecipazioni azionarie solo l’adozione di un metro di assoluto rigore, estraneo al diritto di critica, ha potuto condurre ad escludere che esse davano luogo ad una sostanziale titolarità della centrale;

– con riferimento al secondo articolo (v. supra, “Fatti di causa”, lett. B), quelle rilevate in sentenza erano solo inesattezze: una sanzione invece che a (OMISSIS) era stata irrogata al (OMISSIS) (sempre di sanzione irrogata per operazione societaria però si trattava); l’allusione poi a “non esplicitati accordi inconfessabili con giudici ed inquirenti” non era consentita, per il requisito della continenza, se si fosse trattato di cronaca, ma doveva ritenersi invece consentito trattandosi di critica su fatti di cronaca;

– con riferimento al terzo articolo (v. supra, “Fatti di causa”, lett. C), quelli rilevati in sentenza costituivano “convincimenti del settimanale circa la non estraneità della parte appellata alla titolarità della centrale”, come tali da ritenere consentiti perchè “frutto di elaborazione che promanava da dati di partenza (la catena di partecipazioni azionarie, n.d.r.) che gli stessi giudici territoriali assumono come veri benchè tacciabili di scarsa precisione”;

– con riferimento al quarto ed al quinto articolo (v. supra, “Fatti di causa”, lettere D ed E), il requisito della verità esisteva con riguardo al nucleo essenziale e nulla precludeva di desumere dalle partecipazioni azionarie quali dati di partenza quanto esposto nel testo.

Le stesse considerazioni vengono poi sostanzialmente ripetute con riferimento ai servizi televisivi (v. supra, “Fatti di causa”, lettere F-L). Anche per essi si ripete la stessa tesi difensiva sintetizzata nell’assunto che “reale era l’indagine, reale la partecipazione azionaria, ma inesatto il numero dei decessi e il riferimento ai tumori (invece che a patologie cardiorespiratorie, tra le quali ben possono rientrare i tumori)”, inesattezze di per sè non idonee ad escludere l’esercizio legittimo del diritto di critica per il criterio più elastico che deve per essa osservarsi rispetto a quelli da osservarsi in caso di cronaca.

Soggiungono infine che, ove detto metro di valutazione fosse stato applicato, avrebbe dovuto per ciò stesso escludersi anche l’ipotizzata “campagna diffamatoria”.

4. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., in relazione alla riconosciuta sussistenza del danno.

Affermano che nè nell’atto di citazione, nè nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., l’Ing. D.B. aveva dedotto specifici elementi fattuali a sostegno del preteso danno richiesto, limitandosi a dedurre nell’atto introduttivo di aver subito un generico pregiudizio, derivato dall’essere un notissimo imprenditore e dalla gravità delle accuse, per poi invocare alcuni criteri di liquidazione del danno quali la diffusione degli scritti incriminati ed il presunto dolo degli allora convenuti.

Lamentano, quindi, l’erroneità della sentenza d’appello là dove, pur correttamente premettendo che il danno non patrimoniale da lesione dell’onore e della reputazione non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, ha contraddittoriamente liquidato il danno in difetto di allegazione, facendo riferimento a parametri – quali la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della persona offesa – in realtà utilizzabili per la liquidazione equitativa, sul presupposto però che la parte interessata abbia allegato gli elementi costitutivi del danno.

5. Venendo all’esame del primo motivo, mette conto preliminarmente rilevare che i ricorrenti danno per scontato che si tratti nella specie di “critica su fatti di cronaca” ma in realtà non si curano di spiegare in modo preciso che cosa di quanto la corte territoriale ha ritenuto diffamatorio sarebbe stato in realtà espressione del diritto di critica (e non si ravvisa per vero nei testi attenzionati alcun ragionamento o argomentazione che possa obiettivamente considerarsi espressione di una opinione).

Pur muovendo comunque nella prospettiva dell’esercizio del diritto di critica, il motivo si appalesa in parte infondato, in parte inammissibile.

6. E’ corretta la premessa maggiore da cui muovono i ricorrenti circa l’individuazione della regola di giudizio da applicare in tal caso, ma è infondata quella minore secondo cui la regola in concreto applicata dalla corte territoriale sia difforme da essa (che la sentenza cioè sia inficiata da errore nella ricognizione del diritto applicabile) ovvero sia stata malamente applicata alla fattispecie così come accertata (errore di sussunzione). La censura si volge piuttosto a contestare la valutazione della fattispecie concreta alla luce della regola applicabile, in ciò dunque risolvendosi nella denuncia di un vizio di motivazione, inammissibile poichè eccedente dai ristretti limiti nei quali questo è deducibile in cassazione.

6.1. Sotto il primo profilo giova ribadire che, secondo principio costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, riguardo all’azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo stampa, va tenuta ferma la distinzione tra il diritto di critica, con cui si manifesta la propria opinione, la quale non può pertanto pretendersi assolutamente obiettiva (e può essere esternata anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente), ed il diritto di cronaca, che è legittimamente esercitato purchè sussista la continenza dei fatti narrati (intesa in senso sostanziale – per cui i fatti debbono corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma soggettiva – e formale, con l’esposizione in modo misurato); con la conseguenza che i fatti ed i comportamenti cui la critica è riferita devono essere veri (cfr., tra le altre, Cass. n. 25420 del 26/10/2017; n. 13152 del 25/05/2017; n. 5005 del 28/02/2017; n. 7847 del 2011; n. 17172 del 2007), ma solo nel senso che non debbono essere inventati od alterati nel loro nucleo essenziale o interpretati arbitrariamente (in modo che l’opinione finisca per essere del tutto sganciata da quei fatti e comportamenti, così esorbitando da una critica legittima: cfr. Cass. n. 12420/08, n. 7274/13, n. 15112/13, n. 839/15); non è invece necessario che siano esposti con la completezza che si richiede quando si perseguono scopi informativi.

Più precisamente occorre tener presente che il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio, o, più genericamente, in una opinione, la quale, come tale, non può che essere fondata su un’interpretazione dei fatti e dei comportamenti e quindi non può che essere soggettiva, cioè corrispondere al punto di vista di chi la manifesta. Resta fermo, però, che il fatto o comportamento presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre (OMISSIS)costanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca (Cass. n. 7847 del 2011, cit.; Cass. n. 379 del 11/01/2005).

Nella stessa prospettiva si colloca la giurisprudenza della Corte EDU sull’art. 10 della Convenzione, in tema di libertà di espressione, che, nel distinguere tra “materialità dei fatti” e “giudizi di valore”, pone in rilievo che, quand’anche “equivale a un giudizio di valore, una dichiarazione deve fondarsi su una base fattuale sufficiente, senza la quale sarebbe eccessiva”: sentenza Peruzzi c. Italia del 30 giugno 2015, e ulteriori precedenti ivi richiamati; cfr. in tal senso Cass., 19/01/2017, n. 1285).

Non risulta però – e deve anzi escludersi alla stregua della motivazione resa – che la ratio decidendi della sentenza impugnata riposi su una regola di giudizio diversa.

La Corte d’appello ha invero individuato la ragione della ritenuta illiceità delle pubblicazioni e delle trasmissioni in questione nel rilievo della: a) non corrispondenza al vero del numero delle morti sospette (di gran lunga maggiore rispetto a quelle per cui vi è indagine della magistratura); b) non verità della affermazione secondo cui D.B. sia proprietario o comunque abbia poteri di gestione sulla centrale elettrica da cui quelle emissioni provengono; c) enfasi (per titoli, sottotitoli, immagini) nella correlazione diretta del D.B. a tali eventi, tale da suggerirne un suo diretto coinvolgimento (non essendo egli invece neppure indagato); d) accreditamento dell’idea che il predetto era riuscito più volte in passato a sottrarsi in modo non chiaro ad indagini penali.

E si tratta di un giudizio che, in astratto, non può ritenersi esulante dal paradigma da osservarsi, secondo i principi sopra ricordati, nel contemperamento delle contrapposte esigenze della tutela della reputazione e dell’onore della persona e dell’esercizio del diritto di critica e di opinione, tutelato dall’art. 21 Cost..

Quel che la corte territoriale considera diffamatorio non è l’opinione espressa sul personaggio pubblico bensì che quella opinione sia espressa sulla base di presupposti totalmente o parzialmente falsi e con modalità ed enfasi tali da suggerirne in modo chiaro un diretto coinvolgimento in indagini penali per fatti di grave allarme sociale e peraltro capace di sottrarsi alla giustizia con mezzi oscuri e, dunque, altrettanto infamanti.

E tanto più, nella specie, tali considerazioni valgono a giustificare il giudizio di illiceità delle pubblicazioni (e trasmissioni televisive), ove si consideri che, come detto, è assai difficile cogliere quanto in esse sia obiettivamente ascrivibile ad una argomentata opinione piuttosto che a mere apodittiche affermazioni di fatti (in massima parte falsi) e connesse (inesistenti) responsabilità.

6.2. Le critiche che poi vengono svolte sotto il profilo della correttezza o fondatezza di tale valutazione, ovvero della ritenuta esistenza di tali caratteri e di tali connotati negli articoli e nei servizi considerati, impingono evidentemente nella valutazione del fatto riservata al giudice di merito.

Costituisce al riguardo, invero, consolidato principio quello secondo cui, “in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione” (v. e pluribus, tra le più recenti, Cass. 03/09/2020, n. 18278; 26/06/2020, n. 12903; 26/05/2020, n. 9710; in senso conforme, v. anche Cass. 14/03/2018, n. 6133; 30/05/2017, n. 13520, 27/07/2015, n. 15759; 10/01/2012, n. 80).

Di conseguenza, il “controllo affidato al giudice di legittimità è limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonchè al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis”, mentre resta “del tutto estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione, non potendo la Corte di cassazione sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine a tale accertamento” (così, Cass. n. 6133 del 2018, cit.).

Pur riguardate, le critiche, in tale diversa (e non esplicitamente dedotta) prospettiva ne risulta evidente l’inammissibilità.

Nel nuovo regime, infatti, com’è noto, dà luogo a vizio della motivazione sindacabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); tale fatto storico deve essere indicato dalla parte – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, – insieme con il dato, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, dovendosi anche evidenziare la decisività del fatto stesso (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014, cit.; Cass. 22/09/2014, n. 19881).

Nella specie non si ricava dalla illustrazione del motivo alcun accenno alla obliterazione, da parte del giudice a quo, di fatti potenzialmente decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, potendo anzi ritenersi pacifico che la valutazione della Corte sia stata completa, quel che viene contestato essendone piuttosto l’esito.

7. Il secondo motivo è parimenti destituito di fondamento.

7.1. Occorre anzitutto rilevare che quello prospettato non integra il vizio, indicato nell’intestazione, di violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), nè la violazione del divieto di nuove domande in appello (art. 345 c.p.c.).

Secondo la tesi censoria l’attore avrebbe omesso di allegare nel giudizio di primo grado gli elementi fattuali a sostegno del preteso danno richiesto, di guisa che la Corte non avrebbe potuto riconoscere un danno in ragione della sola accertata lesione del diritto all’onore e reputazione dell’attore.

In tal modo si prospetta, però, non un error in procedendo (quale sarebbe la decisione ultra o extrapetita o su domanda nuova in appello), ma piuttosto un error in iudicando consistito nella violazione dell’art. 1223 c.c., (richiamato dall’art. 2056 c.c.) che considera risarcibili solo i danni che siano “conseguenza immediata e diretta” del fatto illecito.

7.2. Pur riguardato in tali termini il motivo, in una prospettiva sostanzialistica (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931), se ne deve rilevare la manifesta infondatezza.

La corte di merito ha riconosciuto l’esistenza del danno non perchè fosse da ritenere in re ipsa, ma per averlo ritenuto provato alla stregua di ragionamento presuntivo basato su elementi allegati dalla parte attrice e in sè non contestati.

Anche in tal caso i giudici a quibus hanno infatti anzitutto richiamato in premessa la regola di giudizio applicata, pienamente conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di responsabilità civile per diffamazione a mezzo stampa, il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale dalla vittima (v. ex multis Cass. n. 25420 del 26/10/2017).

Hanno quindi considerato che “gli scritti e le trasmissioni televisive hanno avuto diffusione amplissima, trattandosi, per (OMISSIS), di uno dei settimanali a maggiore tiratura nazionale, con pubblicazione degli articoli anche on line sul web; per le trasmissioni diffuse dalle reti R.T.I., della notoria diffusione del mezzo televisivo, e della reiterazione del messaggio in tempi e su reti diversi, comunque in orari di punta, a copertura di diverse fasce di pubblico; che l’offesa è grave, consistendo nell’aver cagionato un numero elevatissimo di morti, e viene recata con termini anche di particolare aggressività; che il danneggiato è soggetto ampiamente noto, notorietà che lo espone a maggiori e legittime possibilità di valutazione critica del suo operato, ma senza che si possa prescindere (dalla necessità) che i fatti posti a fondamento delle valutazioni espresse siano veri”.

è palesemente infondato l’assunto dei ricorrenti secondo cui gli elementi considerati – diffusione dello scritto, gravità dell’offesa e posizione sociale della persona offesa – possono costituire solo parametri per la quantificazione del danno ma non per supportare in via presuntiva la sua sussistenza nell’an.

A parte il fatto che i ricorrenti non indicano nemmeno quali diversi elementi dovrebbero essere allegati per soddisfare tale preliminare onere probatorio, è evidente che sono proprio quelli menzionati che possono giovare anche a tal fine (oltre che alla quantificazione del danno, in relazione alla diversa e graduabile intensità in cui ciascuno di essi può presentarsi nel caso concreto).

8. Entrambi i ricorsi debbono, pertanto, essere rigettati con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore del controricorrente delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge a carico del ricorrente principale e nello stesso importo a carico dei ricorrenti successivi.

Ai seni del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricoreenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2021

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