Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19026 del 31/07/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 31/07/2017, (ud. 21/03/2017, dep.31/07/2017),  n. 19026

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13735-2015 proposto da:

G.C., C.F. (OMISSIS), rappresentata e difesa

dall’avvocato ROBERTO PIERELLI, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR,

PRESSO LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

DUOMO GPA S.R.L. C.F. 00907370415, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIZZA

DELL’OROLOGIO 7, presso lo studio dell’avvocato NICOLA MARCONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIULIANA RIBERTI, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 598/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 07/11/2014 R.G.N. 381/14.

Fatto

PREMESSO

che con sentenza n. 598/2014, depositata il 7 novembre 2014, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Pesaro aveva respinto il ricorso proposto da G.C. per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla stessa intimato dalla Duomo G.P.A. S.r.l., in data 9/3/2011, in conseguenza della perdita della concessione del servizio per la riscossione dei tributi e affissioni pubblicitarie del Comune di Pergola, con la conseguente chiusura dell’ufficio e la soppressione del posto di lavoro di unica addetta amministrativa e contabile all’ufficio stesso;

– che avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la lavoratrice con otto motivi;

– che la società ha resistito con controricorso.

Diritto

RILEVATO

che:

– con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 avendo la Corte erroneamente ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo sull’esclusivo fondamento della cessazione del servizio per effetto della perdita dell’appalto con il Comune di Pergola, senza prendere in esame il dato della persistenza di altri e numerosi appalti nella stessa provincia e nella stessa regione;

– con il secondo e con il terzo, la ricorrente censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 nonchè degli artt. 115,116 e 132 c.p.c., e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte trascurato di considerare un insieme di circostanze da cui sarebbe emerso che la cessazione dell’appalto non aveva per ciò solo comportato il totale venir meno delle mansioni e dell’attività svolta e altresì per avere omesso di valutare una pluralità di risultanze istruttorie, documentali e testimoniali, di segno opposto alla ritenuta inesistenza di posti disponibili;

– con il quarto e con il quinto, la ricorrente censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 112,115,132,345 e 416 c.p.c., e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto che la società avesse dimostrato l’impossibilità di ricollocare la lavoratrice all’interno della propria organizzazione di impresa, nonostante la decadenza della parte datoriale dalla relativa prova, il fatto che le risultanze istruttorie acquisite in primo grado (Libro unico del lavoro) fossero tali da determinare una diversa conclusione e il divieto di nova in appello;

– con il sesto, la ricorrente censura la sentenza per omesso esame di un fatto decisivo e che è stato oggetto di discussione fra le parti, individuato nel mantenimento dell’unità locale di Pergola per oltre un anno dal licenziamento;

– con il settimo, la ricorrente censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 1 per avere la Corte erroneamente ritenuto non applicabile nella fattispecie concreta la disciplina in tema di scelta dei lavoratori in esubero dettata per i licenziamenti collettivi;

– con l’ottavo e con il nono, la ricorrente censura la sentenza, nella parte in cui ha escluso il suo diritto al riconoscimento di un inquadramento superiore, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e di varie disposizioni dei CCNL di settore, nonchè degli artt. 115,116 e 132 c.p.c., e per omesso esame circa fatti decisivi, oggetto di discussione fra le parti, quali la circostanza che la lavoratrice operasse in autonomia nel ruolo di sportellista, fosse dotata di esperienza e avesse potere di controllo su altro personale subordinato, secondo quanto emerso dalle prove testimoniali acquisite in primo grado;

osservato che il primo motivo è infondato;

– che, infatti, “nelle ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in conseguenza della soppressione della posizione lavorativa presso una delle sedi aziendali, la legittimità del recesso è condizionata alla sola verifica della effettività della esigenza di riduzione del personale e del rapporto di causalità tra tale esigenza ed il licenziamento concretamente operato, sicchè una questione di comparazione con altre sedi si pone nei soli casi in cui l’esigenza di riorganizzazione aziendale sia potenzialmente riferibile ad una pluralità di posizioni di lavoro e non anche, invece, su base territoriale” (Cass. n. 26467/2016);

– che gli altri motivi risultano inammissibili; in particolare:

(a) i motivi terzo, quinto, sesto e nono, con i quali viene denunciato vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), essendosi nella specie in presenza di conformità (delle sentenze di primo e di secondo grado) preclusiva ex art. 348 ter c.p.c., u.c., e di un giudizio di appello introdotto con ricorso depositato in epoca successiva all’entrata in vigore (11 settembre 2012) di tale disposizione; nè la ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5 ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014);

(b) i motivi secondo, quarto e ottavo, sostanziandosi sub specie di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in censure di ordine motivazionale, sul rilievo di una lettura carente, scorretta o incompleta delle risultanze probatorie acquisite al giudizio, e, come tali, estranee al perimetro del nuovo vizio di cui all’art. 360, n. 5, quale risultante dalla novella legislativa del 2012 e dalla giurisprudenza di questa Corte a Sezioni Unite (sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014);

(c) il quarto motivo, inoltre, è inammissibile là dove denuncia la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., trattandosi di un difetto di attività processuale che integra un error in procedendo e che, in quanto tale, deve essere fatto valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4; nonchè là dove denuncia la violazione degli artt. 416 e 345 c.p.c., stante il divieto di nova nel giudizio di secondo grado, non essendo stati riportati nel ricorso per cassazione, in ottemperanza al principio di specificità e di autosufficienza, i passi dell’atto introduttivo e quelli del ricorso in appello, attraverso i quali valutare la novità delle censure;

(d) il settimo, infine, è inammissibile, in quanto, nel censurare la parte di sentenza in cui il giudice di appello ha escluso l’applicabilità della disciplina di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5 ad un licenziamento individuale, non ha specificamente indicato le affermazioni in diritto che risulterebbero in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie in esame o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (giurisprudenza costante), esaurendo la propria critica sul punto in affermazioni apodittiche e comunque non conferenti, anche in relazione al principio di diritto sopra richiamato a proposito del primo motivo;

ritenuto conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 21 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2017

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