Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19020 del 31/07/2017


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Cassazione civile, sez. I, 31/07/2017, (ud. 29/05/2017, dep.31/07/2017),  n. 19020

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco A. – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2429/2017 proposto da:

L.R., nella qualità di ex Sindaco del Comune di (OMISSIS),

e T.R., nella qualità di ex Vice Sindaco del Comune di

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in Roma, Via Paolo Emilio n.7,

presso l’avvocato Vurro Elisabetta (Studio Legale Franco Tassoni),

rappresentati e difesi dall’avvocato La Grotteria Sergio, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n.12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

F.A., Fr.An., La.Pa., M.A.,

Ta.Au., Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte

di Appello di Catanzaro, Procuratore Generale presso la Suprema

Corte di Cassazione;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1649/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 19/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/05/2017 dal cons. FALABELLA MASSIMO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per la rimessione alle Sezioni

Unite su contrasto intervento P.G., in subordine rigetto del

ricorso;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato La Grotteria Sergio che ha

chiesto la rimessione alle Sezioni Unite e in subordine

l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente Ministero, l’Avvocato Gen. dello Stato

Tito Varrone che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il Presidente della Repubblica, con decreto del 19 dicembre 2011, su proposta del Ministero dell’interno, disponeva lo scioglimento del Consiglio comunale di (OMISSIS) per la durata di diciotto mesi, ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 143, (t.u.e.l.), in ragione delle ingerenze della criminalità organizzata. Il Ministero dell’interno avviava presso il Tribunale di Vibo Valentia, ai sensi del comma 11 del medesimo art. 143, il procedimento per la declaratoria di incandidabilità di coloro che a vario titolo erano stati amministratori di quel Comune: L.R. e T.R., rispettivamente sindaco e vice sindaco, nonchè Ta.Au., La.Pa., M.A., Fr.An. e F.A..

2. – Il Tribunale di Vibo Valentia, con decreto 21.10.2013, dichiarava incandidabili i prime due e rigettava la domanda nei confronti degli altri.

3. – Avverso il suddetto decreto proponevano reclamo il Ministero dell’interno, il quale lamentava che erroneamente era stata esclusa (‘incandidabilità di alcuni amministratori, sia i sig.ri L.R. e T.R., i quali deducevano che, successivamente allo scioglimento del consiglio comunale, si erano già svolti due turni elettorali nella Regione Calabria, sicchè la richiesta di declaratoria di incandidabilità avanzata dal Ministero doveva giudicarsi improcedibile.

La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del 22 luglio 2014, per quanto ancora interessa, dichiarava improcedibile la domanda del Ministero volta alla declaratoria di incandidabilità di tutti gli amministratori del disciolto consiglio comunale. La Corte di merito, tenuto conto che si erano svolti già due turni elettorali nella regione successivamente allo scioglimento del consiglio comunale, riteneva che non potesse più trovare applicazione la misura di carattere preventivo e sanzionatorio della incandidabilità che era prevista dalla legge con esclusivo riferimento al primo turno elettorale successivo allo scioglimento stesso.

4. – Tale sentenza era oggetto del ricorso per cassazione proposto dalla Procura generale presso la Corte d’appello di Catanzaro, cui aderiva con controricorso il Ministero dell’interno, il quale proponeva anche un autonomo ricorso, mentre i R., T.R. e Au., La., M., Fr.An. e A. resistevano con controricorso.

Questa Corte, con sentenza n. 18696 del 2015, riteneva ammissibile il ricorso proposto della Procura generale, mentre dichiarava inammissibile quello spiegato dal Ministero. Nel merito, osservava che l’art. 143, comma 11, t.u.e.l. andava interpretato nei termini seguenti: anzitutto “la candidatura è preclusa nel primo turno elettorale di ciascuna delle predette elezioni (regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali) che si svolgano, successivamente allo scioglimento, nella regione nel cui territorio si trova l’ente interessato”; in secondo luogo, l’incandidibilità opera “quando, come previsto dalla norma, sia dichiarata con provvedimento definitivo, valendo evidentemente per tutti i turni elettorali successivi che si svolgeranno nella regione nel cui territorio si trova l’ente interessato dallo scioglimento, sebbene nella stessa regione si siano svolti uno o più turni elettorali (di identica o differente tipologia) successivamente allo scioglimento dell’ente ma prima che il provvedimento giurisdizionale dichiarativo dell’incandidabilità abbia assunto il carattere della definitività”.

La sentenza impugnata era quindi cassata.

5. – In sede di rinvio, poi, la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del 19 ottobre 2016, rigettava i reclami proposti, rispettivamente, da L.R. e T.R. e da Ta.Au., La.Pa., M.A., F.A. e Fr.An..

6. – Contro quest’ultima sentenza hanno proposto ricorso per cassazione L.R. e T.R.: l’impugnazione consta di sei motivi illustrati da memoria. Degli intimati ha presentato controricorso il solo Ministero dell’interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 392 c.p.c., nullità o estinzione del procedimento e nullità della sentenza. Assumono i ricorrenti che il Ministero aveva depositato ricorso in riassunzione in data 10 dicembre 2015 e aveva consegnato all’ufficiale giudiziario addetto alla Corte di appello l’originale del ricorso e del decreto di fissazione di udienza solo in data 11 gennaio 2016, quando era decorso il termine perentorio di tre mesi per la riassunzione: infatti – aggiungono – il giudizio di rinvio avrebbe dovuto avviarsi con citazione da notificarsi entro il 22 dicembre 2015.

1.1. – Il motivo non ha fondamento.

In termini generali, è jus receptum che, in caso di cassazione con rinvio, la riassunzione debba attuarsi nella medesima forma con cui si introduce il giudizio di merito (Cass. 19 marzo 2014, n. 6298, per i giudizi elettorali; Cass. 12 aprile 2012, n. 5777, in materia di lavoro; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21255, in tema di equa riparazione; Cass. 20 luglio 2004, n. 13422, in materia di separazione e divorzio).

Il procedimento di cui all’art. 143, comma 11, t.u.e.l. è regolato dal libro IV, titolo II, capo VI del codice di procedura civile. Si esclude, tuttavia, che, con riferimento a tale procedimento, possa trovare applicazione, in primo grado, la regola posta dall’art. 737 c.p.c., che individua nel ricorso l’atto introduttivo del procedimento in camera di consiglio (cfr., in tema, le posizioni, pur contrastanti, di Cass. 29 luglio 2015, n. 16048, secondo cui rileverebbe, al riguardo, la memoria dell’Avvocatura dello Stato, che rappresenta in giudizio il Ministero dell’interno, e di Cass. 11 gennaio 2017, n. 516, che attribuisce invece centralità alla trasmissione, da parte dello stesso Ministero, della proposta di scioglimento al tribunale competente per territorio).

La circostanza non è peraltro decisiva, ai fini che qui interessano. Infatti, il modello processuale richiamato dall’art. 143, comma 11, cit. consente di individuare la tipologia di atto con cui va introdotto il giudizio di rinvio: che è, per l’appunto, il ricorso, tale essendo, per regola generale, la forma dell’atto introduttivo dei procedimenti camerali, non solo in primo grado (art. 737 c.p.c.), ma anche nella fase di impugnazione (art. 739 c.p.c.).

Va rammentato, in proposito, che, secondo quanto è previsto dall’art. 394 c.p.c., comma 1, “(I)n sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Corte ha rinviato la causa”: sicchè, in presenza di una impugnazione da introdursi con ricorso, il giudizio di rinvio presso il giudice del gravame dovrà prendere le mosse da un atto che abbia quella forma. Come osservato in passato da questa Corte, la previsione dell’art. 392 c.p.c., comma 2, è destinata infatti ad avere applicazione, alla stregua di norma di carattere generale, quante volte essa non trovi deroga nel disposto dell’art. 394 c.p.c., comma 1, (Cass. 20 luglio 2004, n. 13422 cit.). Il fatto che l’art. 392 c.p.c., comma 2, preveda che la riassunzione si faccia con citazione non implica, allora, le conseguenze che gli istanti ritengono di individuare.

In ragione di quanto fin qui osservato, l’atto di riassunzione risulta essere dunque tempestivo.

2. – Col secondo mezzo è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c. ed eccepita l’estinzione del procedimento. Deducono i ricorrenti che il Ministero dell’interno avrebbe dovuto notificare l’atto di riassunzione anche alla Procura generale presso la Corte di appello di Catanzaro, che aveva proposto il ricorso per cassazione; in mancanza di ciò, la Corte del rinvio avrebbe dovuto disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tale ufficio.

2.1. – La censura è inammissibile.

L’omessa partecipazione del pubblico ministero alla precedente fase del presente giudizio dà luogo a nullità della sentenza che si converte, ai sensi degli artt. 158 e 161 c.p.c., in motivo di impugnazione: il vizio, tuttavia, può essere fatto valere solo dalla parte pubblica, dovendosi escludere che sussista una concorrente legittimazione delle altre parti (cfr. in tema Cass. 17 luglio 2014, n. 16361).

3. – Il terzo motivo oppone l’errata o falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., nonchè l’erronea interpretazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 22, comma 10, e la carenza di legittimazione ad agire della Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro. Rilevano gli istanti che, secondo quanto affermato da questa S.C. in una recente pronuncia (sentenza n. 11994 del 2016), l’art. 143 t.u.e.l. non prevede legittimazione alcuna in capo alla Procura generale presso la Corte di appello, onde l’unico soggetto legittimato a proporre, in primo grado, l’istanza volta alla dichiarazione di incandidabilità è il Ministero dell’interno, potendo l’eventuale iniziativa dell’ufficio di Procura valere, al più, quale sollecitazione all’esercizio dei poteri ufficiosi da parte dell’organo legittimato, o alla trattazione con il rito camerale del procedimento già avviato dal giudice. Sul punto i ricorrenti invocano i principi operanti in tema di giudicato e, segnatamente, la regola per cui il secondo giudicato (nella specie: quello derivante dalla pronuncia richiamata) prevale sul primo (quello formatosi nel presente giudizio).

3.1. – Il motivo deve essere disatteso.

Non può certo configurarsi contrasto di giudicati quando le decisioni in conflitto riguardano, come nel caso in esame, soggetti differenti. E’ poi precluso ai ricorrenti dedurre, in questa sede, la questione afferente il potere di impugnazione del pubblico ministero, giacchè essa è stata decisa da questa Corte, nell’ambito del presente giudizio, con la sentenza n. 18697/2015: su di essa è dunque caduto il giudicato interno.

4. – Il quarto motivo propone una questione di costituzionalità dell’art. 143, comma 11 t.u.e.l., in relazione agli artt. 3 e 51 Cost.. Ricordano i ricorrenti che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 141 del 1996, ha stabilito che soltanto una sentenza irrevocabile possa giustificare l’esclusione del cittadino da una competizione elettorale diretta al conferimento di una carica politica o amministrativa, posto che la sancita ineleggibilità assumerebbe i caratteri di una sanzione anticipata, qualora fosse disposta in assenza di una condanna irrevocabile. Osservano che il provvedimento relativo all’incandidabilità degli amministratori locali viene adottato in assenza di fatti aventi rilevanza penale e che, in tal modo, ai predetti soggetti è precluso, seppure per un turno, l’esercizio del diritto di elettorato passivo che trova il suo fondamento nell’art. 51 Cost..

4.1. – La questione di legittimità costituzionale, che investe la norma di cui ha fatto applicazione la Corte di appello per affermare la incandidabilità degli odierni ricorrenti, è manifestamente infondata.

Come hanno di recente osservato le Sezioni Unite di questa Corte, “la misura interdittiva della incandidabilità dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso o similare nel tessuto istituzionale locale, privando temporaneamente il predetto soggetto della possibilità di candidarsi nell’ambito di competizioni elettorali destinate a svolgersi nello stesso territorio regionale, rappresenta un rimedio di extrema ratio volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare, e a salvaguardare così beni primari dell’intera collettività nazionale – accanto alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni comunali nonchè il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, capaci di alimentare la “credibilità” delle amministrazioni locali presso il pubblico e il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni -, beni compromessi o messi in pericolo, non solo dalla collusione tra amministratori locali e criminalità organizzata, ma anche dal condizionamento comunque subito dai primi, non fronteggiabile, secondo la scelta non irragionevolmente compiuta dal legislatore, con altri apparati preventivi o sanzionatori dell’ordinamento” (Cass. Sez. U. 30 gennaio 2015, n. 1747; nel medesimo senso della manifesta infondatezza, cfr. Cass. 19 gennaio 2017, n. 1333).

5. – Il quinto mezzo è rubricato facendo riferimento al “merito” e alla contraddittorietà della motivazione. Il mezzo contiene censure afferenti gli apprezzamenti spesi dal giudice del rinvio sugli elementi di fatto portati al suo esame e si fonda sul rilievo per cui, venendo in questione la materia elettorale, sarebbe possibile, in questa sede, il riesame del merito della decisione assunta dalla Corte di Catanzaro.

5.1. – Il motivo è inammissibile.

L’istante muove dall’assunto secondo cui in materia elettorale la Corte di legittimità sarebbe anche giudice del merito. Per contro, nel giudizio ordinario di legittimità, la decisione del merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., è consentita solo quando non siano necessarie ulteriori verifiche in fatto, potendo la S.C. sindacare unicamente la corretta qualificazione giuridica dei fatti come accertati dal giudice di merito; nel giudizio elettorale la decisione di merito è necessaria, prevedendosi che la Corte di cassazione, quando accoglie il ricorso, corregga il risultato delle elezioni e sostituisca ai candidati illegalmente proclamati coloro che hanno diritto di esserlo: ma ciò non implica che in sede di legittimità siano deducibili vizi suscettibili di essere fatti valere avanti al giudice del merito, dovendo il sindacato della Corte fondarsi esclusivamente sul giudizio fattuale già compiuto con la sentenza impugnata, che è incensurabile da parte di un giudice pacificamente privo di poteri istruttori (Cass. 13 maggio 2016, n. 9883). Nè in questa sede può essere sollevato il vizio di contraddittorietà della motivazione, giacchè nella nuova formulazione del cit. n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, è mancante ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054):

situazioni che nella fattispecie non ricorrono.

6. – Il sesto motivo lamenta, in sintesi, l’improprio regolamento delle spese processuali: si dolgono i ricorrenti che il Ministero era risultato virtualmente soccombente e che alla luce della novità dei temi trattati poteva disporsi la compensazione delle spese di giudizio.

6.1. – Anche tale motivo è inammissibile.

Premesso che in tema di spese processuali la soccombenza deve essere stabilita in base ad un criterio unitario e globale (Cass. 19 agosto 2013, n. 19158; Cass. 23 agosto 2011, n. 17523), è indubbio che gli odierni ricorrenti lo fossero. Va allora segnalato che, in tema di spese, e per quanto qui rileva, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, onde esula dai limiti posti all’accertamento di legittimità e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20145; Cass. 28 agosto 2004, n. 17220).

7. – Il ricorso è respinto.

8. – Le spese del giudizio di legittimità vanno riversate sui ricorrenti, in quanto soccombenti.

Risultando il procedimento esente, non si applica il D.P.R. n. 110 del 2002, art. 13, comma 1, quater.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre oneri accessori e rimborso delle spese generali in ragione del 15%.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2017

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