Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19019 del 31/07/2017


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Cassazione civile, sez. I, 31/07/2017, (ud. 29/05/2017, dep.31/07/2017),  n. 19019

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco A. – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24032/2011 proposto da:

Macchia S.r.l., in persona dei legali rappresentanti pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Corso Vittorio Emanuele II n.269,

presso l’avvocato Vaccarella Romano, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Del Corso Silvia, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.E.M.E.S. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via Po n.9, presso l’avvocato

Napolitano Francesco, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato Muccari Pierluigi, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 589/2011 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 28/04/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/05/2017 dal cons. FALABELLA MASSIMO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto dl ricorso;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato Vaccarella Romano, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato Massimo Boggia (con delega

orale come dichiara) che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – In data 26 giugno 2007 Macchia s.r.l. citava in giudizio avanti alla Corte di appello di Firenze C.E.M.E.S. s.p.a. impugnando il lodo arbitrale pronunciato tra le parti il 30 marzo 2007: lodo con cui era stata definita una controversia relativa a due rapporti di appalto; Macchia era risultata vittoriosa con riferimento ad una vertenza e soccombente con riguardo all’altra. Il lodo, relativamente a quest’ultima controversia, aveva accertato che la committente C.E.M.E.S. non era tenuta al pagamento del corrispettivo e aveva inoltre condannato l’appaltatrice Macchia al risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale, liquidandoli in Euro 46.100,00.

Con sentenza non definitiva la Corte di Firenze accoglieva il motivo di impugnazione con cui Macchia aveva lamentato una inversione dell’onere probatorio in materia di decadenza per i vizi dell’opera.

Con successiva pronuncia del 28 aprile 2011 il giudice distrettuale rigettava, poi, la domanda di Macchia avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo e il risarcimento dei danni.

2. – Ricorre per cassazione contro detta sentenza Macchia s.r.l.. Resiste con controricorso C.E.M.E.S. s.p.a..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 1665,1667,2697,2727 e 2729 c.c., oltre che omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Rileva la ricorrente che nella fattispecie doveva trovare applicazione la presunzione legale di accettazione dell’opera di cui all’art. 1665 c.c., comma 4, onde sul committente ricadeva l’onere di provare di aver formulato riserve al momento della consegna dell’opera. Osserva, inoltre, che risultavano accertate le seguenti circostanze: l’ultimazione dei lavori alla data del 30 dicembre 2003; l’effettuazione di numerosi altri lavori, da parte di C.E.M.E.S. o di altre imprese da essa incaricate, idonei a danneggiare la copertura impermeabilizzante realizzata da essa ricorrente; la proposizione, dopo soli 84 giorni dalla conclusione dei suddetti lavori di copertura, di un procedimento di accertamento tecnico preventivo da parte della committente. Lamenta in proposito Macchia che la Corte di merito non aveva dato conto del perchè l’esecuzione dei lavori seguiti alla impermeabilizzazione non valessero a concretare l’esistenza di fatti concludenti indicativi del gradimento dell’opera da parte della committente: gradimento che finiva per risolversi in una vera e propria accettazione dell’opera.

Il motivo non ha fondamento.

La Corte di merito ha accertato non esservi stata accettazione dell’opera: ha evidenziato, in proposito, che in data 7 agosto 2003, 9 settembre 2003 e 10 novembre 2003 C.E.M.E.S. aveva contestato l’esistenza delle infiltrazioni e che il 24 marzo 2004 la stessa committente aveva introdotto il giudizio per accertamento tecnico preventivo, che costituiva prologo del giudizio arbitrale. Ha aggiunto che nulla induceva a ritenere si fosse “verificata una accettazione, ancorchè tacita, dell’opera” tra le contestazioni iniziali e la proposizione della domanda cautelare.

Come è noto, occorre distinguere tra atto di “consegna” e atto di “accettazione” dell’opera: la consegna costituisce un atto puramente materiale che si compie mediante la messa a disposizione del bene a favore del committente, mentre l’accettazione esige, al contrario, che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale che comporta effetti ben determinati, quali l’esonero dell’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera ed il conseguente suo diritto al pagamento del prezzo (Cass. 21 giugno 2013, n. 15711; Cass. 17 giugno 2004, n. 11349; Cass. 12 maggio 2003, n. 7260). L’art. 1665 c.c., poi, pur non enunciando la nozione di accettazione tacita dell’opera, indica i fatti e i comportamenti dai quali deve presumersi la sussistenza dell’accettazione da parte del committente e, in particolare, al quarto comma, prevede come presupposto dell’accettazione (da qualificare come tacita) la consegna dell’opera al committente (alla quale è parificabile l’immissione nel possesso) e come fatto concludente la ricezione senza riserve da parte di quest’ultimo, anche se non si sia proceduto alla verifica. La concreta esistenza di tali circostanze costituisce, poi, una quaestio facti rimessa all’apprezzamento del giudice del merito (Cass. 7 aprile 2000, n. 4353; Cass. 20 aprile 1994, n. 3742).

L’accertamento compiuto dalla Corte distrettuale quanto all’intervento di un’accettazione tacita dell’opera non è quindi sindacabile nella presente sede. Non lo è nemmeno sotto il profilo del vizio di motivazione. E’ noto, infatti, che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357). Col ricorso per cassazione non può quindi farsi valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte Nè può invocarsi un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti: tali, aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata; in caso contrario, il motivo di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394).

2. – Il secondo mezzo lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 1218,1453,1460 e 2697 c.c., oltre che omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Osserva la ricorrente che si era tratto riscontro dell’esistenza di lavori, da parte di C.E.M.E.S., o di terzi soggetti da questa incaricati, di ulteriori lavori sulla terrazza di copertura; sostiene la medesima istante che la causa delle infiltrazioni era da individuarsi proprio nell’esecuzione di tali interventi, successivi all’opera di impermeabilizzazione. La Corte di appello avrebbe dovuto quindi interrogarsi su chi gravasse l’onere della prova circa l’esecuzione a regola d’arte dei lavori successivi all’intervento posto in atto da essa ricorrente. Il riversare su Macchia la prova della dannosità dei lavori eseguiti o fatti eseguire da C.E.M.E.S. risultava d’altro canto contrastante non solo con gli insegnamenti di Cass. Sez. U., 30 ottobre 2001, n. 13533, ma anche con il principio di vicinanza della prova, il quale impone che l’onere probatorio sia ripartito tenendo conto della concreta possibilità di dare dimostrazione dei fatti e delle circostanze che ricadono nella sfera d’azione del soggetto che ne è onerato.

Nemmeno tale motivo è fondato.

La Corte territoriale dopo aver evocato il principio per cui era l’odierna ricorrente, quale debitrice, a dover dimostrare l’esatto adempimento (e quindi che le infiltrazioni erano dovute all’intervento di terzi sui lavori di impermeabilizzazione da esse eseguiti), ha richiamato le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio e il rilievo ivi espresso secondo cui le prove effettuate non consentivano di individuare con assoluta certezza le cause dell’infiltrazione, sicchè non poteva affermarsi che questa fosse imputabile a C.E.M.E.S. o a terzi; la stessa Corte di merito ha poi evidenziato come il consulente avesse appurato che le modalità di esecuzione dell’opera non risultassero conformi ai principi di buona tecnica.

Ciò posto, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del principio, che si conforma a quello, fondamentale, di Cass. Sez. U., 30 ottobre 2001, n. 13533, per cui le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all’art. 1667 c.c., ma non derogano al principio generale che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, il quale comporta che l’appaltatore, il quale agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto, abbia l’onere – allorchè il committente sollevi l’eccezione di inadempimento di cui al terzo comma di detta disposizione – di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte (Cass. 20 gennaio 2010, n. 936; cfr. pure Cass. 13 febbraio 2008, n. 3472). Competeva infatti all’appaltatore provare di aver adempiuto in modo diligente alla propria obbligazione (anche ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria, come precisato dalle Sezioni Unite): ciò che non è evidentemente avvenuto, in quanto, come si è visto, la Corte di merito ha accertato che l’opera non risultava eseguita nell’osservanza dei principi di buona tecnica: profilo, quest’ultimo, non specificamente censurato. Nè il portato di tale affermazione può essere in alcun modo ridimensionato, non essendosi accertato che l’infiltrazione fosse dovuta ai successivi interventi.

3. – Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., oltre che della omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Osserva, in sintesi, che avendo C.E.M.E.S. o i terzi da questa incaricati eseguito opere in un momento successivo al completamento della impermeabilizzazione, doveva presumersi un concorso di colpa della controricorrente nella causazione del danno. Ove, anzi, la committente avesse effettuato, prima di eseguire le nuove opere murarie, il collaudo, ovvero le prove tecniche di tenuta, i lamentati danni si sarebbero con certezza evitati: sotto tale specifico riflesso, quindi, Macchia invoca l’applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 2.

Il motivo è inammissibile, in quanto riflette questioni nuove, di cui la sentenza impugnata non tratta e di cui non si chiarisce in quale specifico atto della precorsa fase processuale siano state dedotte (in tema: Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391).

Peraltro, un problema di concorso del committente nella produzione del danno (ex art. 1227 c.c., comma 1) è da escludersi, e ciò in ragione dell’accertata addebitabilità del danno alla ricorrente, secondo quanto esposto trattando del secondo motivo.

4. – In conclusione, il ricorso è rigettato.

5. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre oneri accessori e rimborso delle spese generali in ragione del 15%.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2017

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