Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19017 del 02/09/2010

Cassazione civile sez. II, 02/09/2010, (ud. 09/06/2010, dep. 02/09/2010), n.19017

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ASS. MAMME ANTIFASCISTE DEL LEONCAVALLO PER I CENTRI SOCIALI

AUTOGESTITI – ONLUS (OMISSIS), in persona del Presidente

Sig.ra C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DI PORTA PINCIANA 6, presso lo studio Associato MUNARI GIANNI

rappresentata e difesa dagli avvocati MUNARI ALESSANDRO, PINTUS

LORENZO;

– ricorrente –

contro

L’OROLOGIO SRL P.IVA (OMISSIS);

– intimato –

e sul ricorso n. 9880/2005 proposto da:

L’OROLOGIO SRL P.IVA (OMISSIS), in persona dell’Amministratore

Unico e legale rappresentante rag. C.M., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA ANDREA VESALIO 22, presso lo studio

dell’avvocato IRTI NATALINO, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato LOMBARDI GIUSEPPE;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

ASS MAMME ANTIFASCISTE LEONCAVALLO CENTRI SOCIALI AUTOGESTITI ONLUS

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PORTA

PINCIANA 6, presso lo studio MUNARI GIANNI, rappresentato e difeso

dagli avvocati PINTUS LORENZO, MUNARI ALESSANDRO;

– controricorrente al ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 2852/2004 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 05/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito l’Avvocato MUNARI Alessandro difensore del ricorrente che si

riporta agli atti;

udito l’Avvocato DITTRICH Lotario con delega depositata in udienza

dell’Avvocato Giuseppe LOMBARDI difensore del resistente che si

riporta agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto del ricorso principale,

assorbito il ricorso incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato in data 13.4.2001 la societa’ L’Orologio s.r.l., quale proprietaria di un complesso immobiliare sito in (OMISSIS), gia’ adibito a stamperia, che nel settembre 1994 era stato occupato da giovani frequentatori del Centro Sociale Leoncavallo, a seguito del subito sgombero dalla sede originaria dello stesso, convenne al giudizio del Tribunale di quella citta’ l’Associazione Mamme Antifasciste de Leoncavallo per i Centri Sociali Autogestiti, nella quale si erano organizzati parte degli occupanti, nonche’ il Centro Sociale Leoncavallo, al fine di sentirli condannare al rilascio dell’immobile ed al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede. Costituitasi la prima convenuta, chiese in via preliminare l’integrazione del contraddicono nei confronti di tutte le altre associazioni in cui si erano organizzati gli occupanti e, nel merito, il rigetto della domanda, eccependo la legittimita’ della detenzione, in virtu’ di titolo costituito dalle trattative che, durante il periodo dell’occupazione, erano intercorse con la proprietaria dell’immobile al fine della stipula di un contratto di locazione, i cui effetti erano stati anticipati concedendo ai futuri conduttori la possibilita’ di godimento. Con sentenza 13 – 18.3.03 l’adito tribunale, esclusa la sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, dichiarata inammissibile la domanda contro il contumace Centro Sociale Leoncavallo. per difetto di capacita’ processuale dello stesso, e ritenuta l’abusivita’ della detenzione. la cui protrazione era dovuta a mera tolleranza da parte della costituita associazione, condanno’ quest’ultima al rilascio dell’immobile, al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede ed alle spese del giudizio.

Proposto appello dalla soccombente, resistito, con proposizione di gravame incidentale, dall’appellata societa’, con sentenza 26.10 – 5.11.04 la Corte di Milano respingeva l’uno e l’altro gravame e condannava l’appellante principale alle spese.

Tali, in sintesi, le ragioni della suddetta decisione:

a) non sussisteva litisconsorzio necessario da lato passivo tra la convenuta ed altre associazioni occupanti, non potendosi configurare alcuna ipotesi di rapporto plurisoggettivo tra le varie associazioni occupanti per l’autonomia delle singole condotte illecite e la scindibilita’ delle relative responsabilita’ extracontrattuali, con conseguente facolta’ della proprietaria di agire, a sua scelta, contro soltanto una o alcune e non necessariamente tutte le stesse;

b) andava confermato il difetto di legittimazione, della cui dichiarazione l’attrice si era doluta nell’appello incidentale, del Centro Sociale Leoncavallo, non essendo risultato tale organismo in possesso dei requisiti minimi (segnatamente presenza di un atto costitutivo o statuto, eventuale accordo tra tutti o alcuni degli occupanti di consociarsi, sia pure in “forme minime e rudimentali”, in un organismo cosi’ denominato) perche’ potesse, ex art. 36 c.c. e ex art. 75 c.p.c., riconoscersi una relativa capacita’ processuale);

c) la pendenza, pur provata, delle trattative tra gli occupanti, in particolare l’associazione convenuta e la societa’ proprietaria, finalizzate ad una eventuale locazione dell’immobile non integrava un titolo legittimante la protrazione della detenzione, che solo in tale prospettiva, poi non concretizzatasi, era stata, dopo la subita e denunciata occupazione, tollerata; d) ne’ poteva, dal contenuto di due lettere, la prima de 15.9 e la seconda del 14.11.1994, desumersi gli estremi di un accordo locatizio, trattandosi soltanto di comunicazioni al competente assessorato del Comune di Milano, dalle quali era possibile desumere che la societa’ proprietaria della struttura, per ragioni di “tolleranza civile, costruttiva e sensibile alle istanze sociali sottese alla vicenda”, in vista di una possibile soluzione legittima della stessa, aveva temporaneamente acconsentito all’ulteriore presenza dei giovani nel complesso, consenso poi venuto meno, come emergente da successive comunicazioni del 22.10 e 14.11.97; e) neppure nella successiva, congiunta lettera delle parti in data 1.12.97 inviata al medesimo assessorato, era possibile individuare gli estremi di un contratto di locazione, trattandosi di documento nel quale le stesse facevano presenti alla suddetta autorita’ alcune clausole che avrebbero potuto improntare il futuro, poi non realizzato, accordo, nell’ipotesi in cui vi fosse stato un intervento di finanziamento a favore dell’associazione, priva di mezzi per far fronte agli oneri dell’eventuale locazione; f) la condanna generica al risarcimento dei danni, quanto meno relativamente al periodo 1998 – 2003, era giustificata a causa della subita indisponibilita’ dell’ex stamperia per effetto del protrarsi della non piu’ tollerata occupazione; g) inammissibili erano, infine, le richieste istruttorie dell’appellante, perche’ generiche, equivoche e demandanti sostanziali giudizi ai testi, ivi comprese quelle relative ad assunte opere additive e di miglioramento apportate all’immobile, che, non avendo formato oggetto di domanda riconvenzionale, ben avrebbero potuto essere riproposte e meglio specificate nel separato giudizio, conseguente alla generica condanna risarcitoria; ne’ poteva ammettersi ai fini essenzialmente esplorativi, la pur richiesta consulenza tecnica di ufficio.

Avverso tale sentenza l’associazione soccombente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi ha resistito la societa’ intimata con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato; a quest’ultimo ha replicato, con controricorso ex art. 371 c.p.c., comma 4, la ricorrente principale. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c.. Con il primo motivo di quello principale vengono dedotte “violazione e/o errata applicazione dei principi generali e delle norme in tema di ammissione dei mezzi di prova e, in particolare, degli artt. 184, 244 e 253 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nonche’ omessa insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo ad un punto decisivo della controversia, prospettato dalla parte, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, con riferimento al mancato accoglimento delle istanze di ammissione delle prove testimoniali, contenute in due memorie, nonche’ al diniego di ammissione della consulenza tecnica di ufficio. Quanto alla prova testimoniale, i cui capitoli vengono riportati nel mezzo d’impugnazione, si lamenta che la relativa disamina non avrebbe dovuto essere condotta con criteri puramente formalistici, “bensi’ alla stregua della formulazione letterale dei capitoli di prova e ponendo il loro contenuto in relazione agli altri atti di causa ed alle deduzioni delle parti, nonche’ tenendo conto della possibilita’ di poter chiedere chiarimenti e precisazioni ai testi, ai sensi dell’art. 253 c.p.c.”, principio disatteso nel caso di specie, sebbene la relativa osservanza si imponesse con maggior evidenza, attenendo la prova “ad un’attivita’ che si fraziona in circostanze molteplici come tipicamente avviene nell’ambito dello svolgimento di una trattativa”, la cui pendenza si sarebbe voluto dimostrare anche al fine di comprovare la liceita’ della detenzione.

Si contesta pertanto, l’assunta genericita’ dei capitoli, l’affermazione che gli stessi demanderebbe giudizi ai testimoni che sarebbe priva di motivazione, cosi’ come l’altra, secondo la quale le circostanze articolate sarebbero “smentite da documenti hinc et inde prodotti”.

Per quanto attiene alla mancata ammissione della consulenza tecnica, si sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte di merito, la finalita’ della stessa non sarebbe stata meramente “esplorativa”, in difetto di ulteriori elementi di prova, essendo invece la richiesta finalizzata ad accertare l’entita’ ed il valore delle opere eseguite sull’immobile tra il 1996 ed il 2001, in ordine alle quali era gia’ stata prodotta una perizia di parte, attestante l’esecuzione di lavori per complessivi Euro 848.481,60, documento il cui mancato esame integrerebbe vizio di motivazione su punto decisivo. Il motivo e’ infondato sotto entrambi i dedotti profili.

Per quanto attiene alla prova testimoniale, la cui valutazione di ammissibilita’ e rilevanza, alla stregua dei criteri cui deve rispondere la relativa articolazione, costituisce espressione di un giudizio di merito, che se adeguatamente motivato ed esente errori giuridici o incongruenze logiche, sottrae al sindacato di legittimita’ (v. tra le altre Cass. 18222/04), deve rilevarsi che nel caso di specie il giudizio d’inammissibilita’ risulta correttamente formulato, considerato che effettivamente le circostanze, riportate nel mezzo d’impugnazione, su cui la parte convenuta avrebbe voluto espletare la prova, o attengono a fatti incontroversi (laddove si riferiscono alle alterne vicende occupative, alle attivita’ e manifestazioni culturali svolte nel complesso occupato, allo svolgimento di trattative tra gli occupanti e la societa’ proprietaria, ad interessamenti di autorita’ o relative sollecitazioni), oppure si risolvono in espressioni di sostanziali giudizi, di contenuto valutativo o interpretativo, eccedenti dai limiti entro i quali i testimoni possono essere chiamati a deporre.

La prova testimoniale, invero, deve avere ad oggetto fatti e non apprezzamenti non potendo demandarsi ai testi l’interpretazione di accadimenti, suscettibili di valutazione giuridica, senza l’indicazione di dati obiettivi e modalita’ specifiche di verificazione delle situazioni concrete.

Deve pertanto ritenersi corretta l’esclusione dell’ammissibilita’ dei capitoli di prova con i quali si sarebbe voluto far riferire ai testimoni che tra la societa’ attrice e l’associazione convenuta sarebbe intervenuto un, non meglio precisato, “consenso” o “accordo”, vale adire quell’incontro definitivo delle volonta’ tale da determinare il perfezionamento del contratto ai sensi dell’art. 1326 c.c., senza anche specificare attraverso quali concreti comportamenti, diversi da quelli desumibili dagli atti scritti prodotti (oggetto del successivo motivo di ricorsole parti, mediante i rispettivi organi rappresentativi, ne’ in quali particolari circostanze di tempo e luogo, fossero addivenute alla concreta accettazione, portata a conoscenza della proponente, di una proposta di “contrattualizzazione” di quella detenzione, sorta a seguito dell’occupazione dalla parte attrice fino a quel momento subita, quand’anche con comportamento remissivo o dilatorio, in attesa di possibili sviluppi negoziali o interventi pubblici risolutivi.

Ne’ producente risulta l’operato richiamo alla giurisprudenza in tema di ammissibilita’ della prova testimoniale relativa “a comportamenti ed attivita’ che si frazionano in accadimenti e circostanze molteplici”(v. Cass. 11844/06, 5842/02, 4426/95), quali sarebbero state le trattative nella specie intercorse, posto che dello svolgimento di queste ultime, oltretutto pacifiche, i giudici di merito hanno dato ampiamente atto sulla scorta della copiosa documentazione acquietaticene tali risultanze i testi sarebbero stati sostanzialmente ed inutilmente chiamati soltanto a confermare, e non anche ad integrare, non cogliendosi nelle articolate circostanze alcun dato obiettivo e storico idoneo a suffragare la tesi che quelle trattative, pur intense e documentate, fossero approdate ad un concreto, definitivo e vincolante accordo negoziale nei termini sopra precisati, salvo a non voler demandare il relativo apprezzamento ai testimoni, facendo toro riferire del raggiunto “consenso” ossia chiamandoli ad esprimere una valutazione prettamente giuridica.

Quanto alla mancata ammissione della consulenza tecnica, diretta ad accertare e quantificare le opere di manutenzione e miglioramento eseguite nell’immobile, la corte di merito ha spiegato che, in mancanza di una domanda riconvenzionale ad oggetto dei relativi rimborsi, l’espletamento di un tale incombente istruttorio sarebbe stato irrilevante. Tale argomentazione, a prescindere dalla confutata qualificazione “esplorativa” della richiesta, risulta corretta e, peraltro, neppure viene specificamente censurata nel mezzo d’impugnazione, che pertanto, sotto tal profilo, va ritenuto inammissibile, cosi’ come nella parte in cui si duole del mancalo esame della perizia di parte, non attenendo il non valutato documento ad un punto rilevante e decisivo della controversia.

Con il secondo motivo si deduce “violazione e/o errata applicazione dell’art. 1362 c.c. e, in genere, delle norme e principi basilari in materia di contratti… non che carenza, insufficienza e/o contraddittorieta’ di motivazione”, per aver escluso la natura contrattuale della prodotta lettera del 1.12.1997, sulla scorta di erronea l’interpretazione della stessa che sarebbe stata inficiata da un radicale errore ermeneutico consistito nell’aver disatteso il basilare principio secondo cui il senso letterale delle espressioni contenute nell’atto, quando siano chiare ed inequivoche, costituisce lo strumento prioritario per l’accertamento della volonta’ dei contraenti. Tale volonta’ sarebbe stata nel caso di specie, con evidenza tale da non consentire dubbi di sorta e da escludere il ricorso ad ogni altro criterio interpretativo, espressa dalle parti sottoscriventi laddove le stesse avrebbero comunicato di aver concordato una “soluzione transitoria in guisa che venga perfezionata quella definitiva, consistente nella realizzazione del Progetto..” ed “individuata nella concessione dei beni in questione in locazione all’Associazione ad un canone in linea con le indicazioni fornite dalla proprieta’ con lettera del 27 novembre u.s. “prevedendo anche la facolta’ di recesso” da esercitarsi in qualsiasi momento con un preavviso di sei mesi ed un diritto di opzione per l’acquisto dell’immobile da esercitarsi entro 6 anni ad un prezzo da predeterminarsi”. La completezza della pattuizione, nell’ambito della quale il canone, sarebbe non ancora determinato, sarebbe stato comunque determinabile per relationem a preesistenti scritture inter partes avrebbe comportato la chiara evidenza di una compiuta pattuizione locatizia, che la corte di merito, ravvisando una mera “puntuazione” (perche’ le parti avevano coniugato i verbi al condizionale ed al futuro), non avrebbe colto, cosi’ disattendendo il principio giurisprudenziale secondo cui, in presenza di un documento contenente un accordo, l’onere della prova della mera natura preparatoria dello stesso, atta a superare la presunzione di perfezionamento del contratto, incombe sulla parte che la deduca.

Quanto ai vizi della motivazione, gli stessi deriverebbero, segnatamente, dall’avere i giudici di merito disatteso il principio in claris non fu intepretatatio, derivante dall’art. 1362 c.c., comma 1 senza dar conto delle eventuali ragioni dell’insufficienza o dell’equivocita’ delle espressioni adoperate dalle parti al riguardo ricorrendo ad una sbrigativa e rapida affermazione, secondo cui sarebbe stato “sufficiente esaminare ..in dettaglio il documento per rendersi conto che lo stesso le parti lo avevano redatto esclusivamente per fare il punto delle situazione”. Il motivo e’ infondato sotto ogni profilo.

Ribadito il ben noto e consolidato principio, secondo il quale l’interpretazione degli atti costituisce un compito demandato esclusivamente al giudice di merito, il cui concreto esercizio non puo’ essere censurato in sede di legittimita’ e non in presenza di palese malgoverno dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 1362 c.p.c. e segg., oppure per carenze o illogieita’, desumibili dal testo stesso della motivazione e tali da non consentire l’individuazione dell’iter argomentativo seguito, risulta evidente come, nel caso di specie, le censure esposte si risolvano in un tentativo di accreditare una diversa interpretazione delle risultanze processuali, difforme da quella adottata dalla corte territoriale, senza aver tuttavia evidenziato alcuno dei vizi sopra menzionati, ma soltanto proponendo un raffronto comparativo tra la tesi ermeneutica esposta e quella cui sono approdati i giudici di merito. Ma tanto non e’ consentito nella presente sede di legittimita’, nella quale il vaglio critico va limitato all’intrinseca validita’ del modulo argomentativo prescelto dal giudice a quo, in se’ considerato, e non anche alla valutazione della maggiore o minore plausibilita’ delle tesi recepita, rispetto a quella disattesa e riproposta con l’impugnazione.

Non sussiste, in particolare, alcuna violazione della basilare regola ermeneutica desumibile dall’art. 1362 c.c. e comunemente espressa dal citato brocardo in claris non fit interpretatio, poiche’, proprio dal tenore lessicale inequivoco delle espressioni adoperate dalle parti sottoscriventi, nella comune lettera de 1.12.1997 ed in quella, ivi richiamata, in data 27.11.97 della societa’, semanticamente espresso dalla coniugazione dei verbi all’indicativo futuro ed al condizionale presente (vi concederemo la riduzione.., “dovranno essere concordate le idonee garanzie… “, “saranno a carico del conduttore… “, “la locazione sarebbe soggetta… “, “verrebbero previsti …una facolta’ di recesso…un’opzione…” etc.) e dal conclusivo auspicio “che codesta Amministrazione voglia considerare favorevole mente l’iniziativa e rappresentarla alla Fondazione Cariplo” (tali significativi passi dei documenti sono riportati nello stesso ricorsola Corte d’Appello ha escluso la volonta’ delle parti di vincolarsi all’attualita’, in cui le capacita’ economiche della principale associazione degli occupanti non consentivano di far fronte agli oneri del prospettato rapporto locatizio, se non fossero intervenuti finanziamenti dall’esterno, desumendone solo l’avvenuto raggiungimento di una intesa in vista della possibilita’ che tale condizione si fosse verificata, in ordine alla determinazione per linee essenziali degli elementi salienti del futuro ed eventuale contratto. Tale interpretazione dell’atto in termini di mera “puntuazione” non contenente un regolamento definitivo del rapporto, ma solo un’intesa preparatoria raggiunta dalle parti, evidenzia pertanto una situazione nella quale, pur emergendo dallo stesso atto una pressocche’ completa indicazione degli elementi salienti del contratto, era tuttavia risultata superata, attraverso le stesse risultanze testuali, desumibili dalle altre parti del documento, quella presunzione semplice di avvenuta stipulazione del contratto che la corrente giurisprudenza ravvisa in siffatti casi, peraltro ribadendo anche al riguardo l’incensurabilita’ del risultato interpretativo raggiunto dal giudice di merito, ove risulti – come nella specie – adeguatamente motivato, nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e segg. ed esente da vizi logici (tra le altre. v. Cass. 910/05, 6871/04, 10276/02, 7857/97).

Con il terzo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione …dell’art. 1144 c.c. nonche’ omessa insufficiente e contraddittoria motivazione …”, censurandosi l’affermazione della corte territoriale, secondo cui la detenzione del complesso immobiliari da parte della ricorrente associazione sarebbe stata dovuta a tolleranza della proprietaria.

Tale argomentazione si porrebbe in contrasto con i principi giurisprudenziali richiedenti ai fini della configurabilita’ della tolleranza di cui all’art. 1144 c.c. gli estremi della modesta portata degli atti di godimento, tali da non incidere se non in maniera debole, sull’esercizio del diritto del proprietario, e della natura transitoria e saltuaria di tali atti. Ne’ l’uno, ne’ l’altro di tali connotati sarebbero stati presenti nel caso di specie, in cui gli occupanti avevano esercitato poteri di ampiezza e durata tali da comportare la sostituzione degli stessi, senza la relativa opposizione, alla proprietaria, non solo utilizzando per anni le infrastrutture e le utenze dell’immobile, ma anche compiendovi stessi importanti opere eccedenti la semplice manutenzione; in tale contesto la censurata qualificazione di tale godimento, oltre a porsi in contrasto con la citata disposizione civilistica, nella sua corrente accezione giurisprudenziale, sarebbe rimasta del tutto priva di adeguata motivazione.

Il motivo contiene censure irrilevanti, perche’ non attinenti ad argomentazioni essenziali della decisione, con la quale la corte di merito, dopo aver escluso che nel caso di specie potessero configurarsi gli estremi di un titolo, negoziale o prenegoziale, legittimante un diritto della convenuta alla detenzione del complesso immobiliare, il che era gia’ sufficiente a qualificare la stessa sine tilulo ed a giustificare le adottate statuizioni di condanna restitutoria e risarcitoria si e’ fatta anche carico pur non essendovene la necessita’ di fornire una spiegazione a quella protrazione di fatto dell’occupazione subita dalla proprietaria. A tal riguardo e’ stato solo evidenziato come quest’ultima, prima di intraprendere l’azione recuperatoria, avesse manifestato, in considerazione delle particolari motivazioni che avevano animato gli occupanti e di connesse esigenze etico – sociali, la propria disponibilita’ ad una composizione concordata e non traumatica della questione, prospettiva nella quale aveva, solo temporaneamente, consentito alla protrazione di uno stato di fatto, che comunque aveva avuto origine da un atto illecito e che continuava a subire. In siffatto contesto, la cui ricostruzione costituisce accertamento di fatto adeguatamente motivato e pertanto incensurabile nella presente sede, il termine “tolleranza” non puo’ essere inteso nella sua accezione strettamente tecnico – giuridica di cui all’art. 1144 c.c., ma soltanto quale espressione di un atteggiamento di paziente e temporanea attesa che la vicenda evolvesse, anche con l’auspicato concorso di autorita’ e finanziatori, verso una soluzione tale da consentire la legittima permanenza degli occupanti nell’immobile;

risulta pertanto inconferente ogni richiamo, contenuto nel mezzo d’impugnazione, a quelle definizioni giurisprudenziali degli atti di tolleranza, elaborate al precipuo fine di differenziare tali situazioni di precario e saltuario godimento da quelle di un vero e proprio possesso tutelabile.

Con il quarto motivo si impugna, per violazione e falsa applicazione dell’art. 278 c.p.c. e per omessa, carente e contraddittoria motivazione, la subita condanna generica al risarcimento dei danni per l’occupazione. Tale pronunzia, per quanto attiene al periodo compreso tra il 1994 ed il 1998, si porrebbe in contrasto con la stessa, pur censurata con il precedente motivo, affermazione della tolleranza da parte della proprietaria;per il successivo periodo, risulterebbe poi sostanzialmente immotivata, non essendo stati provati o evidenziati concreti danni, ma essendo anzi emerso che il complesso era stato oggetto di interventi migliorativi e per di piu’, che non sarebbe stato possibile data la contingente “crisi di mercato per immobili di questo tipo”, adibirlo “agevolmente ad altra diversa utilizzazione, senza interventi finanziari di notevole entita’ come rappresentato dall’amministratore delegato della societa’ attrice in carica in un verbale assembleare del 5.7.96, al fine di giustificare il ritardo nella richiesta di un provvedimento di sgombero; l’omesso esame di tale prodotto documento di decisiva rilevanza avrebbe integrato il vizio di omessa motivazione.

Anche tale motivo deve essere respinto.

L’occupazione di un bene immobile, di per se’ suscettibile di produrre reddito, con conseguente sottrazione del godimento dello stesso al proprietario, costituisce atto illecito produttivo di danno, da ritenersi sussistente in re ipsa, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, v.

827/06, 7692/01, 1360/01, 649/00), fermo restante l’onere da parte del soggetto passivo, ove la condanna non sia stata richiesta in forma generica e ne ricorrano le condizioni processuali, di fornire elementi al giudice ai fini della quantificazione del risarcimento.

Nel caso di specie, in cui non vi e’ stata un condanna quantificata, ne’ si controverte, in linea di principio, sulla sussistenza delle condizioni per l’adozione di una condanna generica al risarcimento dei danni, ma si contesta soltanto la concreta sussistenza di pregiudizi risarcibili, per contingenti ragioni di fatto, differenziate nelle diverse fasi in cui l’occupazione si e’ svolta, o si oppongono ragioni di compensazione, derivanti da spese e miglioramenti, all’avversa, ma non ancora quantificata, pretesa risarcitoria, le censure difettano di rilevanza, non attenendo alla tematica del giudizio svoltosi nei gradi merito, bensi’ a quella che dovra’ formare oggetto del futuro eventuale giudizio per la liquidazione dei danni. Tanto premessola ricorrente non ha alcun concreto interesse a dolersi dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale la sussistenza di danni “appare assai verosimile, quanto meno per il periodo 1998 – 2003 ..a causa della indisponibilita’ dell’ex stamperia per effetto del protrarsi dell’occupazione senza titolo che e’ valsa solo ad evidenziare come, in tale periodo, essendo cessata quella “tolleranza” della, pur impostale dalla controparte, privazione della disponibilita’ del bene, fosse particolarmente evidente quel pregiudizio patrimoniale, rispetto a quello pur patito nel precedente periodo, durante il quale il soggetto passivo non si era particolarmente attivato per il relativo recupero. Trattasi dunque di questioni relative alla quantificazione dei danni, che al pari delle ragioni che avrebbero indotto l’amministratore pro tempore a soprassedere da incisive azioni di recupero, riconoscendo interventi migliorativi compiuti nell’immobile dagli occupanti, che non escludono la dichiarata illegittimita’ della detenzione, in quanto instaurata e protrattasi senza titolo, pur essendosi temporaneamente il soggetto passivo della stessa, senza riconoscerne la legittimita’, astenuto dal promuovere azioni dirette a farla cessare. Il ricorso principale va, conclusivamente, respinto, quello incidentale resta assorbito. Le spese, infine, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE Riuniti i ricorsi, rigetta quello principale, dichiara assorbito l’incidentale e condanna la ricorrente principale al rimborso, in favore della resistente, delle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.200,00 di cui 200,00 per esborsi.

Cosi’ deciso in Roma, il 9 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2010

 

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