Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19002 del 14/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 14/09/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 14/09/2020), n.19002

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5452-2019 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OVIDIO 20,

presso lo studio dell’avvocato PIETRO RAIMONDO, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIUSEPPE PALERMO;

– ricorrente –

contro

ISOCASA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA FERRATELLA IN LATERANO

33, presso lo studio dell’avvocato FRANCO CONSOLI, rappresentata e

difesa dall’avvocato ELENA MARIA TERESA CALABRETTA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1772/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 17/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 07/07/2020 dal Presidente Relatore Dott. LUCIA

ESPOSITO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

Il Tribunale di Cosenza, rilevata la carenza di prova dei fatti costitutivi della pretesa, rigettava la domanda proposta da C.A. nei confronti di Isocasa s.r.l., volta a ottenere quanto dovuto per compenso mensile fisso e provvigioni non corrisposte in relazione a rapporto di agenzia intercorso tra le parti dal giugno 2011 al gennaio 2014, per un importo totale di Euro 21.273,82, e rigettava la domanda riconvenzionale avanzata dalla società, diretta alla restituzione della somma di Euro 856,13, corrisposta al C. dal cliente Ch.Be., mai rimessa alla società;

con sentenza del 17 gennaio 2019, la Corte d’Appello di Catanzaro confermava la decisione del Giudice di primo grado in relazione alla domanda principale, rilevando che, in contrasto con il divieto di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, con l’appello era stata chiesto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato piuttosto che di un rapporto di agenzia, con tentativo di mutare il titolo della pretesa e, in riforma della sentenza di primo grado, rilevava la parziale fondatezza della riconvenzionale, sulla scorta del rilievo che dalle dichiarazioni del C. risultava che egli aveva ricevuto dal Ch. per la società il complessivo importo di Euro 1.300,00, parte in contanti e parte mediante assegno, senza provare l’adempimento dell’obbligo di restituzione nei confronti della società, quanto all’importo dell’assegno (Euro 856,13);

avverso la sentenza propone ricorso per cassazione C.A. sulla base di quattro motivi;

resiste con controricorso la società;

la proposta del relatore è stata comunicata alle parti – unitamente al decreto di fissazione dell’udienza – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, poichè il ricorrente, anche in appello, aveva sempre sostenuto di aver prestato la sua attività in favore della società quale agente, mai ipotizzando l’esistenza di rapporto di lavoro subordinato, sicchè nessuna violazione del divieto dei nova in appello era ravvisabile;

è dedotta, ancora, con il secondo motive, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in riferimento all’errata motivazione, omessa valutazione e negata ammissione delle richieste di prove testimoniali formulate nel ricorso introduttivo e ribadite nel ricorso in appello (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4): poichè la richiesta del ricorrente era quella di provare a mezzo di testimoni non l’esistenza del contratto, bensì gli accordi intercorsi tra le parti, i giudici di primo e secondo grado non avevano consentito di fornire la prova dei fatti costitutivi dei crediti vantati;

con il terzo motivo il ricorrente deduce, inoltre, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento all’omesso esame di un fatto storico la cui esistenza è risultata dagli atti processuali e dall’iter procedimentale della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, poichè con l’accoglimento, se pure in parte, della riconvenzionale, ritenuta connessa all’attività di riscossione svolta dal C. per conto della società, il collegio giudicante non aveva dato indicazioni circa il titolo posto a fondamento di tale attività, tale non potendo essere, in relazione alla sua natura, il rapporto di procacciamento di affari, e aveva omesso di esaminare gli elementi storici e decisivi riportati a pg. 9 del ricorso;

con il quarto motivo il ricorrente evidenzia l’opportunità della compensazione delle spese, dato che era stata accolta solo in parte la domanda riconvenzionale;

il primo motivo è inammissibile, evidenziandosi che, ancorchè il principio secondo cui l’interpretazione delle domande delle parti dà luogo a un giudizio di fatto riservato al Giudice del merito non trovi applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile a violazione dell’art. 112 o dell’art. 437 c.p.c., versandosi in tal caso in error in procedendo che attribuisce alla Corte di Cassazione il potere dovere di procedere direttamente all’esame degli atti processuali (Cass. 17109 del 22/7/2009, Cass. 21421 del 10/10/2014), nel caso in esame tale valutazione non è consentita, con conseguente inammissibilità della censura, perchè parte ricorrente non ha riportato nel ricorso il contenuto dei fatti processuali alla base del vizio denunciato, nè ha prodotto gli atti (primi tra tutti il ricorso originario e quello in appello) indispensabili al fine di individuare l’originario tenore delle domande, sicchè non possono ritenersi assolti i requisiti di contenuto-forma previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, non ricavabili da altri atti, quali il controricorso (Cass. 29093 del 13/11/2018);

il secondo e il terzo motivo sono del pari inammissibili, poichè, per un verso, rimanendo ferma la statuizione circa l’intervenuta mutatio in appello, ogni ulteriore esame della domanda oggetto dell’appello principale è precluso, mentre, per altro verso, i fatti e le richieste istruttorie in ipotesi trascurate non sono dedotte in termini di autosufficienza, mediante adeguata trascrizione e allegazione, sì da poterne vagliare la decisività;

il quarto motivo è infondato sulla base del principio secondo il quale “in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del Giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espresso motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronunciai di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo di mancanza di motivazione” (Cass. 11329 del 26/4/2019);

in base alle svolte argomentazioni il ricorso va rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2020

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