Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19000 del 06/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 06/07/2021, (ud. 11/03/2021, dep. 06/07/2021), n.19000

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. MANCINI Laura – rel. Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5256/2013 R.G. proposto da:

MINOR S.P.A., (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante

pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Giancarlo Zoppini,

Giuseppe Russo Corvace e Giuseppe Pizzonia, elettivamente

domiciliata presso lo studio del primo in Roma, via della Scrofa n.

57;

ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, in via dei Portoghesi

12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 89/66/12 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, Sezione distaccata di Brescia depositata

il 2 luglio 2012 e non notificata.

Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale dell’11 marzo 2021

dal Consigliere Dott.ssa Laura Mancini.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con sentenza depositata in data 2 luglio 2012 la Commissione tributaria regionale della Lombardia, Sezione distaccata di Brescia confermò la pronuncia di primo grado di accoglimento parziale del ricorso proposto dalla Minor s.p.a. avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), con il quale l’Agenzia delle entrate aveva accertato un reddito imponibile di Euro 6.603.331,00 ai fini IRPEG per l’annualità 2000 e rideterminato l’imposta in Euro 2.443.232,00 a seguito di processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, con il quale era stato appurato che la società in verifica fosse fittiziamente domiciliata all’estero.

2. I giudici d’appello ritennero, in primo luogo, sussistenti i presupposti per il prolungamento del termine decadenziale per la notificazione dell’avviso di accertamento, contemplato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3, e dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57, comma 3, nella versione applicabile ratione temporis, di cui si era avvalsa l’Amministrazione finanziaria.

Disattendendo le argomentazioni della contribuente, evidenziarono come il giudice tributario non fosse tenuto a valutare la sussistenza dei reati tributari ascritti al destinatario dell’atto impositivo e, dunque, a verificare se l’ammontare dei redditi evasi superasse la soglia di punibilità in sede penale, dovendo, per contro, limitarsi ad accertare la ricorrenza dei presupposti per l’insorgenza dell’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria della fattispecie penalmente rilevante.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Commissione tributaria di secondo grado, effettuata una valutazione prognostica ex ante, ovvero riferita all’epoca della denuncia del fatto all’autorità giudiziaria, ravvisò le condizioni per praticare il raddoppio del termine decadenziale ritenendole comprovate sia dalla richiesta di

archiviazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Mantova del 4 maggio 2009, sia dal processo verbale di constatazione formato dalla Guardia di Finanzia nei confronti della Minor s.p.a. in data 28 novembre 2008, contenente la ricostruzione puntuale delle violazioni fiscali di rilevanza penale imputate alla contribuente e il riferimento al procedimento penale n. 1900/08 intrapreso dalla stessa Procura della Repubblica presso il Tribunale di Mantova.

La Commissione tributaria regionale lombarda respinse, altresì, la censura con la quale la società appellante si doleva della carenza di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato, ritenendola superata dal fatto che detto atto impositivo contenesse un rinvio per relationem al processo verbale di constatazione.

I giudici di secondo grado aderirono, quindi, alla prospettazione erariale secondo la quale la Minor s.p.a., benchè avesse dichiarato di avere sede in Lussemburgo, dovesse, in ragione di elementi univoci e concordanti, essere considerata esterovestita, ma con stabile amministrazione e direzione in Italia con conseguente assoggettamento all’ordinamento italiano.

Fu, inoltre, respinto il motivo di gravame riguardante il recupero a tassazione dell’importo relativo alla rinuncia ad un finanziamento ai soci operato da R.A., socio e legale rappresentante della Minor s.p.a., giacchè si trattava di un credito finanziario gestito fiduciariamente dalla Viva Holding s.a. e ceduto gratuitamente da tale ultima società di diritto elvetico, di cui lo stesso R. risultava socio, alla medesima Minor s.p.a., giacchè non era configurabile una rinuncia al credito effettuata direttamente dal socio partecipe della società, come previsto dall’art. 55 del TUIR, bensì per il tramite di società distinte tra loro, interpostesi nella negoziazione gratuita del credito.

La Commissione tributaria regionale ritenne, infine, infondato l’appello incidentale proposto dall’Amministrazione finanziaria con riguardo allo storno di un fondo rischi creato dalla società contribuente negli esercizi precedenti e relativo alla svalutazione della partecipazione nella società Pompea Calze s.p.a. detenuta dalla Minor s.a., evidenziando che detto fondo, non essendo stato ritenuto imponibile a fini IRAP, non poteva esserlo neanche ai fini IRPEG.

3. Contro tale pronuncia la Minor s.p.a. propone ricorso affidato a cinque articolati motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso contenente ricorso incidentale basato su un unico motivo, in replica al quale la società ricorrente ha depositato controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo articolato motivo, la ricorrente principale lamenta la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 42 e 43 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Commissione tributaria regionale ritenuto non configurabile l’obbligo dell’Ufficio di esplicitare le ragioni per le quali operasse, nella specie, il raddoppio del termine di decadenza per la notificazione dell’accertamento tributario; la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui i giudici d’appello hanno affermato che per l’applicazione del regime del raddoppio dei termini di accertamento non occorre che l’attività di verifica sia iniziata entro i termini ordinari e sia supportata da una pregressa notizia di reato con denuncia all’autorità giudiziaria; la violazione del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 26, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 1, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sul presupposto che il regime del raddoppio dei termini, introducendo una sanzione impropria, non può trovare applicazione retroattiva; la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, commi 2 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la commissione di secondo grado considerato che nel caso di specie era stato emesso decreto di archiviazione del procedimento penale, così che mancavano sin dall’origine i presupposti per l’applicazione del termine doppio, essendo i fatti accertati risultati privi di rilevanza penale. In via subordinata la Minor s.p.a. ha riproposto la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, per violazione degli artt. 3,24,25 e 97 Cost..

1.1. Con il secondo mezzo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si denuncia la nullità della sentenza gravata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere i giudici di secondo grado omesso di pronunciarsi sul motivo di appello con il quale la contribuente aveva lamentato il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento in merito alla diversa considerazione, nella determinazione del reddito ai fini IRPEG ed IRAP, della “sopravvenienza attiva utilizzo fondi rischi tassato” e della “sopravvenienza attiva rinuncia credito socio”, pur essendo le discipline dei predetti tributi perfettamente sovrapponibili.

1.2. Con il terzo motivo si deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l'”illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la pretesa fiscale di cui è causa nel presupposto che MINOR, nel periodo di imposta accertato, avrebbe avuto la propria sede dell’amministrazione in Italia”. Ad avviso della ricorrente principale, la pronuncia gravata reca una motivazione insufficiente in ordine al fatto, controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla collocazione dell’attività di direzione amministrativa della società in Italia.

1.3. Il quarto mezzo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censura la sentenza gravata nella parte in cui, confermando la pronuncia di primo grado, ha rigettato la doglianza relativa all’illegittimità del recupero a tassazione della “sopravvenienza attiva rinuncia credito socio”, così incorrendo nella violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 55.

1.4. Con il quinto motivo si lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Commissione tributaria regionale omesso di pronunciarsi sulla doglianza, riguardante l’irrogazione delle sanzioni, fondata sulla configurabilità, nel caso di specie, dell’esimente dell’errore di diritto incolpevole.

1.5. Con un unico motivo l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso incidentale lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 55 nella versione applicabile ratione temporis, per avere la Commissione tributaria regionale lombarda ritenuto non tassabile la componente attiva relativa allo storno del fondo rischi.

2. Il primo motivo del ricorso principale, nella sua complessa articolazione, non può trovare accoglimento.

Priva di fondamento è, innanzitutto, la censura riguardante l’omessa considerazione, da parte dei giudici d’appello, della mancata indicazione nell’avviso di accertamento in contestazione delle ragioni per le quali l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto di potersi avvalere del raddoppio del termine di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43.

L’obbligo di motivazione degli atti impositivi, investendo gli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria, e segnatamente il petitum e la causa petendi della pretesa impositiva (Cass. Sez. 5, 21/11/2018, n. 30039), non si estende al termine per l’esercizio dell’accertamento fiscale, posto che, riguardando tale elemento il modulo procedimentale applicabile (Cass. Sez. 5, 14/11/2019, n. 29632; Corte Cost., 25/7/2011, n. 247, punto 5.5.), trova nella legge la sua fonte diretta di regolamentazione.

2.1. Non merita condivisione neanche la doglianza riguardante la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, per avere la sentenza gravata ritenuto sufficiente, ai fini dell’operatività del raddoppio del termine, i presupposti che impongono l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p..

Come più volte chiarito da questa Corte, il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, consegue, nell’assetto anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e alla L. 31 dicembre 2015, n. 208, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p..

Il presupposto di operatività di tale prolungamento temporale coincide, dunque, con l’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 331 citato, senza che assuma rilevanza il suo accertamento in concreto (Cass. Sez. 5, ord. 2/7/2020, n. 13481).

Tale ricostruzione trae conferma dai principi enunciati dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 247 del 25 luglio 2011, secondo la quale il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto ed indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass., Sez. 6-5, ord. 28/6/2019, n. 17586; Cass., Sez. 5, 13/9/2018, n. 22337; Cass., Sez. 6-5, ord. 30/5/2016, n. 11171).

Ne discende che, in caso di denuncia presentata oltre gli ordinari termini di decadenza o addirittura di accertamento compiuto senza denuncia “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità”, con la precisazione, però, che “il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato” (Corte Cost., n. 247 del 2011, punto 5.3.).

Alla luce di tali premesse, il contribuente che intenda contestare l’accertamento compiuto oltre il termine ordinario, deve eccepire la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia e non può mettere in discussione la sussistenza del reato, nè sotto il profilo dell’elemento oggettivo, nè sotto quello dell’elemento soggettivo, nè infine dal punto di vista del suo autore (in questi termini Cass. Sez. 5, ord. n. 13481/2020, cit.).

Ne consegue che, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, la circostanza che nel caso di specie per il reato tributario in forza del quale l’Ufficio si è avvalso del termine raddoppiato sia stata disposta archiviazione rappresenta un posterius irrilevante rispetto alla configurabilità in astratto dell’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., poichè ciò che interessa è solo “l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, atteso il regime di “doppio binario” tra giudizio penale e procedimento tributario” (così Cass. Sez. 5, 11/4/2017, n. 9322).

Nè, diversamente da quanto affermato dalla Minor s.p.a., occorre che l’attività di verifica sia iniziata entro i termini ordinari e sia supportata da una pregressa notizia di reato con denuncia all’autorità giudiziaria. Invero, come già precisato da questa Corte, i termini D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 43 cit. sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza (Cass. Sez. 5, 16 dicembre 2016 n. 26037).

2.2. Priva di fondamento è anche la censura con la quale la ricorrente principale denuncia la violazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 26, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 1, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, sul presupposto che il regime del raddoppio dei termini, introducendo una sanzione impropria, non può trovare applicazione retroattiva.

Invero, questa Corte ha precisato che i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 per l’IRPEF e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57 per l’IVA, come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, conv. con modif. dalla L. n. 248 del 2006, nella versione applicabile ratione temporis, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano sorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche con riferimento alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore (4 luglio 2006) del predetto decreto, tanto derivando non dalla natura retroattiva della novella, ma, secondo l’interpretazione di tali disposizioni data dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, dalla circostanza che, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del detto decreto, essa incide necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data, nel rispetto del principio cristallizzato dall’art. 11 preleggi, comma 1, (Cass. Sez. 5, Ord. 30/10/2018, n. 27629).

2.3. Manifestamente infondata, appare, infine, la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, sollevata dalla società ricorrente con riferimento agli artt. 3,24,25 e 97 Cost..

A tale proposito si ritiene sufficiente richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, che con ampia motivazione, cui questo Collegio, in assenza di nuove e persuasive argomentazioni, intende prestare adesione, ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale delle norme che introducono il meccanismo del raddoppio dei termini qui in esame proprio in relazione ai suddetti parametri.

3. Non merita condivisione neanche il secondo motivo di ricorso con cui la Minor s.p.a. lamenta l’omessa pronuncia sul motivo di gravame riguardante la mancata motivazione dell’avviso di accertamento “(d)erivante dalla intrinseca contraddizione esistente tra le indicazioni in esso riportate e i rilievi contestati” con specifico riferimento al diverso trattamento fiscale, nella determinazione della base imponibile ai fini IRAP e IRPEG, dei componenti della “sopravvenienza attiva utilizzo fondi rischi” e della “sopravvenienza attiva rinuncia credito socio”.

Osserva il Collegio che, in merito all’eccepita carenza di motivazione dell’avviso di accertamento, la sentenza impugnata si è, sia pur succintamente, espressa assumendo l’infondatezza della doglianza “(i)n considerazione del fatto che l’Ufficio, operando anche un rinvio per relationem al citato p.v.c. della Guardia di Finanza, ha adempiuto al dovere di indicare le ragioni giuridiche ovvero l’iter logico-giuridico alla base della pretesa impositiva” (pag. 12 della sentenza).

In ogni caso, la censura in questione, in parte, risulta implicitamente respinta attraverso il rigetto del motivo di gravame con il quale la contribuente aveva contestato la considerazione, da parte dell’Ufficio, della rinuncia di R.A. al credito nei confronti della società in termini di sopravvenienza attiva imponibile (v. pagg. 13 e 14 della sentenza); e, in parte, assorbita dal rigetto dell’appello incidentale erariale avverso la statuizione di prime cure di illegittimità della tassazione delle sopravvenienze attive derivanti dallo storno del fondo rischi, motivato dalla commissione tributaria regionale nel senso che “il predetto fondo non è stato ritenuto imponibile dall’Ufficio ai fini IRAP e non si comprende la diversa disciplina tributaria in materia di IRPEG invocata dall’Ufficio” (pag. 14 della sentenza).

Il vizio di omessa pronunzia non appare comunque decisivo non potendosi ravvisare alcuna contraddizione motivazionale dell’avviso di accertamento, ben potendo le diverse poste contestate dall’Ufficio (la “sopravvenienza attiva utilizzo fondi rischi” e la “sopravvenienza attiva rinuncia credito socio”) essere dalla legge disciplinate in modo differente ai fini della determinazione dell’IRAP e dell’IRPEG (ma ciò integra una questione di merito e non di formale sufficienza motivazionale dell’avviso).

Infatti, può osservarsi, per mera completezza espositiva, che nè la “sopravvenienza attiva utilizzo fondi rischi”, nè la rinuncia al credito da parte del socio rientravano tra le voci rilevanti ai fini del calcolo della base imponibile dell’IRAP, data – già alla stregua del D.P.R. n. 446 del 1997, art. 5, comma 1, nella versione applicabile ratione temporis – dalla differenza tra valori e costi della produzione, corrispondenti alle voci A e B del conto economico di cui all’art. 2425 c.c..

4. Deve essere respinto anche il motivo con il quale si prospetta l’insufficienza della motivazione posta a base della statuizione con la quale la Commissione tributaria di secondo grado ha convalidato il ragionamento presuntivo che ha portato l’Amministrazione finanziaria ad affermare che la Minor s.a. fosse una società esterovestita.

4.1. Secondo l’orientamento interpretativo di legittimità affermatosi nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo antecedente alla modifica disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito dalla L. n. 134 del 2012 – e quindi applicabile alla sentenza impugnata in quanto pubblicata antecedentemente alla data dell’11 settembre 2012 -, al giudice di merito non può imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una, nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo. In altri termini, il giudice di merito non è tenuto ad esaminare tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica e adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (Cass. Sez. 5, 9/3/2011, n. 5583).

La sentenza impugnata, attribuendo rilevanza, ai fini della verifica della configurabilità della fattispecie di esterovestizione prospettata dall’Amministrazione finanziaria ad elementi fattuali idonei ad attestare la localizzazione in Italia dell’effettivo centro di direzione della società odierna ricorrente, ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati.

Invero, tra gli elementi indiziari valorizzati dalla Commissione tributaria regionale vi è anche il “rinvenimento di documenti presso la TESI INFORMATICA srl e riconducibili a MINOR S.A. da cui si rilevano le direttive impartite agli amministratori lussemburghesi” (v. pag. 13 della sentenza impugnata).

Tale circostanza assume sicura rilevanza ai fini della configurabilità della c.d. esterovestizione.

Infatti, come recentemente ribadito da questa Corte, al fine di stabilire se il reddito prodotto da una società possa essere sottoposto a tassazione in Italia, è decisivo il fatto che l’adozione delle decisioni riguardanti la direzione e la gestione dell’attività di impresa avvenga nel territorio italiano, nonostante la società abbia localizzato la propria residenza fiscale all’estero (Cass. Sez. 5, 21/6/2019, n. 16697; Cass. Sez. 5, del 7/2/2013, n. 2869; Cass. Sez. 5, 21/12/2018, n. 33234).

Tale ricostruzione è coerente con la lettera del D.Lgs. n. 917 del 1986, art. 73, comma 3, ai sensi del quale “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio della Stato”.

Questa Corte ha, infatti, precisato che la nozione di “sede dell’amministrazione”, in quanto contrapposta alla “sede legale”, deve ritenersi coincidente con quella di “sede effettiva” (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (in tal senso, Cass. Sez. 5, 21/6/2019, n. 16697, con ampia motivazione che il Collegio condivide).

Sulla stessa linea si è posta la Corte di giustizia nella sentenza del 28 giugno 2007, C-73/06, Planzer Luxembourg Sarl, in cui è stato affermato che la nozione di sede dell’attività economica “indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultimo” (punto 60).

E’ stato, inoltre, chiarito che la fattispecie della esterovestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento.

Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte di Giustizia 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas (richiamata da Cass. Sez. 5, 21/6/2019, n. 16697, cit.), la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sè sola un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere la normativa dello Stato membro interessato.

5. Anche il quarto motivo del ricorso principale è infondato.

La Minor s.p.a. deduce la falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, comma 4, nella versione nella specie applicabile ratione temporis, per avere i giudici di secondo grado avallato la ripresa a tassazione della voce “sopravvenienza attiva rinuncia credito socio” operata dall’Ufficio.

Questa Corte ha affermato che, in tema di determinazione del reddito d’impresa, secondo la disciplina dettata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55 (oggi art. 88), comma 4, nella formulazione, vigente ratione temporis, come introdotta dal D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito con modificazioni dalla L. 26 febbraio 1994, n. 133, a partire dall’esercizio 1993, la rinuncia, da parte del socio, ai crediti nei confronti della società non va considerata sopravvenienza attiva ove sia operata in conto capitale, atteso che, in tale ipotesi, esprime la volontà di patrimonializzare la società e non può, pertanto, essere equiparata alla rimessione del debito da parte di un soggetto estraneo alla compagine sociale (Cass. Sez. 5, 24/3/2017, n. 7636).

Tale principio non può, tuttavia, trovare applicazione nel caso di specie in cui, come reso evidente dalla sentenza impugnata, R.A., socio e legale rappresentante della Minor s.p.a. “aveva erogato alla Z.G.Z. s.p.a. un credito finanziario gestito fiduciariamente dalla Viva Holding S.A. e detto credito era stato poi ceduto gratuitamente dalla Viva Holding S.A., società di diritto elvetico di cui R. risultava socio, a Minor s.p.a.”.

Come rilevato dai giudici d’appello, la rinuncia al credito non risulta, quindi, effettuata direttamente dal socio in favore della società, come espressamente previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55 nel testo applicabile ratione temporis, ma tramite soggetti terzi, con la conseguenza che non può trovare applicazione la disposizione speciale che esclude dal novero delle sopravvenienze attive le rinunce in quanto non assimilabili a mere rimessioni di debito (per la distinta rilevanza della rinuncia al credito nei confronti della società a seconda che sia operata dal socio o dal terzo, v. Cass. Sez. 5, 30/7/2007, n. 16819).

Invero, in forza del criterio generale che orienta l’interpretazione delle norme tributarie, ogni disposizione fiscale di favore – in quanto recante benefici, agevolazioni o esenzioni (come nel caso di specie l’art. 55, comma 4, del TUIR) – è di stretta interpretazione, anche in ragione della sua natura eccezionale, la quale implica, ai sensi dell’art. 14 preleggi, che essa non può trovare applicazione fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge (Cass. Sez. 5, 28/10/2014, n. 22917).

6. Deve essere disattesa anche la censura con la quale si denuncia l’omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale la Minor s.p.a. ha contestato l’irrogazione delle sanzioni deducendo l’operatività dell’esimente dell’errore incolpevole di diritto.

Come più volte chiarito da questa Corte, in caso di denuncia, in sede di ricorso per cassazione, del vizio di omessa pronuncia, è necessaria l’illustrazione del carattere decisivo della prospettata violazione, dimostrando che ha riguardato una questione astrattamente rilevante, posto che, altrimenti, si dovrebbe cassare inutilmente la decisione gravata (Sez. 6-3, n. 16102 del 2/8/2016).

Nel caso di specie, il motivo di appello di cui si lamenta l’omesso scrutinio si rivela non decisivo, giacchè la ricorrente principale pretende di far scaturire l’operatività dell’esimente dell’errore incolpevole dalla prospettata divergenza tra l’interpretazione, adottata dai giudici di merito, che esclude l’applicabilità nel caso di specie della disposizione di favore di cui all’art. 55 (oggi 88) del TUIR, e quella, illustrata dall’Amministrazione finanziaria nella Risoluzione del 22 maggio 2002, n. 152/E, secondo la quale “il principio che emerge da tale articolo è che la sopravvenienza non deve concorrere al reddito in quanto trova causa non nello spirito di liberalità o nella “remissione” di un debito da parte di un terzo, bensì nella volontà di un socio di patrimonializzare la partecipata”.

Ritiene, per contro, il Collegio che alcuna discrasia generatrice di obiettiva incertezza sia possibile cogliere tra il principio generale, riportato nella suddetta risoluzione, secondo il quale, la remissione di un debito da parte di un socio nei confronti della società non concorre a formare il reddito in quanto sottende la volontà del rimettente di patrimonializzare la società, e quello, applicato dai giudici di merito e qui confermato, secondo il quale tale regime di favore non trova applicazione laddove la rinuncia al credito provenga da un soggetto terzo.

7. Il ricorso incidentale erariale merita, invece, accoglimento.

Ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, la sentenza gravata è viziata da error in iudicando nella parte in cui ritiene non suscettibile di tassazione la componente positiva di reddito indicata in bilancio nell’anno 2000 quale sopravvenienza attiva derivante dallo storno di un fondo rischi creato in esercizi pregressi.

Difatti, evidenzia la ricorrente incidentale, secondo il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, si considerano sopravvenienze attive i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi e i ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi, nonchè la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi.

Di conseguenza, soggiunge la difesa erariale, la rilevanza impositiva della sopravvenienza attiva derivante dall’imputazione del fondo a conto economico a seguito del venir meno del rischio ad esso correlato, trova giustificazione nella predetta disposizione.

7.1. Come correttamente evidenziato dalla ricorrente incidentale, l’operazione contabile in esame non è neutra, sul piano del reddito, e deve risultare dal conto economico posto che, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55 temporalmente vigente, l’estinzione di fondi preesistenti genera una sopravvenienza attiva, in quanto tale assoggettabile a tassazione.

Invero, come recentemente chiarito da questa Sezione, con argomentazioni condivise da questo Collegio, “(…) gli accantonamenti ad appositi fondi rischi ed oneri sono disciplinati dagli artt. 70, 72 e 73 (ora artt. 105, 107 e 109), statuendo dell’art. 72, il comma 4 (ora 107) TUIR che “non sono ammesse deduzioni per accantonamenti diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente capo”, così che eventuali stanziamenti a fondi diversi da quelli previsti dalle citate disposizioni, costituiscono accantonamenti fiscalmente non riconosciuti e quindi indeducibili, con la conseguenza che, da un lato, le quote accantonate costituiscono variazioni in aumento del risultato civilistico rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa imponibile, ex art. 52 (ora art. 56) TUIR, mentre, dall’altro lato, l’utilizzo del fondo dovrà essere ricompreso tra le variazioni in diminuzione del risultato di periodo in cui tale utilizzo si è manifestato, mentre se viene azzerato (come nel caso di specie), l’accantonamento del fondo costituisce una sopravvenienza attiva, ex art. 55, ora art. 88, TUIR e, quindi, un componente positivo di reddito” (Cass. Sez. 5, ord. 11/10/2017, n. 23812; v. anche Cass. Sez. 5, 13/7/2018, n. 18719).

7. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso principale è rigettato e il ricorso incidentale è accolto.

La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, Sezione distaccata di Brescia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, Sezione distaccata di Brescia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2021

 

 

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