Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19000 del 02/09/2010

Cassazione civile sez. lav., 02/09/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 02/09/2010), n.19000

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – rel. Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3680-2009 proposto da:

D.D.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, P.ZZA CIVITELLA PAGANICO 12, presso lo studio dell’avvocato

LUCENTE ALESSANDRO, rappresentato e difeso dall’avvocato MANCINI

CARLO;

– ricorrente –

contro

CONAD ADRIATICO SOCIETA’ COOPERATIVA (INCORPORANTE CONAD GIULIANOVA

S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. FERRARI 11, presso lo

studio dell’avvocato VALENZA DINO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato DI TEODORO FRANCO, giusta mandato in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1495/2007 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 30/01/2008 r.g.n. 1403/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FOGLIA;

udito l’Avvocato DI TEODORO FRANCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI COSTANTINO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso dell’8.10.1998 D.D.M. esponeva di aver prestato servizio della soc. Conad con inquadramento nel 4^ livello ceni e di aver ricevuto, il 9.6.1998, la contestazione di una infrazione disciplinare per avere: a) intenzionalmente falsificato i dati dell’inventario compiuto il 30.4.1998, al fine di ottenere il premio di produttività b) esercitato una gestione non autorizzata e contraria alle istruzioni impartitele, attraverso omissioni nelle annotazioni fiscali ed altro; c) sottratto dal suo reparto documenti contenenti dati contabili riservati ed i rapporti con i fornitori.

Soggiungeva: a) di ricevuto lettera licenziamento per giusta causa, nonostante l’infondatezza degli addebiti; b) di aver impugnato tale licenziamento invocandone l’annullamento, con conseguente ordine di reintegra ai sensi e per gli effetti dell’art. 18 stat. lav.; c) di aver chiesto la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento dei danni morali (quantificati in L. 30milioni) stante la rilevanza penale del comportamento datoriale.

Il Tribunale di Teramo, con sentenza del 28.10.2005 dichiarava l’illegittimità del licenziamento e condannava la società convenuta a riassumere la dipendente, o, in alternativa, a risarcire i danni sofferti dalla medesima in conseguenza del licenziamento, oltre a versarle un’indennità pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il Tribunale rigettava la domanda di risarcimento dei danni morali, con condanna della società convenuta alle spese del giudizio.

L’attrice impugnava tale sentenza e la Corte di appello di L’Aquila pronunciava sentenza in data 30.1.2008, con la quale:

a) dichiarava l’illegittimità del licenziamento sia perchè l’istruttoria aveva evidenziato che l’attrice non aveva la disponibilità dei documenti attinenti agli incassi, nè di altri documenti contabili di rilievo, sia perchè la sanzione adottata era sproporzionata rispetto alle infrazioni ravvisabili nel comportamento della dipendente;

b) condannava la società convenuta al risarcimento danni a favore dell’appellante commisurato a 13 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;

c) statuiva che, pur potendosi applicare la tutela reale – in quanto la società datrice appellata non aveva provato di aver alle sue dipendenze meno di 15 lavoratori – non era possibile disporre la reintegra in quanto la società, nelle more del giudizio, aveva esaurito ogni sua attività;

d) escludeva di poter disporre anche il pagamento delle cinque mensilità previste dall’art. 18 Stat. lav., in quanto questa indennità costituisce soltanto la misura minima di risarcimento per i casi in cui l’entità dello stesso sia inferiore a cinque mensilità;

e) escludeva la possibilità di riconoscere un danno morale non ravvisandosi gli estremi del licenziamento ingiurioso, nè essendovi la prova di lesioni della dignità o del decoro in danno della attrice.

Avverso la sentenza di appello la D.D. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi, cui ha reagito la società resistente con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui, non ha disposto la sua reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ritenuto applicabile al licenziamento in questione, così violando l’obbligo di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c..

Con il secondo motivo – denunciando l’omessa, insufficiente, e contraddittoria motivazione in ordine al denegato ordine di reintegrazione – la ricorrente ritiene omessa, insufficiente e contraddittoria la sentenza allorchè, questa, dopo aver affermato che la condanna alla reintegrazione dovesse comunque essere disposta, in quanto richiesta dall’attrice, si limitava a riconoscere alla lavoratrice il risarcimento dei danni.

Con il terzo motivo, si imputa alla sentenza di aver escluso la reintegrazione sulla scorta del fatto che la società che la società convenuta avrebbe cessato l’attività, senza considerare (da qui la denunziata “illogicità”) che essa aveva subito una incorporazione per fusione, che non determina l’estinzione della società incorporata.

Col quarto motivo si denuncia l’omessa e insufficiente motivazione in ordine al mancato riconoscimento del danno morale.

Col quinto motivo si censura la sentenza per la violazione e falsa applicazione degli artt. 2118, 2119, 2056, 2059, 1123 e 1226 c.c. avendo essa negato la natura ingiuriosa del licenziamento, con conseguente negazione del giusto risarcimento.

Col sesto motivo, si denuncia l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine alla denegata riliquidazione delle spese di primo grado.

I primi tre motivi sono teleologicamente connessi, e vanno trattati congiuntamente riguardando tutti la mancata pronunzia della reintegrazione nonostante l’affermazione della illegittimità del licenziamento.

In questo contesto, il primo motivo è infondato poichè l’omessa pronuncia sulla domanda di reintegrazione non costituisce diretta violazione del citato art. 112 c.p.c., quanto la logica conseguenza della premessa – condivisa dalla sentenza di appello e dalla ricorrente – della ritenuta impossibilità di procedere alla reintegrazione, una volta cessata l’attività aziendale. Conseguenza che, in via di principio, viene condivisa anche dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “il giudice che accerti l’illegittimità del licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel suo posto di lavoro, qualora nelle more dei giudizio sia sopravvenuta la cessazione totale dell’attività aziendale, ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto” (Cass., 6 agosto 1996, n. 7189; Cass., n. 13297 del 2007).

Il secondo motivo, pur insistendo sul medesimo tema, presenta un vizio formale che ne rende inammissibile l’esame, stante la mancanza del quesito di diritto prescritto – ratione temporis – l’operatività dell’art. 366 bis c.p.c. (Cass., n. 19892 del 2007; SS.UU., n. 20603 del 2007).

Diversa sorte merita il terzo motivo – prospettato in termini di violazione o falsa applicazione degli artt. 2498, 2504 bis e 2112 c.c., per aver ritenuto impossibile la reintegrazione per il semplice presupposto della intervenuta incorporazione della società datrice di lavoro in altro soggetto societario.

Al contrario, “la fusione della società mediante incorporazione, di cui agli artt. 2501 e 2504 bis ss. c.c., non determina sempre l’estinzione della società incorporata, nè crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria (Cass. SS.UU., n. 2637/2006). In particolare, va rilevato che nell’ipotesi di incorporazione di società ricorre la fattispecie del trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c., tutte le volte in cui l’intera impresa, o un ramo di essa, viene trasferita ad altro soggetto (cessionario) in presenza delle condizioni ampiamente esaminate dalla più recente giurisprudenza di legittimità, anche sulla base della normativa comunitaria (direttiva n 77/187/CEE e successive edizioni).

Tale situazione comporta – trattandosi di quaestio facti, decisiva per la soluzione della controversa presente – che, non potendo essere prospettata a questa Corte, merita di essere affidata all’esame del giudice di merito cui, pertanto, la presente causa va rinviata.

Quanto al quarto e quinto motivo, vertenti sulla questione del risarcimento del danno derivante da licenziamento che si assume ingiurioso, si rileva che il licenziamento disciplinare è stato intimato anche in base a contestazioni che integrano di per sè ipotesi di reato. Si tratta, in ogni caso, di circostanze di fatto su cui il giudice di merito, nell’ambito della sua competenza ha espresso un giudizio espressamente negativo circa l’esistenza di prove circa lesioni della dignità o del decoro in danno della ricorrente come conseguenze dirette del licenziamento.

Inammissibile è, infine, il sesto motivo il quale resta privo della “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, come prescritto dall’art. 366 bis c.p.c..

Sulla base di quanto precede, vanno respinti i motivi 1, 2, 4, 5, e 6, mentre va accolto il terzo motivo, e, dunque, va cassata la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Perugia che provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta gli altri.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia – anche per le spese di questo giudizio – alla Corte di appello di Perugia.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2010

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