Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18992 del 11/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 11/09/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 11/09/2020), n.18992

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35007-2018 proposto da:

L.G., L.F.M.A., L.B.,

elettivamente domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’avvocato NATASCIA VITALI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI REGGIO CALABRIA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato PATRIZIA CIANCI;

– Controricorrente –

contro

M.I., M.O.;

– intimate –

avverso l’ordinanza n. R.G. 69/2015 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 30/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 15/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. PARISE

CLOTILDE.

 

Fatto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La Corte d’appello di Reggio Calabria, con ordinanza depositata il 30-10-2018, pronunciando sull’opposizione alla stima promossa dai ricorrenti in epigrafe indicati, nonchè dalle ricorrenti M.I. e M.O. nei confronti del Comune di Reggio Calabria all’esito dell’emissione del decreto di esproprio prot. n. 191090 del 23-12-2014, ha determinato in Euro 314.114 la somma dovuta a titolo di indennità di espropriazione per i terreni descritti nella motivazione, oltre interessi decorrenti dalla data del decreto di esproprio fino all’effettivo soddisfo, ordinando il deposito della somma presso la Cassa Depositi in favore dei ricorrenti ed in ragione delle quote loro rispettivamente spettanti.

2. Avverso detta ordinanza L.B., L.G. e L.F.M.A. propongono ricorso affidato ad un solo motivo, a cui resiste con controricorso il Comune di Reggio Calabria. M.I. e M.O. sono rimaste intimate. Le parti hanno depositato memorie illustrative.

3. Con unico articolato motivo i ricorrenti denunciano “Violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 32,37 e 40, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. I ricorrenti lamentano, sotto un primo profilo, che la Corte territoriale, conformandosi alle conclusioni rassegnate dal C.T.U., abbia stimato edificabili i terreni ablati solo per ridotte superfici, ritenendo assolutamente inedificabili le superfici residue in virtù del vincolo archeologico apposto sulle stesse, senza tenere conto dei possibili utilizzi alternativi all’edificazione. Nel richiamare i principi affermati da questa Corte (Cass. n. 28789/2018), assumono che non sia stato applicato il criterio generale del valore venale pieno, tenendo conto eventuali possibilità di utilizzazione intermedia tra l’agricola e l’edificatoria. Inoltre censurano l’ordinanza impugnata in ordine alla qualificazione del vincolo archeologico, che assumono essere non conformativo, ma indiretto e preordinato all’esproprio. Rilevano che, contrariamente a quanto affermato nella C.T.U., il D.M. 3 giugno 1987 non era configurabile come una appendice specificativa del primo D.M. appositivo del vincolo di cui trattasi (D.M. 5 agosto 1969). Deducono che il primo D.M., che imponeva un vincolo diretto, era stato revocato dal Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali e sostituito dal secondo del 1987, come dato atto dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 934/1988, che, pronunciando sull’impugnazione proposta dai ricorrenti avverso l’imposizione del vincolo di cui al D.M. del 1969, dichiarava la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso, stante l’intervenuta revoca del vincolo archeologico diretto disposta con il D.M. 3 giugno 1987.

Rimarcano, altresì, richiamando la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che il vincolo archeologico cd. indiretto viene imposto su aree circostanti quelle sottoposte a vincolo diretto per garantire una migliore visibilità e fruizione collettiva o migliori condizioni ambientali e di decoro, che la natura del vincolo (espropriativa o conformativa) deve essere accertata in concreto e nel caso concreto la fascia di rispetto era evidentemente preordinata alla realizzazione di un parco archeologico. Espongono i ricorrenti che, in vicende analoghe, con riferimento a terreni siti in prossimità della stessa cinta muraria, la medesima Corte territoriale aveva ritenuto espropriativo il vincolo perchè finalizzato alla realizzazione di un parco archeologico.

4. Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

4.1. Circa la natura del vincolo archeologico, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il vincolo di inedificabilità connesso alla presenza di testimonianze archeologiche, iscrivendosi tra le limitazioni legali della proprietà ed avendo, a differenza dei vincoli espropriativi, natura conformativa del diritto al bene, incide negativamente sul valore di mercato delle aree coinvolte e, quindi, sul calcolo dell’indennità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18219 del 22/08/2006). Il vincolo archeologico ha natura conformativa, idonea a far classificare il terreno come legalmente non edificabile, e comporta una compressione dello ius aedificandi, a salvaguardia di interessi pubblici di natura culturale, da ritenersi legittima alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale (tra le tante Cass. n. 10785/2014; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 21733 del 27/10/2016). Ciò nondimeno, tale vincolo non è di ostacolo alla commercialità del bene o a considerarne una redditività diversa da quella del suo sfruttamento meramente agricolo, sicchè, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione, occorre tenere conto delle ulteriori possibili utilizzazioni del fondo, diverse da quelle edificatorie, avendo presente l’incremento di valore determinato dai suoi particolari pregi, anche riconnessi alla natura del vincolo apposto. E’ stato inoltre chiarito da questa Corte che il vincolo di inedificabilità di un’area archeologica non può ritenersi sempre assoluto in astratto, potendosi ipotizzare un’attività edificatoria che non pregiudichi la conservazione dei reperti archeologici esistenti sull’area, essendo rimessa al giudice di merito, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, la valutazione in concreto sul carattere assoluto o relativo del citato vincolo (Cass. n. 205/2020).

4.2. Alla stregua di tali principi occorre scrutinare la fattispecie concreta sulla scorta della ricostruzione fattuale effettuata dalla Corte territoriale, che ha accertato quanto segue: (i) il D.M. del 1987, tuttora in vigore, che ha imposto il vincolo di cui trattasi, ha previsto tre fasce di rispetto e nella fascia di rispetto A, in cui sono compresi i terreni espropriati, sono stati specificati in dettaglio divieti, prescrizioni e restrizioni all’edificabilità; (il) è stato previsto il distacco minimo di metri 60 dalla cinta muraria; (iii) dei terreni, di estensione pari a 4128 mq., ricadenti in zona B, con destinazione residenziale ed indice volumetrico di 0,05 mc./mq., risultavano edificabili mq. 498, con possibilità di realizzazione di una villetta unifamiliare con superfice coperta di mq 70 oltre piano interrato; (iv) dei terreni, di estensione pari a 3158 mq., ricadenti in zona F, con destinazione all’espansione e allo sviluppo dei servizi ed indice volumetrico di 0,05 mc/mq, risultavano edificabili mq 1313 con possibilità di realizzazione di un piccolo fabbricato a piano terra di 52-55 mq.

Premesso che non è posta in discussione la legittimità del D.M. del 1987, avendo i ricorrenti impugnato dinanzi al T.A.R. solo il precedente D.M. del 1969, nella specie si tratta, in effetti e come dedotto dai ricorrenti, di vincolo indiretto, ai sensi della L. n. 1089 del 1939, art. 21, ora Codice dei beni culturali ed ambientali (D.Lgs. n. 24 del 2004), art. 45, ossia del vincolo che viene imposto sui beni e sulle aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, così da garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro.

Detta qualificazione, nondimeno, non è idonea a determinare la natura espropriativa e non conformativa del vincolo. La Corte di merito ne ha, correttamente, affermato la natura conformativa, rilevando che il vincolo era stato apposto dal Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali con il D.M. del 1987, in applicazione del dettato legislativo, con la specifica finalità di rispetto, salvaguardia e conservazione delle ritrovate mura dell’antica Reghion (pag. n. 4 ordinanza impugnata), e ciò ben prima dell’inizio della procedura espropriativa per cui è causa, così escludendo anche in concreto, e per quanto occorrer possa, ogni preordinazione del vincolo stesso alla successiva ablazione.

La natura conformativa, quindi, discende dal fatto che il vincolo, pur se indiretto, è in ogni caso a tutela di un interesse pubblico, ha fonte sopraordinata rispetto alla pianificazione urbanistica e si iscrive tra le limitazioni legali della proprietà, non costituendo ablazione e quindi determinando solo una compressione del diritto di proprietà non indennizzabile. La Corte Costituzionale, con la sentenza 4-7-1974 n. 202, ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale della L. n. 1089 del 1939, art. 21, precisando che è la legge ad attribuire al Ministero “la facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia posta in pericolo la integrità delle cose immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro. La norma pertanto non prevede nessuna ablazione del diritto di proprietà, ma, riconoscendo l’inerenza di un pubblico interesse rispetto alla categoria dei beni predetti, ne disciplina il regime, accordando alla pubblica Amministrazione il potere di imporre dei limiti all’esercizio dei diritti privati in relazione ad un preciso interesse pubblico in base ad apprezzamento tecnico sufficientemente definito e controllabile, la cui discrezionalità è chiaramente determinata. Di conseguenza la norma non contrasta con l’art. 42, comma 3, della Costituzione in quanto non rientra nei casi da questo previsti” (Corte Cost. 47-1974 n. 202).

La Corte territoriale ha fatto, dunque, corretta applicazione dei principi suesposti e l’ordinanza è immune da censure sotto il profilo che si sta esaminando, ravvisandosi inconferente il riferimento ad altra controversia decisa dalla medesima Corte d’appello, in ordine alla quale, per un verso, non è possibile verificare se ricorra identità di fattispecie e, per altro verso, è incontroverso che riguardi parti diverse.

4.3. E’ inammissibile il profilo di censura attinente alla mancata considerazione, nella determinazione della stima, di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificabile. La Corte territoriale ha espressamente puntualizzato di aver determinato il valore delle zone non edificabili (Euro 32 a mq. per zona B e Euro 37 a mq. per zona C) tenendo conto che i terreni, pur non edificabili, “assumono importanza economica e di compendio e completamento dei manufatti di possibile realizzazione” (pag. n. 6 ordinanza), e, quindi, ha effettuato la stima di quei terreni senza arrestarsi al solo valore agricolo.

I ricorrenti non si confrontano con il suddetto iter argomentativo, nè precisano con chiara e puntuale indicazione quale potesse essere l’utilizzazione intermedia di quei terreni e quale la normativa che ne consentisse l’assenso od autorizzazione, sicchè la censura, sotto il profilo in esame, difetta anche di specificità.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 7.300, di cui Euro 100 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2020

 

 

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