Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18984 del 31/07/2017


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Cassazione civile, sez. un., 31/07/2017, (ud. 04/04/2017, dep.31/07/2017),  n. 18984

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente f.f. –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente di Sezione –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – rel. Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20688/2016 proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO

197, presso lo studio dell’avvocato MARIA CRISTINA NAPOLEONI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIANLUCA GAMBOGI;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI

BOLOGNA CONSIGLIO DISTRETTUALE DI DISCIPLINA DEL DISTRETTO DI

BOLOGNA, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata in data

11/06/2016;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/04/2017 dal Consigliere Dott. ULIANA ARMANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FUZIO

Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DEL PROCESSO

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna ha disposto, con decisione in data 16 giugno 2014, l’applicazione all’avvocato M.F. della misura della sospensione cautelare dall’esercizio della professione forense R.D.L. n. 1578 del 1933, ex art. 43, a seguito della condanna in primo grado a tre anni di reclusione per i reati di cui agli artt. 56 e 629 c.p., per aver compiuto atti idonei a costringere una sindacalista, che gli riteneva avesse danneggiato un proprio cliente, a versare allo stesso la somma di Euro 200.000,00 a titolo di risarcimento del danno, dietro minaccia di divulgare fotografie che ritraevano nuda la donna.

Il COA di Bologna ha ritenuto che tale sentenza, sebbene di primo grado, fosse di significativa rilevanza ai fini della ricorrenza del fumus boni juris relativo alla sussistenza della lesione al decoro della professione forense, anche tenuto conto che il fatto costitutivo del reato, di oggettiva gravità, era stato commesso dall’avvocato M. nel corso della gestione di un incarico professionale, per asserite ragioni di tutela del suo assistito

A seguito di impugnazione da parte dell’avvocato M.F., che ha lamentato l’erronea applicazione della previgente normativa in tema di sospensione cautelare in luogo della nuova,più favorevole, in forza del combinato disposto della L. n. 247 del 2012, artt. 60 e 65, art. 11 Consiglio Nazionale Forense ha confermato, in data 11 giugno 2016, la decisione COA di Bologna.

Avverso questa decisione propone ricorso l’avvocato M.F. con sei motivi.

Il ricorso è stato notificato al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna, al Consiglio Distrettuale di disciplina del distretto di Bologna ed al Consiglio Nazionale Forense.

Gli intimati non hanno presentato difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente si osserva che il ricorso, in relazione al Consiglio Nazionale Forense, deve ritenersi inammissibile, atteso che il CNF è il giudice che ha emesso la decisione qui impugnata e che per definizione non può essere parte del procedimento di impugnazione.

2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 132 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 111 Cost., in relazione alla applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 43, in luogo della L. n. 247 del 2012, nuovo art. 60.

Rileva il ricorrente che la motivazione deve essere reale e non apparente, per assolvere alla funzione di garanzia ad essa affidata dall’ordinamento.

Si duole della carenza di motivazione in ordine alla scelta di applicare la previgente normativa in materia di sospensione cautelare in luogo delle nuove norme, più favorevoli al reo, applicabili in base alle previsione della L. n. 247 del 2012, art. 65, anche ai procedimenti disciplinari in corso.

3. Il motivo è infondato.

Il Consiglio Nazionale Forense ha affermato che la L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5, nel prevedere che le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore se più favorevoli per l’incolpato, riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico, per cui essendo la sospensione cautelare di fonte legale e non deontologica, come la prescrizione, ad essa non si applicano le previsioni dell’art. 65, comma 5 della nuova legge professionale.

4. Il Collegio ritiene che nella specie non ricorre la dedotta violazione dell’art. 132 c.p.c., per mancanza o per motivazione apparente, in quanto il Consiglio Nazionale ha preso in esame il motivo di impugnazione relativo all’applicabilità della nuova norma sulla sospensione cautelare e lo ha rigettato con adeguata motivazione.

Nella sostanza le censure del ricorrente attengono alla erronea motivazione in ordine alle ragioni della scelta operata dal Consiglio Nazionale, che non avrebbe esaminato i molteplici profili evidenziati dal ricorrente ai fini dell’applicazione dell’art. 60 della nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, erroneamente parificando l’istituto della sospensione cautelare alla prescrizione.

5. Tale profilo della censura è inammissibile in quanto il presente ricorso è soggetto ratione temporis all’applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54. conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134,che introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014.

La censura formulata dal ricorrente non rientra nella ipotesi di vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità, secondo la formulazione del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5.

6. Con il secondo motivo si denunzia erronea applicazione, in tema di sospensione cautelare, della previgente normativa di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 43,anzichè la nuova disposizione di cui alla L. n. 247 del 2012, art. 60.

Secondo il ricorrente la nuova sospensione cautelare prevista dalla L. n. 247 del 2012, art. 60, deve applicarsi immediatamente in virtù dell’articolo 65 comma 1 della legge sopra citata, che prevede che” fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti previsti nella presente legge si applicano se necessario in quanto compatibili le disposizioni vigenti non abrogate anche se non richiamate”.

L’applicazione della nuova sospensione cautelare discende anche dalla disposizione transitoria disciplinata dall’art. 65, comma 5, della nuova legge professionale, che prevede che le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore se più favorevoli all’incolpato.

7. Con il terzo motivo si denunzia violazione dell’art. 12 preleggi.

Sostiene il ricorrente che vi è stata un’erronea applicazione della vecchia normativa in materia di sospensione cautelare con violazione della previsione dell’art. 12 preleggi, secondo il quale non si può attribuire alla legge altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

8. Con il quarto motivo si denunzia violazione dell’art. 15 preleggi, in quanto il CNF non avrebbe tenuto conto che l’art. 65, comma 1, che prevede un’abrogazione espressa della vecchia normativa.

9. I tre motivi si esaminano congiuntamente per la stretta connessione logico giuridica che li lega e sono infondati.

La L. 21 dicembre 2012, n 247, istitutiva della nuova disciplina dell’ordinamento professionale forense, ha previsto al Titolo V le disposizioni del nuovo procedimento disciplinare.

Nell’ambito del Titolo V all’art. 60, è prevista la nuova disciplina della sospensione cautelare dall’esercizio della professione forense.

In precedenza la misura interdittiva in questione era regolamentata dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 43, commi 3 e 4, in base al quale il Consiglio dell’ordine poteva pronunciare, sentito il professionista, la sospensione dell’avvocato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale o contro il quale fosse stato emesso mandato od ordine di comparizione o di accompagnamento, senza pregiudizio delle più gravi sanzioni.

Introdotto il nuovo codice di procedura penale nel 1989, con l’eliminazione del mandato e dell’ordine di comparizione, la giurisprudenza di legittimità e quella forense hanno interpretato in modo estensivo la norma, tenendo conto della nuova realtà processuale penale, statuendo che la misura poteva essere pronunciata, in presenza di comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e deontologico e di particolare gravità, nel caso in cui l’avvocato fosse stato sottoposto ad una qualsiasi delle misure cautelari personali previste dal codice di rito penale, nonchè in caso di sentenza penale di condanna ancorchè non passata in giudicato.

L’istituto della sospensione cautelare – a differenza della sospensione sanzione (o pena disciplinare), pur configurata nelle norme del R.D.L. del 1933 -, trova le sue ragioni proprio nella esigenza di elidere lo “strepitus fori” che può conseguire alla contestazione di un reato a carico del professionista ed assegna al Consiglio dell’Ordine locale il potere di valutare la sua opportunità, in un’ottica di concreta valutazione dello “strepitus fori” e di bilanciamento tra le ragioni di tutela della immagine di integrità morale della categoria e le ragioni del professionista.

10. Oggi la sospensione cautelare delineata dalla L. n. 247 del 2012, art. 60, è diversa da quella disciplinata dal R.D.L. n. 1578 del 193., art. 43, comma 3, in quanto tipizza le ipotesi che la legittimano, ma come si evince dal testo del citato articolo 60, comma 1, per l’adozione di tale misura cautelare non è necessaria, come in passato, l’apertura del procedimento disciplinare e dunque la predisposizione di un capo di incolpazione.

11. Inoltre, la sospensione cautelare di cui all’art. 43, comma 3, era sine die, laddove quella prevista dall’art. 60 prevede espressamente il limite massimo di un anno, nonchè – a carattere totalmente innovativo – l’inefficacia della sospensione ove nel termine di sei mesi dalla sua irrogazione non venga adottato il provvedimento sanzionatorio.

La competenza a deliberarla spetta ad una apposita sezione del Consiglio Distrettuale di disciplina competente per il procedimento disciplinare, mentre in precedenza la competenza a deliberare la misura spettava al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.

12. Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, la misura interdittiva in questione “non ha natura di sanzione, costituendo piuttosto un provvedimento amministrativo a carattere provvisorio, avente natura propriamente discrezionale, (…) la cui ratio va individuata nell’esigenza di tutelare e salvaguardare la dignità e il prestigio dell’Ordine forense”.

In questi termini, tra le altre, Cass. civ., Sez. U. 23 dicembre 2005 n. 28505, che ha affermato che la sospensione in via cautelare dall’esercizio della professione, che venga disposta dal consiglio dell’ordine a carico di avvocato sottoposto a processo penale, in altri termini, configura un provvedimento, con immediata esecutività, di natura amministrativa, non giurisdizionale, che è giustificato dal mero riscontro della gravità delle imputazioni di cui al suddetto processo, senza alcuna valutazione sulla loro fondatezza, e rispetto al quale, pertanto, non è configurabile una violazione dei principi costituzionali in tema di tutela dello incolpato nell’ambito dell’esercizio della giurisdizione penale (Cass., Sez. U., 9 aprile 1986, n. 2463). In caso di procedimento penale a carico di avvocato, ancora, il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 43, comma 3, conferisce al Consiglio dell’Ordine il potere di disporre, in via cautelare, la sospensione dall’attività professionale, sulla base di una valutazione d’incompatibilità dell’addebito con l’esercizio della professione, indipendentemente da ogni indagine sulla consistenza dell’incolpazione, riservata al giudice penale (Cass., Sez. U., 4 luglio 1987, n. 5867).

13. Pertanto, la sospensione cautelare non è nè un provvedimento giurisdizionale, nè una forma di sanzione disciplinare, come tale suscettibile di applicazione soltanto dopo il procedimento disciplinare, ma costituisce, al contrario, un provvedimento cautelare incidentale di natura amministrativa non giurisdizionale a carattere provvisorio, svincolato dalle forme e dalle garanzie del procedimento disciplinare, nel senso che non richiede la preventiva formale apertura di un procedimento disciplinare.

Tali caratteristiche, del resto, sono rimaste immutate anche con la nuova formulazione dell’istituto di cui alla L. n. 247 del 2012, art. 60, che rimarca in maniera espressa la indipendenza del provvedimento di sospensione cautelare dalla formulazione di un capo di incolpazione e dalla apertura di un procedimento disciplinare.

14. Come corollario della qualificazione giuridica della sospensione cautelare e della natura non giurisdizionale del provvedimento che la dispone, discende la non applicabilità delle norme che strettamente attengono a sanzioni di carattere deontologico.

E’ inapplicabile alla sospensione cautelare sia il primo comma che la L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5, che regolano esclusivamente la successione delle norme del codice deontologico, si che per tutti gli altri profili che non trovano fonte nel codice deontologico resta operante il principio dell’irretroattività delle norme. La non applicabilità in radice della L. n. 247 del 2012, art. 65, assorbe i motivi relativi alla sua interpretazione,denunziati con violazione degli artt. 12 e 15 preleggi.

15. Con il quinto motivo, formulato in via subordinata, si denunzia violazione dell’art. 132 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 111 Cost. in relazione ai presupposti richiesti dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 43.

Sostiene il ricorrente che il Consiglio Nazionale Forense ha fornito una motivazione apparente in ordine ai due presupposti richiesti per l’emissione del provvedimento di sospensione cautelare, con riferimento al oggettiva gravità dei fatti ed al cosiddetto strepitus fuori.

16. Col sesto motivo si denunzia la insussistenza dei presupposti di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 43, per l’applicazione della misura cautelare. Sostiene il ricorrente che nel caso di specie non sussisteva nessun pericolo attuale ed imminente di una lesione all’immagine dell’avvocatura e al decoro della professione in quanto le contestazioni mosse all’incolpato erano assai risalenti nel tempo, trattandosi di fatti presuntivamente commessi in epoca anteriore al gennaio 2006 e che la notizia di tali fatti era stata pubblicata una sola volta il giorno successivo alla sentenza di condanna emessa il 22 maggio 2013.

17. I due motivi si esaminano congiuntamente per la stretta connessione logico giuridica che li lega e sono infondati.

Il Consiglio Nazionale Forense ha confermato la decisione dell’Ordine territoriale mettendo in rilievo che il fatto costitutivo del reato per cui l’avvocato M. era stato condannato a tre anni di reclusione era di oggettiva gravità, in quanto era stato commesso nel corso della gestione di un incarico professionale. Ha ritenuto che la condanna da parte del giudice penale di un avvocato per tentata estorsione, sia pure con riferimento a condotte risalenti nel tempo, di per sè realizzi presupposti per l’applicazione della sospensione cautelare. Infatti l’oggettiva gravità dei fatti e la diffusione della notizia con riferimento alla qualifica professionale del ricorrente, sono circostanze certamente idonee a ledere il prestigio e l’immagine della classe forense, con riguardo ai doveri di dignità e decoro dei comportamenti prescritti dalla legge nell’interesse dei cittadini e la tutela dell’affidabilità personale e professionale dell’avvocato.

18. La motivazione della decisione mette adeguatamente in rilievo la gravità del fatto estorsivo e accerta lo strepitus fori derivato dalla pubblicazione della condanna penale di un avvocato, pubblicazione che lo stesso ricorrente i dice essere avvenuta nel 2013, e quindi in epoca prossima alla decisione del COA di Bologna.

La motivazione della decisione non è mancante e non è apparente, come deduce nel motivo di ricorso l’avvocato M., il quale pur denunziando vizio di violazione di legge, nella sostanza contesta l’accertamento in fatto operato CNF in ordine alla ricorrenza dei due degli elementi necessari per l’applicazione della misura cautelare.

Si ricorda che la impugnazione, in virtù della data di emissione della sentenza, è soggetta alla nuova disciplina dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e la denunzia di vizio di motivazione come formulata non rispetta il modello legale di vizio attinente alla motivazione denunciabile in sede di legittimità.

Il ricorso deve essere rigettato. Nulla per le spese del giudizio di legittimità stante l’assenza degli intimati.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2017

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