Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1898 del 24/01/2022

Cassazione civile sez. trib., 24/01/2022, (ud. 06/12/2021, dep. 24/01/2022), n.1898

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 20349/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

GASSER HUTTE G.M.B.H., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso,

dagli avv.ti Gerhard Brandstatter e Maria Concetta Merrone, nonché

dall’avv. Leonardo Di Brina, ed elettivamente domiciliata presso lo

studio di quest’ultimo, in Roma, via Arcione, n. 7;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 19/02/2015 della Commissione tributaria di

secondo grado di Bolzano depositata il 27 gennaio 2015;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 6 dicembre 2021

dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale, Dott. Mucci Roberto, che ha chiesto

il rigetto del primo motivo e l’accoglimento del secondo motivo.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria di primo grado di Bolzano rigettò il ricorso proposto dalla società Gasser Hutte GmbH avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di disapplicazione delle disposizioni di legge sulle società di comodo di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, presentata ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, della medesima legge in relazione all’anno d’imposta 2011.

2. La sentenza di primo grado venne impugnata, in via principale, dalla società contribuente e, in via incidentale, dall’Agenzia dell’entrate – che chiedeva dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di primo grado – dinanzi alla Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano, che accolse l’appello principale, respingendo quello dell’Ufficio finanziario.

I giudici di secondo grado affermarono, in primo luogo, in conformità all’orientamento prevalente di questa Corte, che il rigetto dell’istanza di disapplicazione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, da parte del direttore regionale delle entrate, poteva essere impugnato solo mediante ricorso alla Commissione tributaria, ritenendo di conseguenza infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado sollevata dall’Agenzia delle entrate.

Riguardo all’appello della società, ritennero dimostrata la sussistenza delle “oggettive situazioni” di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, avendo la società spiegato e dimostrato che la costituzione della s.r.l. era all’epoca la sola possibilità percorribile per evitare l’insolvenza ed il fallimento del ristorante. Inoltre, nel sottolineare che il singolo imprenditore era libero di scegliere la forma societaria per la sua attività, anche se appariva prevedibile a priori che i valori previsti dalle norme antielusive non potessero essere raggiunti, la Commissione tributaria affermò che le circostanze illustrate dalla società sulla necessità della costituzione di una società a responsabilità limitata escludevano una frode fiscale; aggiunse che anche l’ammontare del canone di affitto era da considerarsi equo, emergendo sia dalla consulenza tecnica di parte, sia dalla documentazione depositata che il canone di affitto concordato, pari ad Euro 30.000,00 annui, corrispondeva a quanto solitamente in uso presso aziende simili, cosicché la ricerca di altri locatari, come preteso dai giudici di primo grado, avrebbe soltanto determinato una chiusura più prolungata dell’azienda, con effetti negativi sull’avviamento e, quindi, sull’ammontare del canone di affitto raggiungibile.

3. L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della suddetta decisione, con due motivi. La società contribuente resiste mediante controricorso.

In prossimità dell’udienza pubblica la società controricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 e art. 100 c.p.c. nella parte in cui i giudici di secondo grado, respingendo l’eccezione di inammissibilità del ricorso in primo grado, hanno affermato, richiamando la sentenza n. 17010 del 2012 di questa Corte, che la risposta all’interpello per la disapplicazione delle disposizioni in materia di società di comodo costituisce atto autonomamente impugnabile.

Rilevato che la sentenza richiamata dalla Commissione tributaria ha ritenuto che il diniego all’interpello disapplicativo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37-bis, comma 8, abbia natura provvedimentale, e non di mero parere, e sia atto immediatamente lesivo, in quanto ha “l’effetto di incidere, comunque, sulla condotta del soggetto istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata”, sostiene la ricorrente che entrambe le affermazioni non sono condivisibili per le seguenti ragioni: la ritenuta natura provvedimentale ne comporta, inevitabilmente, la qualificazione come atto impositivo, sebbene la risposta dell’Amministrazione venga resa valutando l’idoneità degli elementi di fatto allegati dal contribuente per provare la sussistenza delle condizioni che legittimano la disapplicazione della disciplina, senza che possa essere esaminata, in tale sede, la fondatezza di quei dati; inoltre la natura lato sensu provvedimentale della risposta ad interpello contrasta con il carattere non vincolante del parere negativo emesso dal Direttore generale che, sebbene definitivo, perché avverso di esso non è ammesso ricorso gerarchico, non impone l’emissione di un avviso di accertamento. Da ciò consegue, secondo la ricorrente, che la risposta a interpello disapplicativo è solo potenzialmente lesiva della sfera giuridica del contribuente, con la conseguenza che se si ritenesse che il catalogo degli atti autonomamente impugnabili possa essere ampliato sulla base della mera lesività potenziale dovrebbe riconoscersi anche l’impugnabilità di circolari e di processi verbali di constatazione, i quali pure influenzano la condotta del contribuente. Dovendosi escludere che la risposta all’interpello abbia natura provvedimentale e sia lesiva della sfera giuridica del contribuente, ammetterne l’autonoma ed immediata impugnabilità vorrebbe dire dare ingresso a un’azione di accertamento negativo preventivo, estranea al modello di giurisdizione tributaria.

1.1. La censura è infondata.

1.2. Questa Corte, con una risalente decisione, ha ritenuto che il diniego, da parte del direttore regionale delle entrate, di disapplicazione di una legge antielusiva, effettuato ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8 è un atto definitivo in sede amministrativa (così indicato espressamente dal D.M. Finanze 19 giugno 1998, n. 259, attuativo della procedura di cui al citato art. 37-bis, comma 8) e recettizio con immediata rilevanza esterna, da qualificarsi come un’ipotesi di diniego di agevolazione, come tale impugnabile innanzi alle Commissioni tributarie, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, lett. h). Il relativo giudizio instaurato dinanzi al giudice tributario, vertendo in materia di diritti soggettivi e non di meri interessi legittimi, è a cognizione piena e si estende, quindi, al merito della pretesa e non è limitato alla mera illegittimità dell’atto per cui, all’esito, potrà essere emessa una decisione sulla fondatezza della domanda di disapplicazione, con conseguente attribuzione, ove ne ricorrano le condizioni applicative, dell’agevolazione richiesta (Cass., sez. 5, 15/04/2011, n. 8663).

1.3. Con la successiva sentenza n. 17010 del 5 ottobre 2012 è stata confermata la impugnabilità del provvedimento di rigetto della istanza di disapplicazione, con la precisazione che deve escludersi l’equiparazione tra “agevolazione fiscale” e “disapplicazione di norma antielusiva”, sicché il provvedimento di rigetto della istanza di disapplicazione non può rientrare in alcune delle categorie di atti impugnabili di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19. La natura tassativa degli atti indicati nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 però, consente una interpretazione estensiva del “catalogo”, sino a ricomprendervi tutti gli atti adottati dell’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni che li sorreggono, portino a conoscenza del contribuente una individuata pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12150).

1.4. Come è stato chiarito con la sentenza n. 17010 del 2012, “A tale conclusione inducono vari elementi, i quali escludono che all’atto de quo possa attribuirsi natura meramente endoprocedimentale o di semplice parere interpretativo (al pari di una circolare). L’istanza, infatti, è obbligatoria; deve contenere la descrizione compiuta della fattispecie concreta; deve essere corredata dalla documentazione rilevante; è soggetta a richieste istruttorie; è rivolta ad ottenere un atto dell’Amministrazione, sia esso da intendere come una sorta di “autorizzazione alla disapplicazione” della specifica norma antielusiva in questione, sia, piuttosto, come sembra più corretto anche in base alla disciplina della materia, quale atto, esso stesso, di esercizio del potere di disapplicazione (che spetta all’amministrazione e non al contribuente); le “determinazioni del direttore generale delle Entrate sono comunicate al richiedente mediante servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, con “provvedimento” “da ritenersi definitivo” (D.M. n. 259 del 1998, art. 1, in specie commi 4 e 6). In sostanza, la risposta all’interpello, positiva o negativa, costituisce il primo atto con il quale l’amministrazione, a seguito di una fase istruttoria e di una valutazione tecnica, e con particolari garanzie procedimentali, porta a conoscenza del contribuente, in via preventiva, il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta, relativa ad un determinato rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere, comunque, sulla condotta del soggetto istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata”.

1.5. Secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte, “in tema di contenzioso tributario, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448” (Cass., sez. 6-5, 5/06/2017, n. 13963; Cass., sez. 5, 28/05/2014, n. 11929).

1.6. E’ stata, quindi, riconosciuta la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, esplicitando le concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che li sorreggono, portino, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19: sorge, infatti, in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, l’interesse, ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale, comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva (e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico) (Cass., sez. 5, 5/10/2012, n. 17010).

1.7. Il contribuente ha, quindi, la facoltà, non l’onere, d’impugnazione di atti diversi da quelli specificamente indicati nel citato art. 19, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento; ciò comporta che la mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 citato non determina, in ogni caso, la non impugnabilità (ossia la cristallizzazione) di questa pretesa, che può essere successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dallo stesso art. 19 (in termini, Cass., sez. 5, 8/10/2007, n. 21045; Cass., sez. U, 11/05/2009, n. 10672; Cass., sez. 5, 18/11/2008, n. 27385; Cass., sez. 5, 15/06/2010, n. 14373; Cass., sez. 5, 7/04/2011, n. 8033; Cass., sez. 5, 18/05/2011, n. 10987; Cass., sez. 5, 22/07/2011, n. 16100).

1.8. La tassatività dell’elencazione degli atti impugnabili contenuta nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 non preclude, dunque, la facoltà al contribuente di impugnare il diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37-bis, comma 8, in quanto seppur atto non rientrante in quelli indicati dall’art. 19, è il provvedimento con il quale l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario, ossia quello risultante dal rifiuto dell’invocata disapplicazione delle norme antielusive (Cass., sez. 6-5, 5/06/2017, n. 13963; Cass., sez. 6-5, 15/02/2018, n. 3775; Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12150; Cass., sez. 6-5, 11/12/2019, n. 32425; Cass., sez. 5, 21/01/2020, n. 1230; Cass., sez. 5, 15/10/2021, n. 28251).

In applicazione di questi principi, è stato anche ritenuto (Cass., sez. 6-5, 19/02/2016, n. 3315) che è immediatamente impugnabile dal contribuente anche la comunicazione d’irregolarità, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis, comma 3, (cd. avviso bonario) e si è pure affermato (Cass., sez. 5, 7/06/2019, n. 15457; Cass., sez.5, 20/12/2018, n. 32962) che “le risposte rese dall’Amministrazione finanziaria agli atti di interpello di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 11 non sono impugnabili, trattandosi di meri pareri che non incidono direttamente in danno del contribuente, salvo quelli resi a seguito di richiesta di disapplicazione di norme antielusive i quali, anche secondo la disciplina anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 156 del 2015, possono essere impugnati in quanto contenenti una compiuta pretesa tributaria”.

1.9. Va, in ogni caso, chiarito che l’omessa impugnazione dell’atto di diniego non pregiudica in alcun modo la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi, poiché si tratta di atto privo di efficacia vincolante. Infatti, la risposta all’interpello non impedisce in primo luogo all’Amministrazione di rivalutare – in sede di riesame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso – l’orientamento (negativo) precedentemente espresso, né al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico che gli venga notificato; ovviamente la risposta positiva del direttore generale impedisce, invece, all’Amministrazione – sempre che i fatti accertati in sede di controllo della dichiarazione corrispondano a quelli rappresentati nell’istanza – l’applicazione della norma antielusiva oggetto dell’interpello, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento, che ha diretto fondamento costituzionale e carattere generale anche nell’ordinamento tributario, nel quale trova espresso riconoscimento con la L. n. 212 del 2000, art. 10.

1.10. Alla stregua delle considerazioni svolte, la società contribuente aveva, dunque, un interesse qualificato, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ad insorgere contro un atto che non era meramente consultivo, ma che aveva una sua lesività, e, quindi, ad invocare il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto in esame.

L’orientamento consolidato formatosi sulla questione prospettata, che non risulta scalfito dalle argomentazioni svolte dalla ricorrente e dal quale questo Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, consente di escludere la necessità di rimessione della questione alle Sezioni Unite.

2. Con il secondo motivo, censurando la decisione gravata per violazione della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, anche in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis la ricorrente lamenta che i giudici di appello hanno errato là dove hanno ritenuto l’inapplicabilità della disciplina sulle società di comodo nei confronti della contribuente. Premettendo che la società aveva incentrato il proprio atto di appello sulla dimostrazione dell’adeguatezza del canone di locazione pattuito con Urban Gasser rispetto alle condizioni di mercato, la difesa erariale evidenzia, prendendo le mosse dal concetto di società di comodo, che la contribuente è una società strutturalmente non operativa, poiché, non disponendo di beni aziendali da utilizzare per la produzione di beni e servizi e possedendo un solo bene immobile concesso in locazione a terzi, non può in alcun modo giovarsi della disapplicazione delle norme sulla società operative per la presenza di “oggettive situazioni” che abbiano determinato il mancato raggiungimento delle soglie previste dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1 ai fini della qualificazione di una società come operativa. Soggiunge la ricorrente che il riferimento alle ragioni che hanno spinto alla costituzione della società sono del tutto irrilevanti rispetto al profilo dell’esistenza delle “oggettive situazioni” di cui parla il comma 4-bis, come pure l’adeguatezza del canone di locazione, trattandosi di circostanze che avvalorano la constatazione che le parti contrattuali hanno inteso dare vita ad una società di mero godimento e come tale non operativa, destinata, per l’intera durata del contratto, a trovarsi nella medesima condizione di non superamento del test di operatività. Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata, ad avviso della ricorrente, rivelano una totale incomprensione della ratio alla base delle disposizioni civilistiche e fiscali sulle società di comodo, che è proprio quella di evitare che ci sii serva della più vantaggiosa disciplina societaria per la realizzazione di scopi completamente estranei al fenomeno dell’esercizio in comune dell’attività d’impresa.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. In termini generali, il regime contenuto nella L. n. 724 del 1994, art. 30 come modificato dapprima con gli interventi previsti nella legge finanziaria 2007 (L. 27 dicembre 2006, n. 296) e, successivamente, con quelli della legge finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007, n. 244), individua un metodo presuntivo di determinazione del reddito minimo che si applica alle società commerciali che, in base a determinati parametri, sono qualificate come “non operative”.

La disciplina opera su due diversi livelli. Ad un primo livello, fornisce la definizione di “non operatività” degli enti (cd. test di operatività), attraverso un confronto tra i proventi derivanti dall’attività d’impresa, emergenti dalla contabilità, e quelli individuati applicando specifici coefficienti al valore dei beni immobili, delle partecipazioni e delle altre immobilizzazioni della società. Ad un secondo livello, per i soggetti che non hanno superato il test di operatività, scatta la presunzione di un reddito minimo, che viene determinato in rapporto al valore dei beni della società, ai quali sono applicati altri coefficienti, e tale reddito minimo costituisce la base per la ulteriore presunzione di un imponibile minimo ai fini Irap; per quanto riguarda l’Iva sono previste limitazioni all’utilizzo dell’eccedenza a credito.

2.3. Come è stato sottolineato in dottrina, la finalità sottesa alla disciplina in esame è quella di “scoraggiare” l’uso dello strumento societario per l’intestazione di beni non funzionali allo svolgimento dell’attività d’impresa e, quindi, per il possesso e la gestione di beni immobili e partecipazioni societarie.

La relazione governativa alla L. 23 dicembre 1996, n. 662 che ha apportato modifiche al citato art. 30 – parla, infatti, di “uso improprio della struttura societaria”, impiegata per “consentire l’anonimato degli effettivi proprietari” e “la deduzione di costi che hanno poco a che fare con l’attività” e ciò lascia intendere che la ratio della disciplina è quella di “fungere da antidoto al dilagare di società anomale” utilizzate per il raggiungimento di finalità estranee alla causa contrattuale.

2.4. Anche la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 2 febbraio 2007 sottolinea che la disciplina in oggetto ha lo scopo di “disincentivare il ricorso all’utilizzo dello strumento societario come schermo per nascondere l’effettivo proprietario dei beni” e “di penalizzare quelle società che, al di là dell’oggetto sociale dichiarato, sono state costituite per gestire il patrimonio nell’interesse dei soci, anziché per esercitare una effettiva attività commerciale”.

2.5. Questa Corte ha più volte precisato che il citato art. 30, comma 4-bis, mira a disincentivare il fenomeno dell’uso improprio dello strumento societario, utilizzato come involucro per raggiungere scopi, quale l’amministrazione dei patrimoni personali dei soci, eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali – come quello, proprio, delle società cd. di mero godimento (Cass., sez. 5, 13/05/2015, n. 21358; Cass., sez. 6-5, 28/09/2017, n. 26728).

In questa prospettiva, il confronto tra il valore oggettivo dei beni posseduti ed i proventi dichiarati dall’ente assume proprio la funzione di identificare i soggetti che si limitano ad una mera gestione dei beni, per cui il mancato raggiungimento degli standard minimi di ricavi riconducibile agli assetti patrimoniali della struttura societaria costituisce indice sintomatico del carattere non operativo della società (Cass., sez. 5, 24/02/2020, n. 4850).

2.6. Dalla condizione di “non operatività” della società deriva un onere più gravoso in termini probatori in sede di accertamento, dal momento che si introduce una presunzione a favore del Fisco che determina un ribaltamento dell’onere della prova a carico della società rispetto al possesso del reddito minimo, che viene fissato dalla norma in base a parametri fissi e di tipo oggettivo.

Per tale motivo si sostiene da più parti che il regime introdotto per le società non operative (o di comodo) presenta, da un lato, una natura che può definirsi antielusiva, proprio perché finalizzata a contrastare l’utilizzo solo strumentale della forma societaria commerciale e, dall’altra, un contenuto antievasivo, perché diretto a far emergere proventi non dichiarati.

Sussiste, pertanto, una necessaria e stretta correlazione tra la condizione di “non operatività” delle società di comodo e la presunzione legislativa di una loro redditività minima e la conseguente manifestazione di capacità contributiva che ne giustifica, sul piano della legittimità, la tassazione sulla base, appunto, di un reddito minimo presunto.

2.7. A fronte della presunzione di reddito minimo fondata su coefficienti “medi” di redditività degli elementi patrimoniali di bilancio, predeterminati dalla norma, la parte contribuente può, tuttavia, addurre prove contrarie al fine di superare tale presunzione, per cui la possibilità di “prova contraria” alla presunzione di ricavi e di reddito è strettamente connessa a specifiche cause di inidoneità reddituale dei relativi elementi dell’attivo patrimoniale.

A tale riguardo, dell’art. 30, il comma 4-bis nella versione vigente ratione temporis, prevede che “in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”, la società interessata “può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8”. Con la specifica che, rispetto alle precedenti formulazioni della norma, nel testo emendato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 109, lett. h), sono state soppresse le parole “di carattere straordinario” in riferimento alle “circostanze oggettive”.

2.8. Ovviamente, la prova contraria offerta dal contribuente può riguardare sia il mancato raggiungimento della soglia di operatività, sia il reddito minimo presunto normativamente, ben potendo la società evidenziare le circostanze che hanno impedito il raggiungimento della soglia minima di componenti presuntivi e che, pertanto, giustificano la minore entità di componenti positivi dichiarati e risultanti dalla contabilità, nonché contestare le ulteriori presunzioni poste dalla normativa, indicando eventuali condizioni che hanno reso impossibile conseguire l’imponibile minimo (in tal senso, anche la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 2007).

L’abrogazione, da parte della legge finanziaria 2007, dell’inciso “salvo prova contraria” nella L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1 è volta, infatti, a chiarire la differenza intercorrente tra le cause di esclusione “automatiche” della disciplina (previste dal comma 1) e la prova contraria, basata sulle “condizioni oggettive”, che il contribuente può far valere ai sensi del comma 4-bis richiamato.

Ne consegue che ogni situazione in grado di giustificare la divergenza tra il quantum dichiarato dal contribuente ed il quantum determinato applicando i parametri di legge deve essere presa in considerazione al fine di verificare il superamento delle presunzioni di legge. La caratteristica di “oggettività” delle situazioni che il contribuente può far valere, nella ratio dell’art. 30, comma 4-bis non ha, infatti, la funzione di distinguere tra cause esterne, che si impongono al soggetto, e cause che derivano (anche solo in parte) da libere determinazioni di quest’ultimo, ma quella di richiedere che quest’ultimo sia in grado di dimostrare oggettivamente la non fittizietà di quanto dichiarato.

2.9. Secondo le indicazioni ritraibili dalle più recenti pronunce di legittimità, la nozione di impossibilità, di cui all’art. 30 citato, comma 4-bis del conseguimento di ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi, nonché del reddito determinati secondo i criteri predeterminati dello stessa disposizione, deve essere intesa “non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato” (Cass., sez. 5, 20/06/2018, n. 16204; Cass., sez. 6-5, 12/02/2019, n. 4019; Cass., sez. 5/ 4/12/2019, n. 31626; Cass., sez. 5, 1/02/2019, n. 3063; Cass., sez. 5, 28/05/2020, n. 10158), e ciò in coerenza con la ratio antielusiva che connota la disciplina sulle società “non operative”. In conformità a tale ratio, questa Corte – con riguardo a periodo di imposta per il quale operava la L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, nel testo antecedente alle integrazioni introdotte dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1 – ha, anche di recente, ribadito il principio secondo cui in tema di società di comodo, l’impossibilità per l’impresa di conseguire il reddito minimo secondo il meccanismo di determinazione di cui al richiamato art. 30, per situazioni oggettive di carattere straordinario, deve essere intesa non in termini assoluti, bensì elastici, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell’attività produttiva con risultati reddituali conformi agli standard minimi legali ovvero ne ritardi l’avvio oltre il primo periodo di imposta” (Cass., sez. 5, 3/11/2020, n. 24314).

3. Tanto premesso, nel caso di specie, la società contribuente, nell’intento di dimostrare la sussistenza di situazioni oggettive che avrebbero reso impossibile il conseguimento del reddito minimo presunto, ha dedotto che, al fine di superare la forte esposizione debitoria di Gusser Urban, si era resa necessaria la costituzione della società di capitali a responsabilità limitata Gasser Hutte tra la società Haka A.G. e Urban Gasser, al 50 per cento ciascuno; la HAKA A.G. ha corrisposto la quota sociale mediante conferimento in denaro, mentre Gasser URBAN ha conferito la propria impresa individuale che aveva ad oggetto la gestione di un rifugio alpino. Contemporaneamente alla costituzione della società di capitali, la stessa società che aveva rilevato l’azienda di ristorazione, ha sottoscritto un contratto di locazione del locale ricettivo al canone annuale di Euro 30.000,00 che teneva conto delle condizioni di mercato.

3.1. La Commissione tributaria di secondo grado, all’esito della valutazione delle circostanze di fatto che la contribuente ha invocato a giustificazione del mancato raggiungimento del reddito minimo presunto, ha ritenuto dimostrate le “oggettive situazioni” che la L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, esige ai fini della disapplicazione delle norme antielusive, sottolineando, da un lato, che la costituzione della società a responsabilità limitata costituiva la sola “possibilità percorribile per evitare l’insolvenza temuta e quindi il fallimento del ristorante”, e, dall’altro, che “l’ammontare del canone di affitto è da considerarsi del tutto equo”, posto che sia dalla consulenza tecnica di parte prodotta nel giudizio di appello sia dall’ulteriore documentazione depositata emergeva che il canone di affitto concordato, pari a Euro 30.000,00 annui, corrispondeva a quello solitamente praticato presso aziende simili.

3.2. Il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito per addivenire alla disapplicazione della normativa in esame non si discosta dai criteri dettati dai documenti di prassi.

3.2.1. Con la circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007, la Agenzia delle entrate ha chiarito, con riguardo alle società immobiliari (paragrafo 4.5), che integra “situazione oggettiva” che legittima la disapplicazione della normativa sulle società non operative la “dimostrata impossibilità, per la società immobiliare, di praticare canoni di locazione sufficienti per superare il “test di operatività” ovvero per conseguire un reddito effettivo superiore a quello minimo presunto”, qualora i canoni dichiarati siano almeno pari a quelli di mercato, determinabili ai sensi dell’art. 9 del t.u.i.r.; con la precisazione che “le oggettive situazioni sopra elencate potranno essere fatte valere, ai fini della disapplicazione della disciplina in commento, anche da società o enti non immobiliari, in relazione a determinati immobili dai medesimi posseduti”.

3.2.2. Con la successiva circolare n. 25/E del 2007, paragrafo 8, l’Agenzia delle entrate ha ulteriormente precisato che “per la determinazione del valore di mercato dei canoni di locazione si potrà far riferimento ai valori (espressi in Euro per mq al mese) riportati nella banca dati delle quotazioni immobiliari dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare…”.

3.2.3. Tali indicazioni hanno trovato sostanziale conferma nella risposta all’interpello n. 68 del 20 febbraio 2019, nella quale è stato affrontato il caso di una società, avente quale oggetto sociale “l’acquisto, la costruzione ed il risanamento – mediante stipulazione di contratti di appalto – la conduzione, l’amministrazione, la vendita, la cessione in locazione e la cessione in affitto di immobili in generale”, che era stata beneficiaria di un’operazione di doppia scissione parziale proporzionale, al fine di attribuire alla stessa “i patrimoni immobiliari strumentali delle società “sorelle” per motivi di riorganizzazione aziendale” e che aveva concesso in “(retro)locazione commerciale gli immobili ad essa assegnati…a valori di mercato, alle società scisse”.

Nell’istanza la società ha precisato che gli importi delle locazioni dei rami immobiliari erano compresi nel range dei valori O.M.I., ma che essi non risultavano sufficienti al superamento del cd. test di operatività di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30 e l’Agenzia delle entrate, richiamate le precisazioni contenute nelle proprie circolari (nn. 5/E/2007 e 25/E/2007), ha fornito parere positivo alla disapplicazione della disciplina “a condizione che le quotazioni O.M.I.” non si discostassero da quelle riportate nell’istanza.

3.3. Ebbene, la Commissione di secondo grado ha fatto corretta applicazione dei criteri suesposti – con giudizio che quanto al merito non può essere sindacato in questa sede – rilevando in fatto che nell’annualità fiscale in contestazione la società contribuente è stata gestita senza obiettivi di profitto immediati e concreti, perché l’unico bene di proprietà costituito da un immobile destinato a rifugio alpino è stato concesso in locazione ad uno dei soci ad un canone che è stato ritenuto congruo rispetto alle condizioni di mercato e del tutto remunerativo.

L’accertata congruità ed adeguatezza del canone di locazione consente di ritenere superate le deduzioni difensive dell’Agenzia delle entrate, che sono sostanzialmente finalizzate ad un riesame del merito della controversia, risultando evidente che il mezzo in esame intende mascherare, sotto le forme del denunciato vizio di violazione di norma di legge, una censura diretta a rimettere in discussione, ma inammissibilmente, l’accertamento in fatto compiuto dal giudice d’appello.

4. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Quanto alla regolazione dell’obbligo del pagamento del doppio del contributo unificato, va fatta applicazione – nei confronti dell’Agenzia delle entrate – del principio secondo cui, nei casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso (Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974; Cass., sez. U, 25/11/2013, n. 26280).

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 6 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2022

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