Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18924 del 31/07/2017


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Cassazione civile, sez. III, 31/07/2017, (ud. 04/11/2016, dep.31/07/2017),  n. 18924

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19693/2014 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO GEN. GONZAGA DEL

VODICE 2, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO PAZZAGLIA, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO NICOLINI

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G., CI.ED., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

SANTA MELANIA 15, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO RICCIULLI,

rappresentati e difesi dall’avvocato BRUNO SERIANNI giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 572/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 24/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/11/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ALESSANDRO PAZZAGLIA;

udito l’Avvocato BRUNO SERIANNI;

udito l’Avvocato ANTONIO RICCIULLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

Ci.Ed. e G. convennero dinanzi al Tribunale di Casale Monferrato il padre E. – cui la loro madre, G.L., aveva concesso in affitto, con 4 differenti contratti, alcuni terreni siti in (OMISSIS) -, chiedendone il rilascio all’esito dell’infruttuoso tentativo di conciliazione esperito, L. n. 203 del 1982, ex art. 46, in data 6.12.2006.

Esposero gli attori che i primi due contratti erano giunti a naturale scadenza, e per essi ne era stato espressamente escluso il rinnovo tacito, mentre per gli altri era stata comunicata l’intenzione di non procedere al rinnovo, con lettera raccomandata del 26.4.2005, avente valore ricognitivo della volontà già espressa in tal senso dalla madre in qualità di precedente proprietaria, così come accertato dalla sentenza 22.3.2001 del medesimo Tribunale, nell’occasione adito in merito alla controversia relativa alla domanda di risoluzione dei contratti per inadempimento del conduttore, moroso nel pagamento dei canoni di affitto.

Gli attori chiesero, pertanto, che l’adito Tribunale dichiarasse, in via principale, la cessazione dei primi due contratti, per naturale scadenza, alla data, rispettivamente, dell’11.11.2006 e dell’11.11.2004, e quella degli altri due alla data dell’11.11.2005, ovvero in subordine la risoluzione di questi ultimi ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 5.

Il convenuto, nel costituirsi, eccepì l’infondatezza delle domande, chiedendo, in via riconvenzionale, il pagamento in suo favore della somma di 130 mila Euro a titolo di migliorie – importo superiore di circa 30 mila Euro rispetto a quello accertato nella relazione della Direzione Politiche Agricole della provincia di Alessandria.

Il giudice di primo grado, con sentenza del 9.7.2012, accolse in parte la domanda, dichiarando cessati per finita locazione i primi due contratti – rispettivamente, all’11.11.2206 ed all’11..11.2004 -; ritenendo che le restanti convenzioni d’affitto dovessero cessare alla data dell’11.11.2014 (per essere risultata tardiva la relativa lettera di disdetta, con conseguente rinnovazione tacita novennale dell’affitto); condannando il convenuto al rilascio dei terreni secondo le indicate scadenze; rigettandone le domande riconvenzionali e condannandolo, ex art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento della somma di 4.000,00 Euro.

La corte di appello di Torino, investita dell’impugnazione proposta dal convenuto, la rigettò.

Avverso la sentenza della Corte piemontese C.E. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di 6 motivi di censura.

Ci.Ed. e G. resistono con controricorso.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione della L. n. 203 del 1982, art. 46, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta il ricorrente la mancata coincidenza tra l’estensione dei terreni indicati in sede di conciliazione e quelli oggetto di istanza di restituzione dinanzi al giudice di primo grado, la mancanza di alcuni mappali tra quelli oggetto di ricorso, l’illegittimità della domanda, proposta in via subordinata, di rilascio in altra data di terreni a loro volta non oggetto del tentativo di conciliazione.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione della L. n. 203 del 1982, art. 4, e dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta il ricorrente l’erroneità dell’interpretazione adottata dalla Corte territoriale (nel senso dell’esonero della proprietà dall’onere di disdetta) con riferimento alla clausola contenuta nel contratto del 18.9.1992, avendo i giudici di appello omesso di valutare in parte qua la comune intenzione dei contraenti ed il loro complessivo comportamento, anche posteriore alla conclusione del contratto.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta il ricorrente il medesimo error iuris in cui sarebbe incorso il giudice di appello nell’interpretare la clausola contenuta nel contratto di affitto del 1 marzo 1995.

Con il quarto motivo, si denuncia violazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta il ricorrente il medesimo error iuris in cui sarebbe incorso la Corte territoriale nell’interpretare la clausola contenuta nel contratto di affitto del 16 settembre 1996.

Con il quinto motivo, si denuncia violazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta il ricorrente, con riferimento al contratto di affitto del 16 settembre 1996, che i giudici di appello non avrebbero adeguatamente valutato la produzione documentale relativa all’autorizzazione concessagli, per scrittura privata, all’esecuzione di un impianto ai sensi del Reg. CEE 2080/1992.

Con il sesto motivo, si denuncia violazione della L. n. 203 del 1982, artt. 16,17 e 20, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta il ricorrente il mancato riconoscimento della – pur motivatamente richiesta – indennità di miglioramenti, e del conseguente diritto di ritenzione dei fondi L. n. 23 del 1982, ex art. 20.

Tutte le censure dianzi descritte risultano manifestamente infondate.

La Corte territoriale, con motivazione assai ampia, del tutto esaustiva e sicuramente scevra da qualsivoglia vizio logico-giuridico, ha, difatti, condivisibilmente affermato:

– Che, nella pur accertata differenza, rispettivamente, tra le superfici oggetto del tentativo di conciliazione e quelle rappresentate del ricorso dinanzi al giudice di prime cure, nella specie non risultava richiesto nè ordinato il rilascio per mappati diversi rispetto a quelli oggetto del tentativo stesso (discussa essendo la sola esatta indicazione delle superfici), mentre il dato relativo all’estensione del mappate, in presenza di una corretta indicazione dei dati catastali dei terreni, non assumeva alcuna rilevanza ai fini dell’identificazione degli stessi, onde l’eventuale inesattezza del dato dell’estensione del fondo non era idonea ad ingenerare alcun equivoco in ordine al bene oggetto della domanda di rilascio;

– Che l’inserimento di alcuni fondi non presenti tra quelli oggetto di ricorso nel tentativo di conciliazione non aveva, ipso facto, comportato alcuna modifica della domanda giudiziale, volta che la improcedibilità della stessa avrebbe potuto (logicamente ancor prima che giuridicamente) conseguire soltanto all’esito di un eventuale indicazione, in essa, di terreni non oggetto di conciliazione, e non viceversa;

– Che la decisione relativa all’efficacia della disdetta tardiva era conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte in punto di relativa efficacia differita alla prima scadenza successiva, senza alcuna lesione della ratio ispiratrice della norma L. n. 203 del 1982, ex art. 46;

– Che l’accertamento del competente ufficio provinciale non attribuiva, in caso di contestazione, all’ufficio stesso il compito di accertare l’esistenza di un diritto all’indennità da miglioramenti, escluso in sede giudiziale all’esito di una articolata e puntuale CTU.

Osserva, pertanto, il collegio che la Corte territoriale, in attuazione del generale principio di diritto processuale che impone, nella motivazione, il rispetto di criteri logici di giustificazione razionale del raggiunto convincimento e dell’adottata decisione, offre chiara e puntuale valutazione, condivisibilmente argomentata, della valenza e dell’efficacia probatoria attribuita agli elementi acquisiti al processo, ritenendo la ricostruzione del fatto, così come operata in sede di motivazione, dotata di un più elevato grado di conferma logica e di credibilità razionale rispetto ad altre, possibili e pur prospettate ipotesi fattuali alternative.

Tutti i motivi di censura sono, pertanto, irrimediabilmente destinati ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello dianzi descritto, dacchè essi, nel loro complesso, pur formalmente abbigliati in veste di denuncia di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito.

Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c. mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della loro interpretazione e della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile).

Nella specie, il ricorrente, pur denunciando, formalmente, un insanabile deficit motivazionale della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto e di diritto, sul piano interpretativo, sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai consolidatosi, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione probatoria, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata – quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

In particolare, poi, quanto all’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto delle convenzioni negoziali e delle clausole in esse contenute per le quale è ancora processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va nuovamente riaffermato che, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione (sì come dettati dal legislatore agli artt. 1362 ss. c.c.) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n.2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza.

Liquidazione come da dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 7.200, di cui 200 per spese.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2017

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