Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18922 del 15/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 15/07/2019, (ud. 21/03/2019, dep. 15/07/2019), n.18922

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24211/2017 R.G. proposto da:

F.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Sebastiano

Ghirlanda, con domicilio eletto in Roma, via Olevano Romano, n. 208,

presso lo studio dell’Avv. Susanna Antonelli;

– ricorrente –

contro

Diners Club Italia S.r.l., rappresentata e difesa dall’Avv. Francesco

Picone, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via

Antonio Gramsci, n. 22;

– controricorrente –

e nei confronti di:

C.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Messina, n. 495/2016,

depositata il 13 settembre 2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 marzo 2019

dal Consigliere Dott. Iannello Emilio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza in oggetto la Corte d’appello di Messina ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da F.G. avverso decreto ingiuntivo nei suoi confronti emesso su ricorso della Diners Club Italia S.r.l. (condannando però C.G., chiamato in causa, al risarcimento dei danni in favore dell’opponente nella misura di cui alla somma ingiunta).

Secondo quanto esposto in sentenza, “la vicenda riguarda una carta di credito (categoria business) rilasciata dall’Istituto Diners a favore del F. e su conto corrente dello stesso; tutto ciò tramite regolare contratto stipulato dallo stesso odierno appellante”.

Le ragioni della decisione sono quindi illustrate dalla Corte territoriale come segue: “è evidente che di tutte le spese effettuate su tale carta deve risponderne il titolare, cioè il F., sul quale grava altresì l’onere sia di custodire la carta che di evitarne l’eventuale uso indebito da parte di terzi.

“Tutto ciò che poi in realtà sembra essere successo, con l’uso indebito della carta da parte del Chindemi, è ovviamente e senza alcun dubbio questione estranea alla DINERS, alla quale in ogni caso, nel corso del rapporto, nulla è stato mai fatto presente.

“Nemmeno la sentenza penale emessa a carico del Chindemi può avere alcuna influenza nel rapporto DINERS – F.. Indiscutibilmente il meno che possa dirsi è che il F. ha tenuto un comportamento superficiale e del tutto negligente, non curandosi e non preoccupandosi dell’uso che eventualmente altri facevano della carta in questione. Delle somme quindi sborsate dalla DINERS deve quindi “in prima battuta” rispondere l’odierno appellante, salvo poi lo stesso rivalersi su chi di dovere”.

2. Avverso tale decisione F.G. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resiste Diners Club Italia S.r.l..

L’altro intimato non svolge difese nella presente sede.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Considerato che:

1. Con il primo motivo di ricorso F.G. denuncia “errata valutazione delle risultanze documentali in relazione alla titolarità della carta di credito”.

Dalla successiva illustrazione del motivo possono, in sintesi, estrapolarsi le seguenti doglianze:

– il giudice d’appello ha rigettato il gravame senza alcuna motivazione, riportandosi alle conclusioni della sentenza di primo grado;

– lo stesso, riportandosi genericamente alle motivazioni esposte nella prima sentenza, non ha valutato i motivi d’appello;

– la carta di credito per cui è causa era una carta business aziendale la cui titolarità, contrariamente a quanto affermato in sentenza, era della Selife S.r.l., mentre il F. era solo un intestatario (circostanza che, secondo il ricorrente, sarebbe comprovata: dalla sentenza penale che ha condannato il C. per il reato di truffa aggravata a danno dei singoli intestatari delle carte di credito; dalle condizioni di rilascio del documento; dal fatto che sulla carta era stata concessa una scopertura di oltre Euro 30.000, cosa impossibile se essa fosse stata realmente intestata al F.; dalla lettera inviata dal C. alla Diners in risposta a richiesta di restituzione somme che quest’ultima aveva in precedenza indirizzato alla società Selife).

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia poi “errata valutazione e falsa applicazione delle norme di legge in merito alla prova sulla condotta negligente”.

Si sostiene che:

– ai sensi dell’art. 11, lett. d) delle condizioni contrattuali la responsabilità del socio sussiste solo in caso di condotta illegale o gravemente negligente, non predicabile nella specie a carico del F., essendo stato egli stesso vittima del reato di truffa;

– la Corte d’appello, al contrario, ha confermato l’addebito al F., senza dare una compiuta risposta ai motivi di appello;

– erroneamente la Corte di merito ha negato alcun rilievo alla sentenza penale emessa nei confronti del C.;

– il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, in attuazione della direttiva 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, pone il rischio dell’indebito utilizzo della carta sull’intermediario, a meno che non risulti una colpa grave del cliente: presupposto non desumibile dalla sola circostanza che il F. non si sia reso conto degli esborsi.

3. Con il terzo motivo, infine, il ricorrente deduce “errata o falsa applicazione della prova in ordine alla mancata contestazione degli estratti conto e sull’ammontare del debito”.

Si rileva – quale motivo asseritamente proposto in appello e non vagliato dal giudice a quo – che mai nessun estratto è stato recapitato al ricorrente e che quest’ultimo, non appena venuto a conoscenza dell’esposizione debitoria operata sulla carta di credito, ha immediatamente sporto denuncia presso le competenti autorità, con ciò stesso contestando integralmente gli estratti per non avere mai effettuato le spese indicate.

4. I tre motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, si espongono a plurimi rilievi di inammissibilità.

4.1. E’ anzitutto carente il requisito di contenuto-forma prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorso, infatti, nella premessa anteposta alla esposizione dei motivi, riferisce testualmente quanto segue:

“Il presente giudizio trae origine dall’opposizione a decreto ingiuntivo n. 1134/03 emesso dal Tribunale di Messina il 17.11.2003 a mezzo della quale il sig. F. conveniva, dinanzi al Tribunale di Messina, la Diners Club Italia s.p.a. (oggi s.r.l.) e il sig. C.G. chiedendo la revoca del d.i. opposto, poichè nulla era dovuto alla Diners Club Italia dal ricorrente essendo unico obbligato del debito per cui è causa il sig. C.G. legale rapp.te della ditta Selife srl.

“Nella propria opposizione il sig. F. eccepiva in via preliminare la nullità assoluta del contratto, stipulato con la Diners Club Italia s.p.a., con cui si è dato corso al rilascio della carta business, in quanto privo degli elementi essenziali, ed in via subordinata eccepiva che nulla poteva comunque essergli addebitato, in quanto mai nessuna scopertura della carta di credito gli era stata comunicata e che in ogni caso lo stesso era stato vittima di una truffa, operata ai propri danni dal legale rappresentante della ditta Selife s.r.l., il sig. C.G., nei confronti del quale l’attore aveva immediatamente sporto denuncia-querela una volta venuto a conoscenza dei fatti illeciti verificatisi a suo danno.

“A riprova che al sig. F.G. alcuna negligenza poteva essere addebitata, questi produceva nel giudizio di primo grado la sentenza emessa dal Tribunale di Palermo il 3/1 0/2005, con la quale in seguito alle denunce/querele presentate da F.G. (doc. alleg. fasc. I grado) e dalle altre persone offese, si condannava il sig. C.G., addebitandogli le circostanze aggravanti previste dall’art. 61 c.p., n. 7 (danno patrimoniale di rilevante gravità) e dall’art. 61 c.p., n. 11 (abuso di relazioni di prestazioni d’opera), per aver commesso l’indebita utilizzazione di carte di credito, nonchè il reato di truffa in danno dei propri dipendenti.

“Proprio sulla scorta di tale ragionamento il giudice Giudice Istruttore Dott. C., nell’ordinanza del 23.7.2003, rigettava la richiesta di concessione della clausola di provvisoria esecutività del d.i..

“Posta la causa in riserva sui mezzi istruttori, il giud. O. – che nelle more aveva sostituito il giud. C. – a scioglimento della stessa, ritenendo la causa prettamente documentale rigettava l’ammissione dei chiesti mezzi istruttori e la rinviava per la decisione.

“All’udienza fissata per la decisione, ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. il Giudice pronunciava la sentenza con la quale rigettava l’opposizione proposta dal sig. F. confermando il d.i. opposto.

“Avverso tale sentenza l’odierno ricorrente proponeva appello per i seguenti motivi:

“1) Errata valutazione delle risultanze documentali in relazione alla titolarità della carta di credito.

“2) Errata valutazione e falsa applicazione delle nonne di legge in merito alla prova sulla condotta negligente.

“3) Errata o falsa applicazione della prova in ordine alla mancata contestazione degli estratti conto.

“Nel giudizio si costituiva la Diners Club, contestando quanto dedotto da parte appellante mentre rimaneva contumace il sig. C.G.. Anche in tale giudizio era rinnovata la richiesta di ammissione dei mezzi istruttori già avanzati in primo grado, che era rigettata.

“La causa era così decisa mediante l’impugnata sentenza di rigetto”. Tale essendo la premessa esposta in ricorso, non può non rilevarsi che:

– dei fatti costitutivi della pretesa non si ha sufficiente contezza;

– non è dato conoscere le ragioni poste a fondamento della decisione di primo grado;

– i motivi d’appello sono indicati attraverso l’enunciazione della relativa rubrica (peraltro esattamente coincidente a quella dei motivi del ricorso per cassazione), ma senza illustrazione del relativo contenuto;

– nessun cenno è dedicato alle ragioni in fatto e in diritto opposte dalla controparte;

– manca alcuna indicazione delle motivazioni della sentenza d’appello.

Nè tali elementi sono desumibili dai motivi di ricorso, risolvendosi gli stessi, come appresso sarà ulteriormente evidenziato, nella mera prospettazione di questioni di merito, ovviamente nella prospettiva argomentativa del ricorrente.

Il ricorso, dunque, non rispetta il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che, essendo considerato dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione che deve garantire alla Corte di cassazione, di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. Sez. U. 18/05/2006, n. 11653).

La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. sez. un. 2602 del 2003).

Stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed in fine del tenore della sentenza impugnata.

Poichè il ricorso, nell’esposizione del fatto, non rispetta tali contenuti è inammissibile.

4.2. E’ palese altresì la violazione del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, essendo il ricorso fondato su motivi che, al di là della mancata indicazione numerica delle ipotesi censorie di cui all’art. 360 c.p.c., non sono comunque immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931)

I motivi, la cui rubrica è già di per sè lontana da puntuali riferimenti ai vizi tipizzati, espongono censure eterogenee e spesso contraddittorie.

Va al riguardo ancora una volta rimarcato che la sovrapposizione di censure di diritto, sostanziali e processuali, non consente alla Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate (Cass. Sez. U. n. 9100 del 2015; Sez. U. n. 16990 del 2017; conf. Cass. n. 3554 del 2017). La tipizzazione dei motivi di ricorso comporta, infatti, che il generale requisito della specificità si moduli, in relazione all’impugnazione di legittimità, nel senso particolarmente rigoroso e pregnante, sintetizzato con l’espressione della c.d. duplice specificità, essendo onere del ricorrente argomentare la sussunzione della censura formulata nella specifica previsione normativa alla stregua della tipologia dei motivi di ricorso tassativamente stabiliti dalla legge.

Nella specie la tendenziale promiscuità della formulazione delle censure in esame avviluppa gli asseriti vizi strutturali della motivazione, ma anche l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge sostanziale e processuale. Si tratta, dunque, di mezzi d’impugnazione difficilmente sovrapponibili e cumulabili in riferimento al medesimo costrutto argomentativo che sorregge la sentenza impugnata.

Il primo motivo, in particolare, sembra in rubrica evocare un vizio di motivazione (peraltro declinato in termini – erronea valutazione di prove – ben lontani dal paradigma censorio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ma poi nella successiva illustrazione accomuna a questo la diversa e incompatibile doglianza di omessa motivazione.

Il secondo motivo sembra dedurre in rubrica un error iuris (forse riferibile al D.Lgs. n. 11 del 2010 successivamente evocato) ma nella successiva illustrazione non solo non indica quale sia l’affermazione giuridicamente erronea o la regola di giudizio in concreto applicata in contrasto con le norme applicabili, ma sovrappone a tale generica doglianza censure con essa incompatibili di omessa pronuncia sui motivi d’appello (peraltro come detto mai nemmeno specificati) o di erronea ricognizione delle condizioni contrattuali.

Il terzo motivo infine, oltre a evocare un vizio di “errata o falsa applicazione della prova”, incomprensibile sul piano logico prima che non riferibile ad alcuno dei vizi deducibili in cassazione, si risolve al contempo nella denuncia di omessa pronuncia su un motivo d’appello (anche del quale si omette alcuna specificazione) e nella mera prospettazione di una allegazione difensiva senza che ne sia in alcun modo specificato il rilievo censorio.

4.3. Palese anche la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 per il ripetuto riferimento ad atti o documenti (sentenza penale, condizioni contrattuali) dei quali non è riportato in termini sufficientemente esaustivi il contenuto.

5. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quelli incidentali, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 21 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2019

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