Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18920 del 16/09/2011

Cassazione civile sez. trib., 16/09/2011, (ud. 19/04/2011, dep. 16/09/2011), n.18920

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27618-2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA FLAMINIA

366, presso lo studio dell’avvocato D’ALESSANDRO M. CRISTINA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ATTARDI LUCILLA A.,

giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 16/2006 della COMM.TRIB.REG. di TORINO,

depositata il 17/05/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato ATTARDI, che si riporta al

controricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.A. espose, in sede di dichiarazione relativa all’anno 1990, un credito iva per L. 16.635.000. Nel novembre 1999 cessò l’esercizio dell’attività d’impresa. Indi, il 5 giugno 2003, chiese il rimborso del suddetto credito alla competente agenzia delle entrate. Tale istanza venne respinta, per intervenuta decadenza, con provvedimento del 7 luglio 2004, avverso il quale l’interessata propose ricorso alla commissione tributaria provinciale di Verbania, sulla considerazione che, in mancanza di apposite previsioni, l’istanza di rimborso dovevasi ritenere legittimamente proposta nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.). Il ricorso fu accolto con sentenza sul punto confermata, in appello, dalla commissione tributaria regionale del Piemonte. La quale motivò ritenendo che il diritto al rimborso di un’eccedenza d’imposta non fosse subordinato alla utilizzazione di un particolare modello ministeriale, invero surrogabile a mezzo di istanza altrimenti redatta. Ritenne che tale istanza, a sua volta, non potesse dirsi subordinata al rispetto di specifici termini, e in particolare al termine residuale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 di contro eccepito dall’amministrazione, dovendo una decadenza, in quanto corrispondente a una funzione sanzionatoria, risultare esplicitamente prevista dalla legge; e che, nel caso di specie, l’indicazione del credito d’imposta in dichiarazione annuale dovevasi considerare espressione della volontà di ottenere il rimborso, così da determinare l’esclusione di qualunque ipotesi di decadenza.

Contro questa sentenza, depositata il 17 maggio 2006, l’agenzia delle entrate interpone ricorso per cassazione affidato a un motivo.

L’intimata resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Deve la Corte preliminarmente rilevare che, dopo aver esattamente indicato la parte intimata ( B.A.), il ricorso per cassazione menziona, nella prima riga della narrativa in fatto, per un evidente refuso, il cognome ” A.”, che invece corrisponde al difensore della intimata medesima.

Trattasi di chiaro errore materiale non incidente sull’esatta individuazione delle parti e dunque sull’esito della controversia.

Con l’unico motivo, concluso da idoneo quesito di diritto, la ricorrente denunzia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 30 e 38-bis, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21. In sintesi sostiene che la disciplina della procedura di rimborso dell’Iva rilevante ratione temporis presupponeva l’utilizzazione dell’apposito modello VR, approvato con D.M. 29 dicembre 2000, in mancanza del quale era sì ammessa la possibilità di richiedere il rimborso mediante la presentazione di specifica istanza all’ufficio territoriale dell’agenzia delle entrate, ma entro il termine decadenziale eccepito.

Poichè, difatti, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30 non prevede alcun termine di presentazione della suddetta istanza, viene in rilievo – ad avviso dell’amministrazione ricorrente – il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2. Sicchè la contribuente avrebbe dovuto richiedere il rimborso, nella forma alternativa sopra detta, entro il termine decadenziale di due anni previsto dalla disposizione residuale.

2. – Il motivo, a giudizio del collegio, è fondato nei limiti e per le considerazioni che seguono.

Deve premettersi, che, sull’annoso tema dei rimborsi dell’Iva, si rinvengono, nella giurisprudenza della Corte, affermazioni- eterogenee. Tanto è dovuto alla oggettiva complessità del campo di indagine, in seno al quale si fronteggiano interessi in qual misura contrapposti: da un lato, l’interesse del contribuente alla (celere e) sicura liquidazione di quanto versato in eccedenza (dovendosi tener conto del parametro generale di capacità contributiva);

dall’altro, l’esigenza dell’erario di svolgere opportune preliminari verifiche in ordine all’effettività del diritto al rimborso, al fine di evitare – pur sempre in relazione al medesimo parametro – l’accoglimento di pretese indebite.

Il legislatore – anche tenuto conto che quello dei rimborsi dell’Iva è uno dei settori più esposti alla fattispecie di frode in danno dell’erario – ha pertanto tipizzato sia i presupposti, sia le procedure intese all’ottenimento dei rimborsi medesimi. Al punto che – come la dottrina più attenta non ha mancato di notare – le disposizioni sull’Iva non prevedono, per es., il rimborso da indebito (allorchè l’imposta sia stata irregolarmente o illegittimamente percetta), se non sotto il profilo della previa rettifica di inesattezze della fatturazione o della registrazione. Mentre dettano regole specifiche – nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30 per il credito d’imposta non derivante da indebito. Nel caso di specie, rileva ratione temporis il testo del citato art. 30 come conseguente alle modifiche apportate dal D.Lgs. 24 marzo 1999, n. 81.

3. – Tra le suddette specifiche disposizioni, è annoverato il principio in base al quale l’opzione, tra il rimborso dell’eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione annuale e il suo computo in detrazione nel successivo periodo d’imposta, va effettuata nella dichiarazione annuale. L’opzione per il rimborso – salvi i casi di procedura cd. accelerata, che qui non rilevano – dipende dalla presenza di due alternative condizioni: (a) che il credito d’imposta sia superiore a L. 5.000.000, laddove peraltro sussistano le ulteriori condizioni di cui ai commi 3 e 4 del ridetto art. 30; (b) che ricorra il caso di “cessazione di attività”. Nell’ipotesi di cessazione, in particolare, non essendoci la possibilità di recuperare l’imposta assolta sugli acquisti nel corso di future operazioni imponibili, si richiede al contribuente di evidenziare, in sede di dichiarazione di cessazione di attività (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 35, commi 3 e 4), che nell’ultima dichiarazione annuale v’è stata un’eccedenza positiva d’imposta.

L’evidenziazione detta – alla quale nella specie l’impugnata sentenza neppure allude – costituisce tuttavia soltanto il presupposto dell’istanza di rimborso, la quale invero è disciplinata unitariamente dall’art. 30, comma 5, D.P.R. cit., a mezzo del rinvio agli elementi da indicare in dichiarazione o in apposito allegato, in conformità alle disposizioni integrative di cui alla richiamata decretazione ministeriale (nella specie, non il D.M. 20 dicembre 2000, mentovato dalla ricorrente, sebbene, trattandosi di dichiarazione Iva 2000, il D.M. 30 dicembre 1999, art. 1, all. 4, in vigore dall’8 gennaio 2000, il cui testo, peraltro, risulta esattamente riprodotto anche per l’anno successivo); gli elementi che “in relazione all’attività esercitata hanno determinato il verificarsi dell’eccedenza di cui si richiede il rimborso”. Consegue che, seppure è vero che l’ipotesi dell’eccedenza d’imposta risultante alla cessazione di attività è un’ipotesi espressamente regolata dal D.P.R. n. 633 del 1972 (art. 30) – come affermato da Cass. n. 9794/2010 e da Cass. n. 5486/2003, fino alla lontana e in parte conforme Cass. n. 13091/1992 -, ciò non assume connotato dirimente nel senso della esclusione della decadenza biennale di cui alla residuale previsione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2. Non assume un simile connotato visto che, in verità, tutte le ipotesi di rimborso di eccedenze d’imposta, finanche non conseguenti alla cessazione di attività, sono pur sempre regolate dalla medesima disposizione. Non lo assume, invero, le volte in cui l’istanza di rimborso non risulti effettuata per le evidenze della correlata dichiarazione di cessazione di attività, previo utilizzo dell’apposito modello VR cui, senza distinzioni quanto al presupposto, rinvia lo stesso art. 30, comma 5, D.P.R. cit..

In tal senso, reputa il collegio che, anche in relazione alla fattispecie di rimborso derivante da cessazione di attività, soltanto una domanda di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile sostanzialmente conforme al modello legale contenente, cioè, gli elementi necessari, stabiliti dalla legge e/o indicati nel “modello ministeriale”, per la decisione su di essa – rientra nello schema tipico di cui al ridetto art. 30, sì da poter essere considerata – come in generale affermato da Cass. n. 9794/2010 – “regolata” dall’art. 30 medesimo. L’utilizzazione del citato modello risponde alla ratio di rendere più tempestive e meno onerose le successive verifiche dell’amministrazione finanziaria in ordine agli elementi che hanno determinato l’eccedenza.

4. – Nella giurisprudenza di questa Corte, d’altronde, già si rinviene il condivisibile identico principio con riguardo al profilo della decorrenza degli interessi sulla, sorte capitale oggetto di istanza di rimborso.

Anche in simile ambito, cioè, si dice che, ai fini dell’iva, “soltanto una domanda di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile sostanzialmente conforme al modello legale (..) è idonea a determinare il decorso degli interessi, sulla somma di cui sia stato riconosciuto il diritto al rimborso, dal novantesimo giorno successivo a quello della sua presentazione; mentre, reciprocamente, la presentazione di una domanda di rimborso sostanzialmente difforme dal modello stesso, non integrando la predetta idoneità, comporta che, ove l’Ufficio Iva, rilevata la difformità, inviti il contribuente a “completarla”, il dies a quo del predetto termine, e cioè la presentazione della domanda di rimborso, coincide con quello della sua regolarizzazione” (Cass. n. 1935/1999. Conf. Cass. n. 21053/2005).

Questo principio, seppure affermatosi in ordine alla specifica questione della individuazione del momento di decorrenza degli interessi, suffraga la suesposta affermazione che la completezza della domanda, intesa come conformità al modello legale quale prefigurato dalla mentovata fonte legislativa e da quella secondaria (ratione temporis, il D.M. 30 dicembre 1999 succitato), costituisce un vero e proprio onere a carico del soggetto Iva, con la conseguenza che una domanda di rimborso formulata in modo sostanzialmente difforme dal predetto modello legale, e cioè carente degli elementi che – alla stregua delle suddette fonti normative – debbono costituirne il contenuto necessario, non è idonea – quale che sia la condizione legittimante l’istanza (cessazione di attività o altro) – a integrare un valido atto di esercizio del corrispondente diritto, così esulando dall’ambito di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30.

E difatti il riconoscimento del diritto al rimborso è comunque subordinato, dal citato art. 30, commi 2 e 4, all’esistenza delle due sopra esposte condizioni; e il successivo comma 5 riserva alla decretazione ministeriale il compito di stabilire, quanto a entrambe, “gli elementi, da indicare nella dichiarazione o in apposito allegato, che, in relazione all’attività esercitata, hanno determinato il verificarsi dell’eccedenza di cui si richiede il rimborso”.

5. – Venendo al caso, devesi allora evidenziare che la sentenza impugnata ha invece basato la propria ratio deciderteli sulla surrogabilità della succitata procedura formale con una specifica, e dunque necessariamente distinta, istanza di rimborso. E contiene l’affermazione che, presentata la dichiarazione annuale (non quindi quella di cessazione di attività), con indicazione del credito d’imposta, “è fuori luogo (..) pretendere una seconda manifestazione di volontà attraverso la presentazione del modello VR”.

Tanto consente di ritenere accertato, dalla sentenza, quanto in questa sede rappresentato dall’amministrazione ricorrente,- e cioè che la B. “nel modello unico dell’anno in questione, ometteva la presentazione del q. VR che, di fatto, ha comportato l’impossibilità di qualificare la pretesa del contribuente quale richiesta di rimborso”.

Può osservarsi che il contrario assunto della parte appare inammissibilmente assertorio, non risultando, dinanzi alle sopra riferite emergenze, assistito dalla necessaria autosufficienza.

Sicchè può nel caso di specie ritenersi pacifico – perchè ne da atto la stessa sentenza – che l’interessata, dopo aver esposto il credito nella dichiarazione annuale di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 28, omise di formulare l’istanza di rimborso secondo lo schema ipotizzato dalla previsione normativa. Tanto da determinarsi alla presentazione di una separata istanza, in forma libera, in data 5 giugno 2003.

Nelle condizioni date, non può condividersi la conclusione rassegnata dalla commissione territoriale, secondo cui “la presentazione della dichiarazione annuale, colìindicazione dell’Iva a credito, manifesta la volontà di ottenerne il rimborso” ed è sufficiente a escludere ogni decadenza. In sostanza, la decisione di secondo grado si fonda sull’assunto che, una volta indicato in dichiarazione annuale (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 28), il credito sarebbe comunque soggetto esclusivamente alla ordinaria prescrizione decennale.

Mentre una simile affermazione contrasta la prevista necessità di una domanda di rimborso appositamente regolata, salvo il ricorso all’istituto residuale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, in base al quale “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione”.

Disposizione, questa, che giustappunto assume, nel sistema, funzione residuale, e che trova dunque sicura applicazione in casi come quello di specie, in cui, per le ragioni dette, viene in considerazione una domanda di rimborso non rientrante tra quelle direttamente disciplinate dal ripetuto D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, e perciò non contemplata da disposizioni specifiche.

Essendo il presupposto del rimborso nella specie rappresentato dalla cessazione di attività in data 30 novembre 1999 (v. controricorso, pag. 2), e pacificamente risultando che il detto rimborso – al di là di ogni ulteriore questione in punto di mancanza assoluta di deduzioni circa il momento di presentazione della denuncia di cessazione di attività – venne richiesto con istanza in forma libera (id est, esulante dallo schema normativo di cui al ripetuto art. 30) in data 5 giugno 2003, l’impugnata sentenza non si sottrae alla censura che le viene rivolta. Donde la medesima va cassata.

6. – Non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, in quanto risulta pacifica in causa la circostanza da ultimo indicata, relativa all’infruttuoso decorso, dalla data di presentazione della dichiarazione, del termine biennale attinente alla presentazione dell’istanza di rimborso. Difatti la disposizione D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, comma 2, detta una regola suppletiva, avente chiara funzione sussidiaria e di completamento, intesa a fornire certezza ai rapporti giuridici con l’amministrazione finanziaria ove per la domanda di restituzione in concreto proposta – e dunque per la domanda in quanto tale, non già per il relativo presupposto, che, in materia d’Iva, è (come visto) necessariamente testuale – manchino disposizioni specifiche nelle singole leggi d’imposta.

Pertanto la causa può essere da questa Corte decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto dell’originario ricorso proposto dalla B..

7. – Possono in conclusione affermarsi i seguenti principi di diritto:

(a) “il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, in quanto dotato di funzione residuale e di chiusura del sistema, a garanzia di stabilità e di certezza dei rapporti giuridici con l’amministrazione finanziaria, postula la mancanza di disposizioni regolative della domanda di rimborso in sè e per sè considerata, indipendentemente dal presupposto”;

(b) “in materia di iva, e in relazione alla fattispecie di rimborso derivante da cessazione di attività, soltanto una domanda di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile sostanzialmente conforme al modello legale – contenente, cioè, gli elementi necessari, stabiliti dalla legge e/o indicati nel modello ministeriale, per la decisione su di essa – rientra nello schema tipico di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30”;

(c) “pertanto solo una simile domanda può essere considerata “regolata” dall’art. 30 medesimo, al fine di escluderne l’assoggettamento alla decadenza prevista in via residuale dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21″.

in considerazione della difficoltà della questione di diritto, oggetto di orientamento non costante, può dispersi l’integrale compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso avverso il diniego di rimborso. Compensa le spese processuali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 19 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2011

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