Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18916 del 05/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 05/07/2021, (ud. 11/05/2021, dep. 05/07/2021), n.18916

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1296/2015 R.G. proposto da:

sig. A.A., con l’avv. prof. Vincenzo Cesaro e avv. Bruno

Cantone, nel domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma,

alla via Calabria, n. 56;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Campania – Napoli, n. 4439/48/14, pronunciata il 27 febbraio 2014 e

depositata il 12 maggio 2014, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 11

maggio 2021 dal Coigliere Dott. Fracanzani Marcello Maria.

 

Fatto

RILEVATO

Il contribuente A.A., titolare dell’omonima ditta di commercio all’ingrosso di legname e legname artificiale, era attinto da avviso di accertamento con cui l’Ufficio rideterminava il reddito per l’anno di imposta 2005, ricostruendo i ricavi in Euro 216.912,00 rispetto ai dichiarati Euro 183.872,00. Più in particolare, l’Amministrazione finanziaria riveniva beni-indice di maggior capacità contributiva secondo gli studi di settore, con incongruenza reiterata nel tempo, cui si univa gestione antieconomica, donde la ricostruzione avveniva con il metodo analitico induttivo, muovendo da contabilità formalmente corretta.

Insorgeva il contribuente, sollevando plurime doglianze in rito ed in merito, vedendo accolta la pregiudiziale doglianza circa il mancato avvio del contraddittorio preventivo all’atto impositivo, dovendosi ritenere gli scostamenti dagli studi di settore semplici dati statistici che non assurgono a presunzioni in difetto di invito al contraddittorio.

La sentenza era riformata in appello, donde insorge il contribuente con unico motivo, mentre rimane resistente l’Avvocatura generale dello Stato che si riserva di spiegare difese in udienza.

Diritto

CONSIDERATO

Vengono proposti due motivi di ricorso.

1. Con il primo motivo si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione o falsa applicazione della L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3 bis, nonchè della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 14 del 14 aprile 2010, nonchè omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. Nella sostanza si lamenta che la gravata sentenza non abbia preso posizione sulla dirimente questione del mancato avvio del contraddittorio preventivo, questione centrale nella sentenza di primo grado, risolvendo invece la questione nel merito. Si protesta violata la citata L. n. 146 del 1998, ove prevede che in caso di scostamento dagli studi di settore sia necessario richiedere l’apporto procedimentale del contribuente, richiamando anche giurisprudenza di questa Suprema Corte.

E’ stato invero affermato che la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sè considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente -anche tramite questionario- pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano stati disattesi. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente.” (Cass. sez. un. 18/12/2009, n. 26635). In tale sede, invero, è il contribuente che ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards” (così Cass. VI-5, n. 13056/2012 che riprende Cass. n. 10778/2011, recentemente Cass. V, n. 13908/2018).

Per contro, differente è la fattispecie in oggetto, dove la sentenza gravata prende posizione (anche) sulla questione del contraddittorio (pag. 2, settimo capoverso), rilevando non essersi proceduto in base agli scostamenti dagli studi di settore, ma di avervi preso l’abbrivio istruttorio, poi sfociato in una ricostruzione analitico – induttiva del reddito, in ragione di andamento anti economico reiterato.

Sul punto, questa Suprema Corte è intervenuta più volte, affermando che nel caso di accertamento basato esclusivamente sugli studi di settore, l’Amministrazione finanziaria è obbligata ad instaurare il contraddittorio preventivo con il contribuente ai sensi della L. n. 146 del 1998, art. 10, mentre detto obbligo non opera qualora l’accertamento si fondi anche su altri elementi giustificativi, quali riscontrate irregolarità contabili o antieconomiche gestioni aziendali (cfr. Cass. V, 31814/2019). E’ pur vero che il contraddittorio preventivo è stato ritenuto come presupposto necessario in tema di tributi armonizzati, qual è l’IVA qui anche accertata, ma il vizio può essere sollevato solo ove il contribuente dimostri in giudizio la rilevanza dell’apporto collaborativo che avrebbe potuto far valere in rapporto ai rilievi mossi dall’Ufficio (Cass. S.U. n. 24823/2015). Tale prova non sembra aver fornito il contribuente, se la gravata sentenza (pag. 2, terzultimo capoverso) attesta che si è sempre limitato a contestare la percentuale di ricarico, senza fornire adeguata giustificazione agli elementi dedotti nell’atto impositivo. Nè possono trovare considerazione in questa sede le giustificazioni riprodotte a pag. 4 e 5 tese a prospettare una valutazione di merito contrapposta a quella dell’Ufficio e ripresa nella gravata sentenza, valutazione che è inibita a questa Corte di legittimità.

Il motivo è quindi infondato.

2. Con il secondo motivo si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, nonchè degli artt. 2727 e 2729 c.c., nonchè per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti. Nella sostanza, si contesta applicabile la procedura del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 in presenza di un solo indice presuntivo -cioè la condotta antieconomica- quando la norma richiede presunzioni concordanti, quindi necessariamente plurali. Tuttavia, secondo la giurisprudenza di questa Corte, da ultimo 1347/2019, “l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata” (cfr. Cass. nn. 20060/2014; 20857/2007; cfr., altresì, Cass. nn. 9084/2017; 14428/2005; con riferimento specifico all’IVA, si veda, altresì, Cass. n. 7184/2009; 6800/2009; 21165/2005); è stato, infine, affermato che “in tema di prova civile conseguente ad accertamento tributario, gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi – benchè l’art. 2729 c.c., comma 1, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 4, e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54 si esprimano al plurale – potendosi il convincimento del Giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria” (cfr. Cass. nn. 656/2014; 17574/2009; 8484/2009).

Sicchè in tema di imposte sui redditi, la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali per cui, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie (Cass. V, n. 9084/2017), Ed infatti, la circostanza che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell’imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonchè una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 660 del 1973, art. 39, a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (Cass. V, n. 21536/2007).

Il motivo è quindi infondato ed il ricorso dev’essere rigettato. Non vi è da pronunciare sulle spese per mancanza di attività difensiva della parte pubblica.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2021

 

 

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