Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18906 del 16/09/2011

Cassazione civile sez. trib., 16/09/2011, (ud. 07/04/2011, dep. 16/09/2011), n.18906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17656-2007 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

CECCHI & CECCHI TESSITURE SRL IN LIQUIDAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6/2007 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 27/02/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/04/2011 dal Consigliere Dott. RENATO POLICHETTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato BARBARA TIDORE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

BASILE Tommaso che ha chiesto il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito di un accesso presso la società Cecchi & Cecchi Tessiture S.r.l. in liquidazione, finalizzato all’acquisizione di documentazione fiscale relativa ai costi portati in diminuzione del reddito d’impresa e concluso con la redazione del processo verbale di conclusione di accesso, l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Firenze (OMISSIS), individuava nella documentazione acquisita in copia incongruenze fiscali relative alla corretta imputazione di costi.

Provvedeva pertanto a rideterminare il reddito d’impresa e ad emettere e notificare il relativo avviso d’accertamento nel quale si richiedeva il pagamento di maggior imposta Irpeg per Euro 18.737,06, Irap per Euro 3.072,40 ed Iva per Euro 7.230,40, oltre ad interessi e sanzioni.

Avverso tale atto la società Cecchi & Cecchi proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze lamentando in primo luogo la nullità dell’avviso in quanto emesso prima del decorso del termine di 60 giorni decorrenti dalla chiusura delle operazioni di controllo attraverso il rilascio della copia del relativo processo verbale, termine statuito dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7;

nel merito, l’errata esclusione da parte dell’Ufficio dei costi sostenuti a titolo di spese di rappresentanza.

L’Ufficio contro deduceva sostenendo l’inapplicabilità dell’art. 12 Statuto del Contribuente, poichè l’attività espletata durante l’accesso non era da considerarsi attività di verifica, bensì di mera raccolta di informazioni al pari degli altri strumenti similari come i questionari, l’invito a produrre documenti, l’invito a presentarsi e simili, mentre la disposizione di legge citata fa esclusivo riferimento al processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica. Inoltre, circa la natura di tale termine, l’Ufficio rilevava che, anche in caso di mancato rispetto l’avviso avrebbe conservato lo stesso la sua validità, stante l’assenza nel dettato di legge di un’espressa previsione della sanzione di nullità dell’atto impositivo.

La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze accoglieva l’eccezione preliminare in merito al mancato rispetto della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 dichiarando conseguentemente la nullità dell’avviso con assorbimento degli altri profili. La Commissione tributaria provinciale osservava anche che le disposizioni di cui al citato art. 12 rappresentano i principi generali dell’ordinamento tributario.

La Commissione tributaria regionale respingeva l’appello dell’ufficio e contro tale pronunzia ha proposto ricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La sentenza impugnata ha dichiarato la nullità dell’accertamento perchè emesso prima del termine dilatorio di 60 giorni dalla comunicazione del processo verbale di constatazione, termine previsto, ma senza espressa sanzione di nullità in caso di violazione, dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (statuto del contribuente).

L’Agenzia delle entrate deduce violazione di tale norma, in quanto la nullità non è nè espressamente nè implicitamente stabilita e perchè comunque non si trattava di un vero e proprio verbale di accertamento ex art. 12 ma di un processo verbale di accesso.

Per quanto riguarda la questione preliminare, circa gli effetti perentori o meno del mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, la notazione che tale norma come le altre di tale legge rappresenta un principio generale dell’ordinamento tributario, non appare fondata (dato che la norma è chiaramente una norma di dettaglio, priva delle caratteristiche estrinseche proprie delle norme che esprimono principi generali) ed è comunque irrilevante, posto che il problema è quello dell’interpretazione della norma stessa ed è un problema che prescinde dalla natura di essa.

La tesi sostenuta dall’amministrazione finanziaria appare coerente con la disciplina stabilita dall’art. 156 cod. proc. civ., applicabile anche al procedimento amministrativo essendo l’unica disciplina generale che regoli i termini ed i loro effetti. Ed è altresì coerente con un principio generale del diritto amministrativo, quale espresso tra le altre pronunzie da Consiglio di Stato Sez. 6, n. 6405 del 20/10/2003: “Costituisce principio generale quello secondo il quale i termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge o che la loro perentorietà non debba necessariamente discendere dalla logica del sistema”.

Nel silenzio della norma di legge il carattere perentorio di un termine può quindi essere desunto dalla ratio della norma e così ha fatto la Corte di cassazione con la sentenza 6088 del 2011 secondo cui “la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, prevede testualmente che dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste; l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”. Dalla lettura della norma emerge, per la corrispondenza del termine di emissione dell’avviso con quello concesso al contribuente per comunicare osservazioni e richieste, che il suddetto termine è inteso a garantire al contribuente la possibilità di interagire con l’amministrazione prima che essa pervenga alla emissione di un avviso di accertamento ed in tal senso il mancato rispetto del termine, sacrificando un diritto riconosciuto dalla legge al contribuente, non può che comportare l’illegittimità dell’accertamento, senza bisogno di alcuna specifica previsione in proposito. Peraltro, in ipotesi di termine non perentorio (come ritenuto dalla ricorrente) non avrebbe senso la previsione della possibilità, contemplata nella medesima norma, di emissione di avviso prima del decorso del termine suddetto, solo in “casi di particolare e motivata urgenza”. Tale pronunzia si pone in contrasto con quella recante il n. 19875 del 2008, secondo la quale la notifica dell’avviso di accertamento prima dello scadere del termine di 60 giorni previsto dalla disposizione censurata non ne determina la nullità, perchè: a) tale atto ha natura vincolata rispetto al processo verbale di constatazione sul quale si fonda; b) manca una specifica previsione di nullità; c) resta garantito al contribuente il diritto di difesa in via giudiziaria e in via amministrativa attraverso l’autotutela (in senso conforme Cass. n. 22320 del 03/11/2010).

Le più recenti di tali pronunzie appaiono coerenti con la sollecitazione proveniente dalla pronunzia della Corte costituzionale n. 244 del 2009, che – chiamata a giudicare della possibile illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nella parte in cui non prevede la nullità dell’atto di accertamento, qualora il medesimo venga notificato prima dello spirare del termine di 60 giorni che deve trascorrere dalla data di consegna del processo verbale di contestazione e la notifica dell’atto di accertamento – ha dichiarato la questione “manifestamente inammissibile, perchè il giudice a quo, invece di sollevarla, avrebbe dovuto preliminarmente esperire un tentativo di interpretare diversamente la disposizione censurata ed il complessivo quadro normativo in cui essa si inserisce, cosi da consentire di superare il prospettato dubbio di costituzionalità; in particolare, la Commissione tributaria avrebbe dovuto saggiare la possibilità di ritenere invalido l’avviso di accertamento emanato prima della scadenza del suddetto termine di sessanta giorni, nel caso in cui tale avviso sia privo di una adeguata motivazione sulla sua particolare … urgenza”. A sostegno di tale percorso ermeneutico – ha osservato la Corte costituzionale – il giudice rimettente avrebbe potuto prendere in considerazione il combinato disposto della censurata disposizione con la L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, e con la L. 27 luglio 1990, n. 241, artt. 3 e 21-septies (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) e alla luce di tali disposizioni, avrebbe potuto prendere atto del fatto che lo specifico obbligo di motivare, anche sotto il profilo dell’urgenza, l’avviso di accertamento emanato prima della scadenza del termine di sessanta giorni decorrente dal rilascio al contribuente della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, da parte degli organi di controllo, è previsto dalla stessa disposizione censurata ed è espressione del generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi e, tra essi, di quelli dell’amministrazione finanziaria (della legge n. 241 del 1990, art. 3 e della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1). Il giudice remittente avrebbe potuto altresì valutare se, nel caso in esame, l’inosservanza dell’obbligo di motivazione, anche in relazione alla “particolare … urgenza dell’avviso di accertamento, sia già espressamente sanzionata in termini di invalidità dell’atto, in via generale, dalla L. n. 241 del 1990, art. 21-septies – che prevede tale sanzione per il provvedimento amministrativo privo di un elemento essenziale, quale è la motivazione – e, con speciale riferimento all’accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, commi 2 e 3, (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, comma 5 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), i quali stabiliscono che l’avviso di accertamento deve essere motivato, a pena di nullità, in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Ciò premesso la Corte ha rilevato che il giudice a quo si era limitato, invece, ad asserire che la disposizione censurata non è assistita da alcuna sanzione di invalidità, facendo derivare da tale mera asserzione la prospettata illegittimità costituzionale.

Ma la pronunzia del giudice delle leggi aggiunge un rilievo finale che avrebbe invero dovuto portare ad una dichiarazione di manifesta infondatezza e non di manifesta inammissibilità della questione prospettata. L’ordinanza, infatti, si conclude affermando che, anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte in punto di manifesta inammissibilità della questione, va, in ogni caso, rilevata l’inconferenza degli artt. 24 e 111 Cost., quali evocati parametri di costituzionalità”; infatti, la norma censurata, essendo diretta a regolare il procedimento di accertamento tributario, non ha natura processuale ed è, quindi, estranea all’ambito di applicazione dei suddetti parametri costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 20 del 2009; ordinanze n. 211 e n. 13 del 2008, n. 180 del 2007;

nonchè, con particolare riferimento all’art. 24 Cost., ordinanze n. 940 e n. 21 del 1988, n. 324 del 1987).

Dal momento che la corte costituzionale ha dichiarato comunque l’infondatezza della denunzia di incostituzionalità per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., ritenuti inconferenti, la sua interpretazione della normativa diretta a segnalare la possibilità di una lettura diversa è ovviamente importante ma ma è ultra vires e quindi non vincolante in alcun modo.

In questa ricerca ermeneutica andrebbe anche considerato che per assicurare la effettiva vincolatività della norma che prescrive un termine può essere possibile anche il ricorso a strumenti diversi dalla nullità dell’atto compiuto dopo la scadenza del termine stesso ed anzi una interpretazione funzionale e razionale delle norme dovrebbe indirizzare a limitare drasticamente le ipotesi di nullità formali che incidono sui diritti sostanziali delle parti (compreso, tra di esse, il Fisco). Nella specie, inoltre, la previsione della nullità per il mancato rispetto del termine in questione costituirebbe una sanzione sproporzionata rispetto alla tutela dell’interesse del contribuente all’esercizio efficace della propria difesa e all’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione (che, insieme, ispirano il principio di collaborazione e di partecipazione), perchè tale interesse deve essere bilanciato con quello alla riscossione dei tributi, che trova fondamento nell’art. 53 Cost. e che assume un rilievo particolarmente importante in un ordinamento quale il nostro, caratterizzato da fenomeni di evasione straordinariamente maggiori di quelli che affliggono altri paesi. Il procedimento tributario è già caratterizzato da un formalismo eccessivo che appare spesso poter anche rappresentare uno strumento di mascheramento per pratiche elusive o collusive.

Nel suo ricorso l’Avvocatura ha ben evidenziato che il carattere non perentorio del termine in questione appare ricavabile anche dall’esame dei lavori preparatori, dato che l’originaria formulazione della norma nel disegno di legge (AC 4818-A-bis) conteneva l’esplicita espressione “a pena di nullità” e tale inciso è stato significativamente soppresso in sede di esame finale del testo normativo. L’Avvocatura ha anche argomentato in modo esauriente circa il gran numero di strumenti a disposizione del contribuente per far valere le proprie ragioni: fin dall’inizio delle operazioni di verifica il contribuente può far valere le proprie osservazioni e le proprie ragioni giuridiche mediante dichiarazione a verbale; a seguito della notifica dell’avviso di accertamento al contribuente (o anche su iniziativa d’Ufficio) è data la possibilità di ricorrere all’istituto dell'”accertamento con adesione” (D.Lgs. n. 218 del 1997), mediante il quale tra Amministrazione e contribuente può realizzarsi un ulteriore chiarimento in merito ai fatti contestati;

l’ordinamento tributario a tal fine riconosce ulteriori 90 giorni di tempo (D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 6) che, sommati ai termini per presentare ricorso concedono al contribuente il tempo corrispondente a 150 giorni, decorrenti dal momento della notifica dell’ atto di accertamento, per far valere le proprie ragioni in via amministrativa (senza considerare che mediante istanza di autotutela si potrebbe conteggiare anche i 30 giorni a disposizione per depositare il ricorso in Commissione una volta notificato); anche in fase contenziosa l’ordinamento prevede l’istituto della “conciliazione”, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 48 e nel caso in cui le parti necessitino di termini ulteriori al fine di dirimere “in via amichevole” la controversia, l’ordinamento prevede sempre la possibilità di chiedere alla Commissione un differimento dell’udienza di merito, purchè non dilatorio (Cass. n. 9222 del 18 aprile 2007); è sempre consentito al contribuente la presentazione di istanze di autotutela che l’Ufficio, è tenuto a valutare in adesioni ai principi di collaborazione e buona fede di cui alla L. n. 212 del 2000.

Infine può essere anche osservato che la Corte costituzionale ha affrontato il problema esclusivamente sotto il profilo della motivazione circa le condizioni di particolare urgenza richieste dalla norma per consentire la abbreviazione unilaterale del termine dilatorio, ma non ha affrontato il diverso e distinto problema di quali siano le conseguenza del mancato rispetto del termine dilatorio in assenza delle condizioni di urgenza. La mancata motivazione sull’urgenza può rendere illegittima l’anticipazione, ma si tratta di vedere quali siano le conseguenze di tale illegittimità, sia in caso di mancanza delle condizioni di urgenza, sia in caso di mancata esposizione di tali ragioni nella motivazione dell’avviso (tenuto conto anche del fatto che le norme richiamate dalla ordinanza ella Corte costituzionale prescrivono che l’avviso di accertamento sia motivato in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato e non anche in relazione alle ragioni di urgenza in presenza delle quali esso è stato pronunziato.

Tali profili di opinabilità della soluzione interpretativa contrastata dall’amministrazione finanziaria debbono peraltro misurarsi non solo con le ragioni espresse a favore del contrapposto indirizzo interpretativo, ma anche con la stessa esistenza di un indirizzo giurisprudenziale di legittimità ormai consolidato anche per effetto del supporto fornito dalla pronunzia della Corte costituzionale.

La salvaguardia dell’unità dell’interpretazione è infatti ormai da considerare – specie dopo le ultime innovazioni legislative relative al giudizio di cassazione – come un criterio legale di interpretazione delle norme legislative. Non l’unico criterio di ermeneutica, ovviamente, e neppure quello su ogni altro prevalente, ma di certo un criterio importante dato anche il suo collegamento con i principi costituzionali di uguaglianza e di libertà dei cittadini.

Un principio particolarmente importante in materia procedimentale e processuale, posto che in tale materia la prevedibilità e l’uniformità delle regole che disciplinano il come agire sono requisiti imprescindibili di giustizia. Non un criterio decisivo e assoluto. non si può dubitare che un’interpretazione che si consideri non plausibile sul piano letterale, logico e sistematico possa ciononostante essere mantenuta per ossequio ai precedenti consolidati, ma solo se essa non sia manifestamente arbitraria e pretestuosa e non dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o semplicemente ingiusti.

Nella specie l’interpretazione qui in esame è certamente molto opinabile ma altrettanto certamente essa non è nè arbitraria nè pretestuosa. E’ pur vero che essa appare suscettibile di dar luogo a risultati disfunzionali e “fuori misura”, ma non dovrebbe essere troppo difficile, per l’amministrazione finanziaria , evitare tali risultati adeguandosi operativamente a questo più rigoroso regime.

Non vi sono quindi buone ragioni per allontanarsi dal criterio interpretativo della conformità ai precedenti giurisprudenziali.

Il primo motivo deve quindi essere respinto.

Con il secondo motivo di ricorso si denunzia la violazione della stessa norma sotto altro profilo e cioè per il fatto che nella specie essa non era applicabile in quanto l’attività posta in essere di verificatori era riconducibile non ad una vera e propria verifica ma al mero reperimento di documentazione fiscale.

Quest’ultimo profilo è privo di autosufficienza e non può quindi essere esaminato, dato che il ricorso non specifica il contenuto delle operazioni svolte dalla Guardia di finanza.

Comunque deve anche essere osservato che la distinzione prospettata dall’Agenzia delle entrate non appare avere corrispondenza nella norma in esame.

Il ricorso deve quindi essere respinto. Non vi è luogo a pronunzia sulle spese in quanto l’intimato – nonostante quello che viene dichiarato nella missiva del curatore fallimentare in data (OMISSIS) – non era costituito.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2011

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