Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18904 del 11/09/2020

Cassazione civile sez. I, 11/09/2020, (ud. 02/07/2020, dep. 11/09/2020), n.18904

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 12165/2015 proposto da:

TELECOM ITALIA s.p.a., in persona del legale rappres. p.t., elett.te

domic. in Roma, presso gli avvocati Francesco Cardarelli, e Filippo

Lattanzi, che la rappres. e difendono, con procura speciale in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, in persona del sindaco p.t., elett.te domic. presso

l’avv. Domenico Rossi, dal quale è rappres. e difesa, con procura

speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 116/15 emessa dalla Corte d’appello di Roma,

depositata il 9.1.15;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

02/07/2020 dal Consigliere rel., Dott. CAIAZZO ROSARIO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza emessa il 4.11.2010 il Tribunale di Roma respinse la domanda proposta dalla Telecom Italia s.p.a. nei confronti del Comune di Roma, con citazione notificata il 14.5.08, avente ad oggetto l’accertamento negativo del credito fatto valere dallo stesso Comune, pari a Euro 8300,00, fondato sull’applicazione di una clausola penale, ai sensi dell’art. 26 bis del regolamento comunale n. 260/05, per aver la società riconsegnato tardivamente alcune aree di proprietà comunale la cui occupazione era stata previamente autorizzata per apertura di scavi, al fine di posare condutture sotterranee. Al riguardo, il Tribunale ritenne che, inquadrata la fattispecie nell’ambito della concessione per occupazione di suolo pubblico con autorizzazione all’esecuzione della specifica opera, la Telecom s.p.a. aveva riconsegnato gli immobili oltre il termine di 10 giorni dalla fine dei lavori con conseguente applicazione della penale pari a Euro 5 per ogni giorno di ritardo.

Con sentenza emessa il 9.1.15 la Corte d’appello di Roma rigettò l’appello della Telecom Italia s.p.a., osservando che: nel provvedimento di concessione era inserita la dichiarazione del richiedente di conoscenza e accettazione delle clausole contenute nel regolamento “Scavi”, tra cui quella di cui all’art. 26 bis, circa l’applicazione delle penale in caso di ritardo o inadempimento agli obblighi assunti in sede di autorizzazione e concessione di suolo pubblico; la pattuizione sulla penale aveva natura civilistica, ex art. 1382 c.c., espressamente prevista dal regolamento disciplinante la concessione di suolo pubblico la cui accettazione era presupposto necessario della stessa concessione; tale clausola penale non era parametrabile alla Cosap, quale canone per l’utilizzazione del suolo pubblico.

Ricorre in Cassazione la Telecom Italia s.p.a. con cinque motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso Roma Capitale.

Diritto

RITENUTO

che:

Con il primo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione del R.D. n. 2440 del 1923, artt. 16 e 17, D.P.R. n. 495 del 1992, art. 67 e L. n. 241 del 1990, art. 11, nonchè insufficienza della motivazione, avendo la Corte d’appello erroneamente ritenuto che la norma dettata dall’art. 26 bis del regolamento comunale applicato abbia natura contrattuale, venendo invece in rilievo un atto amministrativo autoritativo che non contiene alcun riferimento alla clausola penale concordata dalle parti. Il ricorrente denunzia altresì che anche qualora si ritenga che, nella fattispecie, sia stato raggiunto un accordo idoneo a fissare obbligazioni nel contesto del rapporto di concessione, tale accordo sarebbe nullo per manca della forma scritta prescritta dalla legge a pena di nullità.

Con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1382,1384 e 1341 c.c. e del D.Lgs. n. 506 del 2005, artt. 33-38, nonchè contraddittoria ed insufficiente motivazione, lamentando che la Corte territoriale non abbia ritenuto che la norma regolamentare applicata costituisse una clausola penale vessatoria, in analogia con le norme dettate a tutela dei consumatori, considerando la posizione di debolezza in cui versava la ricorrente nei confronti del Comune di Roma e il maggior importo della clausola penale applicata rispetto alla somma dovuta per la COSAP in ordine all’occupazione di suoli pubblici.

Con il terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della Delib. Comunale n. 260 del 2005, art. 28, L. n. 689 del 1981 e L. n. 3 del 2003, nonchè l’insufficiente motivazione, non avendo la Corte d’appello ritenuto che la clausola penale prevista dal regolamento comunale costituisca, in realtà, una forma di sanzione amministrativa con possibilità di imposizione di una somma massima a titolo di sanzione pecuniaria.

Con il quarto motivo si deduce insufficienza della motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’annullamento dell’art. 26 bis, del Regolamento-Scavi pronunciato dalla sentenza emessa dal Tar n. 3161 del 2011, non avendo il giudice d’appello considerato l’efficacia erga omnes del giudicato amministrativo di annullamento.

Con il quinto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 56 del 1973, artt. 231 e 238 e del D.Lgs. n. 259 del 2003, art. 93, nonchè omessa motivazione sulla questione dell’applicazione di prestazioni o canoni a carico dei gestori di TC che non siano contemplati dalla legge.

Il primo motivo è fondato.

Anzitutto, va esaminato il quarto motivo, per il suo carattere logicamente preliminare, e deve ritenersi inammissibile in quanto, in riferimento al giudicato relativo alla sentenza del Tar – che annullò, in un giudizio tra altre parti, il predetto art. 26bis del regolamento comunale in esame – non è stato allegato e documentato il passaggio in giudicato di tale sentenza del giudice amministrativo, nè nel processo d’appello, nè in questa sede.

Premesso ciò, va osservato che si ammette, sia nella giurisprudenza amministrativa che in quella della cassazione, che gli Enti pubblici possano concedere a privati il suolo pubblico per svolgimento di attività privatistiche, ovvero aventi rilevanza pubblica quale, appunto, la posa di cavi telefonici (cfr. Cass., n. 17888/12; CDS, n. 5492/15), attraverso una convenzione alla quale accede una disciplina di carattere negoziale contenente, tra l’altro, anche la previsione di clausole penali per l’inadempimento e inesatto adempimento del concessionario.

Non è altresì dubbio che non sia applicabile alla convenzione in questione la normativa a tutela dei consumatori, che riguarda le persone fisiche e non le società.

Va osservato che dal sistema normativo emerge che è ben possibile che la P.A. concedente e il concessionario possano concludere una convenzione accessiva al titolo autoritativo e, anzi, siffatta modalità è anche normativamente prevista, ai sensi del D.Lgs. n. 30 aprile 1992, n. 285, art. 25, comma 1 (“Non possono essere effettuati, senza preventiva concessione dell’ente proprietario, attraversamenti od uso della sede stradale e relative pertinenze con corsi d’acqua, condutture idriche, linee elettriche e di telecomunicazione…”) e del D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, art. 67, comma 5 (“La concessione ad eseguire i lavori per la costruzione e la manutenzione dei manufatti di attraversamento o di occupazione è accompagnata dalla stipulazione di una convenzione tra l’ente proprietario della strada concedente e l’ente concessionario nella quale devono essere stabiliti: a) la data di inizio e di ultimazione dei lavori e di ingombro della carreggiata; b) i periodi di limitazione o deviazione del traffico stradale; c) le modalità di esecuzione delle opere e le norme tecniche da osservarsi; d) i controlli ed ispezioni e il collaudo riservato al concedente; e) la durata della concessione; f) il deposito cauzionale per fronteggiare eventuali inadempienze del concessionario sia nei confronti dell’ente proprietario della strada che dei terzi danneggiati; g) la somma dovuta per l’uso o l’occupazione delle sedi stradali, prevista dall’art. 27 del codice”).

Ma, nel caso di specie, non viene in rilievo una convenzione tipica, ossia rispondente ai requisiti puntualmente individuati dalla normativa appena indicata, quanto un impegno unilaterale ad osservare gli obblighi del “regolamento cavi” e, in particolare, le previsioni delle penali, impegno che, secondo l’accertamento operato dalla stessa sentenza impugnata, rappresentava una delle condizioni poste dal Comune per l’emanazione della concessione.

Ne discende che la soluzione adottata in concreto si discosta dai moduli negoziali espressamente individuati dal legislatore, con una scelta coerente con le regole generali in tema di contratti della P.A. Come anche di recente ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un. 9 agosto 2018, n. 20684), a proposito del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, artt. 16 e 17 (“Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”), tali norme sono costantemente state interpretate nel senso della necessità della forma scritta – e per di più contestuale, ammettendosi la validità dello scambio di corrispondenza “secondo l’uso del commercio” ove le controparti siano “ditte commerciali” per i contratti stipulati dallo Stato e dalle sue amministrazioni: tanto integrando una delle ipotesi richiamate dal n. 13 dell’art. 1350 c.c., per il quale “devono farsi per atto pubblico… sotto pena di nullità… gli altri atti specialmente indicati dalla legge”. La necessità della forma scritta è costantemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, quale espressione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione e garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, visto che solo tale forma consente di identificare con precisione l’obbligazione assunta e l’effettivo contenuto negoziale dell’atto, rendendolo agevolmente controllabile (così Cass. 26 ottobre 2007, n. 22537) pure in punto di necessaria copertura finanziaria (sul principio, v. pure, più di recente: Cass. 28 giugno 2018, n. 17016).

L’esistenza della sopra ricordata disciplina speciale, che prevede la stipulazione di una convenzione, ossia la conclusione contestuale di un accordo destinato a regolare i profili accessivi alla concessione, conferma siffatta direttrice di fondo dell’ordinamento e vale, in ultima analisi, ad escludere in radice – senza che occorra approfondire altri pur rilevanti profili – che un obbligo negoziale avente ad oggetto la previsione di clausole penali possa trovare il proprio fondamento nella mera adesione unilaterale a clausole contenute in un regolamento e non trasfuse in un testo contrattuale (Cass., n. 10738/2020).

La Corte non ignora che questa sezione si è occupata di vicenda simile con l’ordinanza resa da Cass. 14 ottobre 2019, n. 25849, concludendo per la natura negoziale dell’impegno attraverso la valorizzazione del suo carattere accessivo al provvedimento concessorio e richiamando la L. n. 241 del 1990, art. 11.

Tuttavia, nel caso di specie, a fronte di uno specifico motivo che denuncia la nullità per violazione della necessaria forma scritta imposta dalla normativa sopra ricordata, deve prendersi atto che la correlazione allo specifico provvedimento concessorio del quale si discute imponga di giungere alle conclusioni sopra ricordate.

In senso contrario non depone l’art. 27 C.d.S., comma 5, laddove prevede che “I provvedimenti di concessione ed autorizzazione di cui al presente titolo, che sono rinnovabili alla loro scadenza, indicano le condizioni e le prescrizioni di carattere tecnico o amministrativo alle quali esse sono assoggettate”.

Ed, infatti, tali condizioni e prescrizioni hanno evidente natura autoritativa e non perdono tali caratteristiche – acquisendo quelle di clausole negoziali – per il sol fatto che ad esse il concessionario presta adesione.

E’ invece inammissibile la doglianza sul vizio d’insufficienza della motivazione, poichè declinata riguardo una fattispecie, ex art. 360 c.p.c., n. 5, inapplicabile ratione temporis.

Gli altri motivi sono assorbiti dall’accoglimento del primo motivo. Per quanto esposto, in accoglimento del primo motivo del ricorso, la causa va decisa nel merito, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non essendo necessaria alcuna attività istruttoria, dichiarando inesistente il credito fatto valere da Roma Capitale nei confronti della Telecom Italia s.p.a..

Considerata la novità della questione e il recente precedente di questa Corte di segno opposto, le spese del giudizio sono da compensare.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, nei limiti di cui in motivazione – assorbiti gli altri motivi – e, decidendo nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dichiara inesistente il credito fatto valere da Roma Capitale nei confronti della Telecom Italia s.p.a. con l’atto di citazione notificato il 14.5.08. Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2020

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