Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18902 del 31/08/2010

Cassazione civile sez. lav., 31/08/2010, (ud. 13/07/2010, dep. 31/08/2010), n.18902

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ARTSANA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIEMONTE 39, presso lo studio

dell’avvocato MORETTI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ZUCCHI STEFANO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEONFORTE

6, presso lo studio dell’avvocato LAURICELLA GIROLAMO, rappresentata

e difesa dall’avvocato MENTO MARIO, giusta mandato in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1132/2006 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 25/01/2007 r.g.n 1051/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/07/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

uditi gli avvocati MORETTI MARCO e ZUCCHI STEFANO;

udito l’Avvocato MENTO MARIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo che ha concluso per l’inammissibilita’ o rigetto del

ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Roma rigetto’ la domanda avanzata da M. M. e diretta all’accertamento della illegittimita’ del licenziamento, intimatole, per ragioni disciplinari, in data 25.3.1999, dalla datrice di lavoro Artsana spa (presso uno dei cui negozi di vendita la M. aveva lavorato come commessa).

La Corte d’Appello di Roma accolse l’impugnazione della lavoratrice e dichiaro’ l’illegittimita’ del licenziamento, applicando la tutela reale.

Questa Corte di Cassazione, accogliendo il primo motivo del ricorso proposto dalla parte datoriale, con sentenza n. 16967/2004, casso’ la decisione impugnata, ravvisando un vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale esaminato l’eccezione, sollevata dalla datrice di lavoro, di nullita’ della lettera di impugnazione del licenziamento.

La Corte d’Appello di L’Aquila, con sentenza del 7.12.2006 – 25.1.2007, pronunciando in sede di rinvio, dichiaro’ l’illegittimita’ del licenziamento, ordino’ la reintegrazione della M. nel posto di lavoro e condanno’ la parte datoriale al pagamento delle retribuzioni, sulla base di quella mensile indicata, dal recesso all’effettiva reintegra, oltre accessori di legge, nonche’ al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per lo stesso periodo.

A sostegno del decisum la Corte territoriale ritenne quanto segue:

– l’eccezione di nullita’ della lettera di impugnazione del licenziamento andava disattesa poiche’:

a) non era stata proposta nella comparsa di risposta, come indicato dalla Suprema Corte, bensi’ in sede di comparsa conclusionale, recante la pagina 19 specificata nella sentenza di rinvio, ne’ la lavoratrice avrebbe potuto formulare prove per imputare a se’ stessa tale impugnazione in difetto di una tempestiva contestazione della controparte, tale non potendosi considerare quella generica contenuta nella comparsa di risposta;

b) in ogni caso, se la prima missiva di impugnazione del 25.3.1999 era priva di sottoscrizione, non lo era la copia inoltrata all’ULPMO, contenente la richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione del 21.4.1999, inviata dalla M. all’Arsana con plico raccomandato e da questa ricevuta il 24.4.1999, quindi entro il termine di sessanta giorni dal licenziamento; tale atto era infatti idoneo a manifestare la volonta’ della lavoratrice di impugnare il licenziamento e la conformita’ all’originale della prodotta fotocopia dell’atto stesso non era stata contestata dall’Artsana, che, pertanto, non poteva dolersene in sede di giudizio di rinvio;

– in ordine alla circostanza, evidenziata nella sentenza d’appello, secondo cui le indagini e i procedimenti erano stati solo originati da due denunce della M., mentre la scelta dei soggetti da incriminare e la cadenza temporale dei procedimenti era stata del tutto estranea alla sua sfera di disponibilita’, doveva rilevarsi che, se era vero che la Societa’ non aveva mai contestato alla lavoratrice di avere denunciato dei soggetti appartenenti alla sua organizzazione, senza reagire e per oltre sei anni, era anche vero che lo aveva poi fatto in modo inappropriato; infatti la contestazione disciplinare riguardava il contenuto di dichiarazioni che la donna aveva reso al magistrato quale testimone in un procedimento penale allora in corso ed era evidente che, nella specie, la M. stava raccontando dei fatti (peraltro confermando precedenti dichiarazioni rese in altri contesti) dei quali era stata allegata la falsita’ senza che ve ne fosse la prova;

infatti la circostanza che i procedimenti scaturiti dalle sue denunce fossero stati archiviati non implicava di per se’ che le dichiarazioni rese fossero false, tant’e’ – anche se la circostanza non era risolutiva – che non risultavano iniziati a carico della dichiarante procedimenti per calunnia, nel mentre l’assoluzione di una dipendente dell’Artsana, avvenuta poiche’ le accuse contro di lei non avevano trovato alcun riscontro, era stata ben successiva alla contestazione; pertanto, essendosi la contestazione disciplinare basata esclusivamente sulle ridette dichiarazioni, la cui falsita’ non poteva ritenersi accertata (e non sulla condotta tenuta negli anni dalla M. o sulla sua pur dedotta protervia e pervicacia nelle denunce proposte e sulle conseguenze negative per l’azienda di una siffatta condotta, produttiva di tensioni), doveva dedursi l’illegittimita’ del conseguente provvedimento di licenziamento;

– la Societa’ non aveva provato in altro modo l’inattendibilita’ delle dichiarazioni della lavoratrice, il che non significava che l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro dovesse essere condizionato al preventivo accertamento giudiziale dei fatti da contestare o che non potesse essere oggetto di sanzione disciplinare la condotta tenuta da un dipendente nel corso di un procedimento giudiziale;

– stante la sua infondatezza nel merito, restava assorbito l’accertamento della tempestivita’ della contestazione.

Avverso tale sentenza della Corte territoriale, l’Artsana spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su quindici motivi.

L’intimata M.M. ha resistito con controricorso, chiedendo altresi’ la condanna della ricorrente al risarcimento dei danni per responsabilita’ aggravata, dovuto per il pretestuoso esperimento del ricorso per cassazione.

La ricorrente ha depositato memoria, con la quale ha chiesto altresi’ la cancellazione di alcuni termini e frasi, contenuti nel controricorso, asseritamene ingiuriosi e la condanna della controparte al risarcimento del danno.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, nonche’ vizio di motivazione, deducendo che la nullita’ formale della lettera di impugnazione del licenziamento era stata eccepita alla pagina 13 della comparsa di costituzione e risposta e alla pagina 19 della comparsa conclusionale, sicche’ l’indicazione, da parte della Corte di Cassazione, della pagina 19 anziche’ della pagina 13, doveva ritenersi un mero errore materiale.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ulteriormente violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, nonche’ vizio di motivazione, deducendo che la Corte di Cassazione, accogliendo il primo motivo di ricorso, aveva implicitamente riconosciuto la fondatezza e, ancor prima, la legittimita’ formale dell’eccezione.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 6 deducendo che la contestazione formulata da essa ricorrente in ordine all’impugnazione del licenziamento avrebbe dovuto indurre la lavoratrice a formulare al Tribunale tutte le necessarie istanze istruttorie.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ulteriormente violazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 6, nonche’ vizio di motivazione, deducendo l’inidoneita’ probatoria della fotocopia del documento prodotto presso l’ULPMO di Roma e la mancata attivazione da parte della lavoratrice al fine di fare accertare la validita’ della sua lettera di impugnazione, essendo peraltro state prodotte solo in sede di ricorso in riassunzione le ricevute di ritorno.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia ancora violazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 6, nonche’ vizio di motivazione, deducendo che non poteva attribuirsi alcuna validita’ ed efficacia all’atto qualificato come impugnativa di licenziamento e che non era provato che lo stesso fosse contestuale alla richiesta formulata ex art. 410 c.p.c. presso l’ULMPO di Roma.

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, dolendosi che la Corte territoriale abbia consentito alla lavoratrice la produzione dei documenti meglio descritti nel ricorso in riassunzione.

1.1 In base all’art. 366 bis c.p.c. (applicabile nella presente causa ratione temporis), il principio di diritto che, a pena di inammissibilita’, deve esser formulato a conclusione dei motivi svolti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, deve consistere in una chiara sintesi logico – giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimita’, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame; conseguentemente e’ inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, si’ da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 20360/2007; 36/2007).

Ove poi il motivo risulti svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena di inammissibilita’, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, cosicche’ la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilita’ (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 20603/2007).

1.2 I primi sei motivi di ricorso non rispondono a tali quesiti.

Infatti il primo motivo si conclude con la formulazione dei seguenti quesiti:

“il vizio di contraddittoria motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5, si configura quando vengono rappresentati per veri fatti che non trovano riscontro negli atti di causa”;

“Il Giudice di rinvio deve attenersi alle valutazioni di fatto e di diritto contenute nella sentenza della Suprema Corte di Cassazione con cui e’ stata disposta la delibazione del giudizio”.

Il secondo motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito:

“Il Giudice di rinvio non puo’ assumere valutazioni di fatto e di diritto diverse da quelle pronunciate dalla Suprema Corte di Cassazione, ma deve attenersi a quanto contenuto nella sentenza con cui quest’ultima ha disposto la delibazione del giudizio”.

Il terzo e il quarto motivo si concludono con la formulazione dei seguenti quesiti:

“a) il contenuto della fotocopia di una lettera non e’ imputabile al suo autore se la sottoscrizione della stessa e’ costituita da una firma pure essa in fotocopia.

b) E’ affetto da nullita’ assoluta e quindi non produttiva di alcun effetto giuridico la fotocopia di un documento a meno che tale fotocopia non sia stata dichiarata conforme all’originare da un Pubblico Ufficiale e/o da altro soggetto con poteri equipollenti e la dichiarazione relativa sia apposta sul documento fotocopiato;

c) Il soggetto che ha subito un licenziamento, per poter far dichiarare l’illegittimita’ dello stesso, deve prima provare di aver efficacemente impugnato, nei modi e nelle forme previste L. n. 604 del 1966, ex art. 6”.

Il quinto motivo riproduce i tre anzidetti quesiti e aggiunge il seguente:

“d) L’atto di impugnazione del licenziamento ha natura di negozio giuridico unilaterale recettizio, ex art. 1335 c.c., e come tale deve giungere a conoscenza del destinatario per produrre i suoi effetti;

in particolare, deve pervenire all’indirizzo del datore di lavoro entro i sessanta giorni previsti dalla L. n. 604 del 1966, art. 6 per evitare la decadenza dalla facolta’ di impugnare; ne consegue che il deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di conciliazione, non e’ sufficiente ad impedire la decadenza, ma e’ necessario a tal fine che la comunicazione della convocazione pervenga al datore di lavoro prima dei termine di sessanta giorni previsto dalla legge, ovvero che il lavoratore provveda autonomamente a notificargli tale richiesta, senza attendere la comunicazione dell’ufficio, onde evitare il rischio del maturarsi della decadenza. Cassazione civile, sez. lav., 15 maggio 2006, n. 11116″.

Il sesto motivo si conclude con la richiesta di affermazione del seguente principio:

In base alle disposizioni contenute nell’art. 437 c.p.c., comma 2, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto determinano la decadenza dal diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso e alla memoria di costituzione”.

Tutti tali quesiti di diritto non rispondono alla richiesta esigenza di specificita’, risultando gli stessi formulati in termini avulsi dal contesto processuale rispetto a cui dovrebbero trovare applicazione e risolvendosi nella formulazione di principi di diritto astratti e generici (anche a prescindere dalla loro condivisibilita’), che, come tali, non consentirebbero, quale che sia la risposta da darsi, di accogliere o respingere il gravame.

Per quanto poi concerne i dedotti vizi di motivazione (primo, secondo, quarto e quinto motivo), i momenti conclusivi afferenti al primo motivo sono privi della chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume contraddittoria, mentre per gli altri la formulazione del momento di sintesi che ne circoscriva puntualmente i limiti e’ addirittura completamente mancante.

Tutti i suddetti motivi risultano percio’ inammissibili.

2. Il settimo, ottavo, nono e decimo motivo di ricorso sono tutti svolti denunciando vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);

l’undicesimo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

In particolare:

– con il settimo motivo la ricorrente evidenzia che la sua reazione si era manifestata quando la M. si era permessa, “per l’ennesima volta”, di addebitare ad alcuni alti funzionari della Societa’ condotte particolarmente disdicevoli senza avere prove della loro rispondenza al vero;

– con l’ottavo motivo la ricorrente assume che, contrariamente all’avviso della Corte territoriale, erano stati acquisiti fatti e circostanze, tra loro concordanti, tali da far definire false le dichiarazioni oggetto della contestazione disciplinare; la Corte territoriale avrebbe invece invertito l’onere della prova, attribuendo alla Societa’ l’obbligo di provare se i fatti oggetto delle contestazioni fossero o meno rispondenti al vero;

– con il nono motivo la ricorrente censura l’affermazione della Corte territoriale, peraltro dichiaratamente non “risolutiva”, secondo cui la mancata prova della falsita’ delle dichiarazioni della M. andrebbe desunta anche dal fatto che contro la medesima non erano stati promossi procedimenti per calunnia;

– con il decimo motivo la ricorrente si duole che la Corte territoriale, al fine di valutare la falsita’ o meno delle dichiarazioni contestate, abbia valorizzato la circostanza che l’assoluzione di una propria dipendente era avvenuta in un momento successivo alla contestazione disciplinare;

– con l’undicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., nonche’ vizio di motivazione, deducendo che erroneamente la Corte territoriale aveva dichiarato l’illegittimita’ del licenziamento per non essere stata data dalla parte datoriale la prova della falsita’ delle dichiarazioni rese dalla lavoratrice, in quanto, in difetto della dimostrazione da parte di quest’ultima della loro rispondenza al vero, le stesse avrebbero dovute essere qualificate come diffamatorie e, come tali, meritevoli della sanzioni disciplinare adottata.

2.1 I motivi all’esame non possono trovare accoglimento, per l’assorbente rilevo che, a fronte di una motivazione della Corte territoriale essenzialmente incentrata – nei termini gia’ esposti dallo storico di lite – sul mancato accertamento della falsita’ delle dichiarazioni rese dalla M. quale testimone, la ricorrente ha omesso, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di trascrivere in tale atto, nel loro esatto tenore, il contenuto delle ridette dichiarazioni, in ordine alla falsita’ delle quali, secondo il percorso argomentativo seguito nella sentenza impugnata, si fondavano gli addebiti contestati.

Correlata a tale omissione risulta altresi’ la mancata formulazione, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. del momento di sintesi che circoscriva puntualmente i limiti di ciascun motivo, contenendo invece gli stessi degli pseudo quesiti di diritto, risolventisi in affermazioni giuridiche di carattere generico.

3. Con il dodicesimo e tredicesimo motivo (entrambi svolti per asserito vizio di motivazione) la ricorrente censura l’affermazione della Corte territoriale secondo cui “non si vuol certo dire che l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro debba essere condizionato al preventivo accertamento giudiziale dei fatti da contestare o che non possa essere oggetto di sanzione disciplinare la condotta tenuta da un dipendente nel corso di un procedimento giudiziale”, assumendo che il datore di lavoro puo’ risolvere il rapporto per fatti ascrivibili al lavoratore senza necessita’ di attendere la sentenza definitiva di condanna e ancorche’ la condotta del lavoratore sia stata posta in essere al di fuori del rapporto di lavoro. Entrambe le censure sono inammissibili per difetto di interesse, essendo evidente che le affermazioni rese dalla Corte territoriale non si pongono in contrasto con le asserzioni della ricorrente e, al contrario, sul piano generale le confermano.

4. Con il quattordicesimo motivo la ricorrente, denunciando vizio di motivazione, censura l’affermazione della Corte territoriale secondo cui, per la ritenuta infondatezza nel merito della contestazione, restava assorbito l’accertamento della sua tempestivita’, negando, in sostanza di avere agito in ritardo.

La doglianza e’ da ritenersi inammissibile, perche’ svolta su questione che la sentenza impugnata non ha esaminato avendola ritenuta, come detto, assorbita.

5. Con il quindicesimo motivo la ricorrente, denunciando vizio di motivazione, assume la rilevanza che la condotta tenuta dalla M. aveva rivestito quale giusta causa di risoluzione del rapporto. Il motivo e’ inammissibile, siccome anch’esso afferente a questione che la Corte, una volta ritenuti non provati i fatti contestati, non ha esaminato.

6. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, non potendo peraltro ravvisarsi le condizioni oggettive e soggettive per la condanna della ricorrente al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c..

7. Quanto alla svolta richiesta di cancellazione di taluni termini e frasi contenuti nel controricorso e ritenuti dalla ricorrente sconvenienti ed offensive, deve rilevarsi che gli stessi – in disparte da quanto specificamente concerne l’espressione contenuta alla pag. 40 del controricorso – non rivestono gli estremi richiesti dalla legge (art. 89 c.p.c., comma 1), risolvendosi in manifestazioni di censura, seppur aspra, della condotta processuale della controparte. Ad analoghe conclusioni deve peraltro giungersi anche per la locuzione contenuta alle righe 3 e 4 del controricorso (laddove si fa riferimento alla “frode che ha cercato di porre in essere la controparte”), posto che con tale espressione, come si evince chiaramente dalla lettura complessiva del periodo, non si intende denunciare un comportamento artificioso – tale cioe’ da configurare una vera e propria frode processuale – ma soltanto l’avvenuta contestazione della mancanza di sottoscrizione della impugnativa di licenziamento in relazione ad una piuttosto che ad un’altra delle missive prodotte. L’istanza all’esame non puo’ pertanto trovare accoglimento.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 76,00 oltre ad Euro 3.500,00 (tremilacinquecento/00) per onorari, spese generali, IVA e CPA come per legge.

Cosi’ deciso in Roma, il 13 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2010

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