Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18883 del 15/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 15/07/2019, (ud. 14/03/2019, dep. 15/07/2019), n.18883

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24685-2017 proposto da:

V.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHIANA N.

48, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO PILEGGI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANCARLO BRIA;

– ricorrente –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA DI COSENZA, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI VILLA

SACCHETTI, 9, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO LANGOSCO DI

LANGOSCO, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLO SICILIANO;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 1317/2017 della CORTE

D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 16/08/2017 R.G.N. 1987/2013.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1317 del 2017, accogliendo l’appello proposto dall’Azienda Ospedaliera di Cosenza nei confronti del Dott. V.F., ha rigettato il ricorso proposto da quest’ultimo nei confronti della medesima Azienda datrice di lavoro.

2. L’Azienda aveva proposto impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza del 13 novembre 2013, con la quale, in parziale accoglimento del ricorso proposto dal lavoratore, era stata dichiarata la nullità del licenziamento per giusta causa comminatogli in data 6 maggio 2010, e sancita la condanna della convenuta al risarcimento del danno patrimoniale L. n. 300 del 1970, ex art. 18.

3. La Corte d’Appello ha accolto l’impugnazione dell’Azienda.

4. Il giudice di appello, nella sentenza, ha indicato in premessa i fatti sottostanti al provvedimento disciplinare espulsivo comminato all’appellato, come di seguito riportati.

In data (OMISSIS), a seguito di esame bioptico da cui era emersa una diagnosi “adenocarcinoma di 7 grado” a livello prostatico, il paziente, di anni 74, è ricoverato presso l’Unità operativa di urologia dello stabilimento ospedaliero dell'(OMISSIS), per l’intervento di asportazione del carcinoma.

L’intervento di prostatectomia radicale inizia, in laparotomia, alle h. 15,15, del (OMISSIS), termina dopo circa tre ore e mezza.

A capo dell’equipe operatoria, composta anche da altri dottori, l’odierno ricorrente che riveste anche l’incarico di direttore dell’Unità Operativa di Urologia. Dalla cartella clinica l’intervento risulta eseguito senza complicanze.

Alle 20.00, il paziente è riportato in reparto. Intorno alle 22,30/23,30, si constata una condizione di ipotensione (pressione arteriosa 50/40) tanto che gli infermieri in servizio chiamano un rianimatore.

Alle h. 22,20 circa il rianimatore constata “arresto respiratorio” -brachicardia estrema”, “perdita di sangue dal drenaggio”, provvede ad intubare il paziente e si procede ad “emotrasfusione”.

Sopravvenuto un leggero miglioramento intorno alle h. 00,20, il paziente viene estubato, per come annotato nella cartella del rianimatore.

Alle h.00,30, in cartella è ipotizzata “perdita ematica dal plesso di Santorini”. Dopo circa dieci minuti è annotata una -ripresa della perdita ematica” e si procede ad una nuova emotrasfusione.

Alle h. 01,00 è ancora annotata perdita ematica di livello del drenaggio. Consistenti le perdite ematiche registrate in questo lasso temporale come le emotrasfusioni eseguite. Perdite del drenaggio: 500 cc. alle h. 00,30; 350 c.c. alle h. 01,00; 500 cc. alle h. 1,30; 1.000 c.c., alle h. 1,40. Emotrasfusioni: unità 9232 alle h. 23,20; unità 9159, alle h. 01,05; unità 9004, alle h. 01,20; unità 9143 alle h. 01,40 (la Corte d’appello richiama pagg. 16 -17 della CTU procedimento penale e cartella clinica agli atti).

Alle h. 02,20 l’anestesista rianimatore decide di riportare il paziente in sala operatoria. Alle h. 03,05, ulteriori 30 c.c. di liquido siero ematico fuoriescono dal drenaggio, alle h. 03,30 vengono somministrare altre due sacche di sangue; alle h. 04,10, il paziente è sottoposto ad un secondo intervento di “laparatomia esplorativa” eseguito da altri due medici; la diagnosi con cui il paziente è di nuovo portato in sala operatoria e di “shock emorragico postoperatorio”. In corso di intervento sono somministrate 4 sacche di sangue ed una sacca di plasma. Si procede ad emostasi con clip metalliche di una vena otturatoria che sanguina.

Alle h. 05,00 si constata il decesso del paziente.

5. La Corte d’Appello, affermata la incontrovertibilità dei suddetti dati di fatto, in quanto non contestati e attestati dalla documentazione clinica in atti, ha riportato la contestazione disciplinare rivolta all’odierno ricorrente, specificata nella lettera di contestazione del 16 dicembre 2009 come segue:

1) essersi presentato nel reparto urologia, giorno (OMISSIS), solo alle h. 01,30, dopo diverse ore dalla chiamata degli infermieri dello stesso reparto, pur essendo (…) nel turno di pronta reperibilità integrativa (cd. II reperibilità);

2) aver ritardato, con il suo comportamento gravemente omissivo e professionalmente non etico, l’intervento chirurgico che si presentava necessario ed urgente.

Il datore di lavoro qualificava tale comportamento come violazione del codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (D.M. 28 novembre 2000) e segnatamente, dei seguenti obblighi da esso desumibili: obbligo di evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o alla immagine della pubblica amministrazione (art. 2, comma 2, ultima alinea); obbligo di adempiere le proprie competenze nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini e assumere le responsabilità connesse ai propri compiti (art. 2, comma 3, ultima alinea); obbligo di non ritardare nè affidare ad altri dipendenti il compimento di attività e l’adozione di decisioni di propria spettanza, salvo giustificato motivo (art. 10, comma 1).

6. L’Azienda datrice di lavoro non aveva ritenuto condivisibili le giustificazioni fornite dal dirigente medico e con deliberazione del direttore generale del 6 maggio 2010, comunicata in pari data, aveva provveduto alla risoluzione del rapporto per giusta causa.

7. Tanto premesso, la Corte d’Appello nel riformare la sentenza di primo grado assume che il giudice di primo grado ha fondato la propria decisione su di una lettura parziale del materiale istruttorio in atti (le sole prove testimoniali) e peraltro, neppure aderente a quanto effettivamente risultante dagli atti di causa; come evincibile sin dalla premessa della sentenza di primo grado che vorrebbe il primo intervento chirurgico subito dal paziente, essere stato correttamente eseguito, escludendo che nel corso dello stesso si sarebbe determinata la rottura di un vaso sanguigno, in particolare, di una vena otturatoria. Tale conclusione appariva paradossale alla luce di quanto constatato ed eseguito nel corso del secondo intervento risultante dalla cartella clinica.

Non condivisibile era poi l’aver ritenuto non provato il ritardo tra la chiamata degli infermieri che informava il ricorrente del peggioramento del paziente, e il suo arrivo in Ospedale alle h. 01,30, in ragione della non attendibilità delle dichiarazioni testimoniali su cui si fondava, smentite dallo stesso appellato, risultando che quest’ultimo era stato avvisato intorno alle 22,30 dell’aggravamento del paziente ed era consapevole sin da tale momento della gravità della situazione, tanto da avere personalmente contattato il reparto rianimazione. A ciò si aggiungevano le dichiarazioni della Dott.ssa M., medico in prima reperibilità, riportate nella sentenza di appello, dettagliate e non smentite da alcuna risultanza istruttoria.

8. La Corte d’Appello assume la autonomia tra il procedimento penale (di cui erano pervenuti il decreto di rinvio a giudizio, CTU medica collegiale eseguita su incarico del PM ed acquisita agli atti dibattimentali, copia della cartella clinica e, prodotto dalla difesa dell’appellato, dispositivo di pronuncia di assoluzione degli imputati) concluso con l’assoluzione in relazione all’imputazione di omicidio colposo, e il procedimento disciplinare la cui contestazione non consisteva nell’aver cagionato la morte del paziente.

9. Rilevato che nella complessiva vicenda venivano in rilievo un comportamento commissivo con riguardo alle modalità ed esito del primo intervento chirurgico, ed un comportamento omissivo rappresentato dall’enorme ritardo del secondo intervento chirurgico finalizzato a tamponare l’emorragia, la Corte d’Appello afferma che il ricorrente giunse nel reparto solo alle 01,30 e che con il proprio comportamento continuava a ritardare 1″ interevento finalizzato a tamponare l’emorragia, dando luogo a violazione delle norme comportamentali sopra indicate, che nel settore del pubblico impiego possono intendersi come specificazioni dei generali obblighi di diligenza e fedeltà dei lavoratori ex artt. 2104 e 2105 c.c..

Afferma la Corte d’Appello che non si poteva dubitare che costituiva violazione di tali specifici obblighi (e con essi dei più generali doveri di diligenza e fedeltà) il comportamento di un medico che, dopo aver eseguito un delicato intervento chirurgico del genere di quello descritto e in servizio di reperibilità (sia pure seconda reperibilità), avendo avuto contezza sin dalle 22,30 dell’esistenza di una gravissima sintomatologia che indicava l’esistenza di una consistente emorragia in corso, ritardi di ben tre ore il proprio arrivo in ospedale. Come non poteva dubitarsi che ne integrasse violazione l’inerzia successiva a tale arrivo, allorchè constatato dai dati clinici documentali e dalle sollecitazioni del medico di prima reperibilità nonchè di altro medico (Dott.ri M., S.), decise di procedere al secondo intervento solo dopo due ore e mezza.

11. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando tre motivi di impugnazione.

12. Resiste l’Azienda con controricorso.

13. In prossimità dell’udienza pubblica il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Occorre premettere che la Corte d’Appello indica come oggetto della contestazione: 1) essersi presentato nel reparto urologia, giorno 10 novembre 2009, solo alle h. 01,30. dopo diverse ore dalla chiamata degli infermieri dello stesso reparto, pur essendo (…) nel turno di pronta reperibilità integrativa (cd. II reperibilità); 2) aver ritardato, con il suo comportamento gravemente omissivo e professionalmente non etico, l’intervento chirurgico che si presentava necessario ed urgente. Comportamento che il datore di lavoro qualificava come violazione del codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (D.M. 28 novembre 2000) e segnatamente, dei seguenti obblighi da esso desumibili: obbligo di evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o alla immagine della pubblica amministrazione (art. 2, comma 2. ultima alinea); obbligo di adempiere le proprie competenze nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini e assumere le responsabilità connesse ai propri compiti (art. 2, comma 3, ultima alinea); obbligo di non ritardare nè affidare ad altri dipendenti il compimento di attività e l’adozione di decisioni di propria spettanza, salvo giustificato motivo (art. 10, comma 1).

Tale statuizione non costituisce oggetto di specifica e circostanziata contestazione, atteso peraltro. che nel ricorso non è riportato il testo della contestazione disciplinare nè è indicato il luogo di eventuale produzione del relativo documento nel giudizio di merito.

Il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e. altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (Cass., n. 14784 del 2015).

2. Il giudice di appello ha. quindi, affermato che costituisce violazione di tali specifici obblighi, e con essi dei più generali doveri di diligenza e buona fede, il comportamento di un medico che, dopo avere eseguito un delicato interevento chirurgico del genere sopra descritto, ed in servizio di reperibilità (sia pure seconda reperibilità), avendo avuto contezza sin dalla h. 22,30 dell’esistenza di una gravissima sintomatologia che indicava l’esistenza di problemi post-operatori e, segnatamente, dell’esistenza di una consistente emorragia in corso (forte ipotensione, fuoriuscita di sangue dal drenaggio, continue trasfusioni e sinanche arresto respiratorio ed intubazione del paziente) ritardi di ben tre ore il proprio arrivo in ospedale. Così l’inerzia successiva a tale arrivo, allorchè constatato dai dati clinici documentali e dalle sollecitazioni del medico di prima reperibilità nonchè di altro medico (Dott.ri M., S.), decise di procedere al secondo intervento solo dopo altre due ore e mezza. L’ingiustificabile attesa di circa sei ore in un simile contesto ha integrato una palese violazione dei doveri di cui alla contestazione.

3. Ha escluso che la responsabilità dell’appellato potesse ritenersi attenuata dalla circostanza che il medico di prima reperibilità fosse la Dott.ssa M.. Quest’ultima si era recata in ospedale con un ritardo piuttosto lieve (dopo circa un ora dalla chiamata) e non fece altro che sollecitare la presenza del ricorrente per procedere ad un nuovo interevento, atteso che egli era il dirigente dell’Unità Operativa di Urologia in posizione di supremazia gerarchica, nonchè capo dell’equipe che aveva eseguito l’interevento. quindi in posizione di supremazia gerarchica oltre che di privilegio nella valutazione di eventuali complicanze.

4. Preliminarmente va rilevato che con la memoria depositata ex art. 187 c.p.c., il ricorrente ha depositato la sentenza penale di assoluzione emessa dal Tribunale di Cosenza, depositata il 4 maggio 2016, mentre ancora pendeva il giudizio civile di appello definito, oltre un anno dopo, con la sentenza 6 luglio 2017-16 agosto 2017.

Nel giudizio di appello veniva introdotto il dispositivo penale di assoluzione, ma non la motivazione intervenuta con il deposito della sentenza.

Tale deposito documentale è inammissibile in quanto (Cass., n. 2125 del 2014, n. 11683 del 2018) in tema di ricorso per cassazione, il divieto di cui all’art. 372 c.p.c.. di produrre nuovi documenti nel giudizio di cassazione – fatta eccezione per quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso – non riguarda i soli atti e documenti già facenti parte del fascicolo d’ufficio o di parte di un precedente grado del processo. circostanza non ravvisabile nella specie, atteso che il ricorrente non produceva tale documento in appello.

5. Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

6. Con il primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (disattesa istanza di acquisizione della motivazione della sentenza penale di assoluzione con formula piena, e valutazione della stessa per decidere).

Assume il ricorrente che la Corte d’Appello non aveva dato corso all’istanza di acquisizione della motivazione della sentenza penale di assoluzione (di cui riporta alcuni passi), che avrebbe consentito di attribuire il giusto peso disciplinare alla condotta di esso ricorrente.

In data 26 aprile 2016, prima dell’udienza di discussione lavoro fissata per il 3 maggio 2016. il ricorrente depositava istanza in cui esponeva che non erano state depositate le motivazione della pronuncia penale di assoluzione. Tale istanza veniva disattesa.

La Corte d’Appello dava rilievo solo ad alcuni atti del processo penale.

La sentenza penale avrebbe consentito di chiarito alcuni aspetti che il giudice di appello aveva desunto da alcuni stralci del processo e dalla relazione peritale della Procura.

7. Il motivo è in parte inammissibile, e in parte non fondato con riguardo all’assetto legale dei rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare la cui erronea applicazione costituisce presupposto logico giuridico della censura del ricorrente.

7.1. Occorre rilevare che la sentenza di appello oggetto dell’odierna impugnazione è stata decisa con lettura del dispositivo all’udienza del 6 giugno 2017, e depositata il 16 agosto 2017.

Il ricorrente nella memoria (seconda pagina), dà atto che la sentenza penale di assoluzione. dispositivo del 7 marzo 2016, che non era stata depositata alla data del 26 aprile 2016, era stata poi depositata il 4 maggio 2016.

Dunque, poichè l’appellante avrebbe potuto, in ragione degli illustrati tempi, produrla nel giudizio di appello, essendo stata depositata un anno prima dell’udienza lavoro di discussione, e non sono indicate le ragioni per cui all’inerzia della parte avrebbe dovuto supplire la Corte d’appello con l’esercizio dei poteri officiosi, il relativo profilo di censura risulta privo di specificità e non in grado di consentire a questa Corte il giudizio di rilevanza sullo stesso.

7.2. In ordine al prospettato assorbente rilievo della pronuncia di assoluzione, che invece la Corte d’Appello non ha ritenuto idonea ad escludere la rilevanza disciplinare degli addebiti mossi al lavoratore, si osserva che nel pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento. restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente (Cass.. n. 8410 del 2018).

Dunque (Cass., n. 13 del 2015), la contestazione disciplinare a carico del lavoratore non è assimilabile alla formulazione dell’accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire all’incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa, sicchè essa va valutata in modo autonomo rispetto ad eventuali imputazioni in sede penale.

Si è, altresì, osservato che, con riguardo al licenziamento disciplinare, non è rilevante l’assoluzione in sede penale circa i fatti oggetto di contestazione, bensì l’idoneità della condotta a ledere la fiducia del datore di lavoro, al di là della sua configurabilità come reato, e la prognosi circa il pregiudizio che agli scopi aziendali deriverebbe dalla continuazione del rapporto (Cass., n. 7127 del 2017).

7.3. Occorre ricordare che l’efficacia delle sentenze penali nel giudizio disciplinare è regolata dall’art. 653 c.p.p., che attribuisce efficacia di giudicato alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione e a quella di condanna, rispettivamente quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso e quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

7.4. Il ricorrente nel dolersi che la Corte d’Appello nel non far discendere dall’intervenuta assoluzione, di cui aveva contezza, il venir meno della connotazione disciplinare degli addebiti mossigli dal datore di lavoro, non coglie e non censura in modo adeguato la ratio decidendi.

Oltre alla ricordata autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare, va osservato che la Corte d’Appello afferma, proprio avendo riguardo al dispositivo della sentenza penale, che non vi era pregiudizialità tra il procedimento penale e quello disciplinare, in quanto il comportamento contestato al V., che ne aveva determinato il licenziamento, non consisteva nell’aver procurato la morte del paziente, intendendo così quest’ultima come imputazione del processo penale.

Per la Corte d’Appello, nella sostanza, il fatto oggetto del processo penale non era sovrapponibile al fatto oggetto della contestazione disciplinare.

Rispetto a tale affermazione il ricorrente, che nella memoria deduce il passaggio in giudicato della sentenza penale di assoluzione, da cui discende il rilievo di quanto stabilito dall’art. 653 c.p.p., nella formulazione del motivo di ricorso riporta e illustra alcuni passi della sentenza penale con una censura che tuttavia risulta priva di specificità, anche al fine del vaglio di rilevanza, in quanto non è contestato espressamente quanto statuito dalla Corte d’Appello circa la diversità dell’imputazione penale (riguardante il fatto di aver cagionato la morte del paziente) rispetto alla contestazione disciplinare (riguardante il fatto di essere arrivato con ritardo in ospedale e nell’aver ritardato la seconda operazione, come sopra esposto).

7.5. La doglianza, per altri versi, si limita a proporre una rivalutazione delle risultanze istruttorie, in ragione delle motivazioni della sentenza penale, alternativa rispetto a quella della sentenza d’Appello, in tal modo sottoponendo alla Corte di legittimità questioni di mero fatto atte a indurre un preteso nuovo giudizio di merito precluso in questa sede.

E’ da rilevare, inoltre, che, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (cfr., Cass., S.U., n. 8053 del 2014), il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

L’omesso esame di elementi istruttori, pertanto, non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il -fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.

Gli indicati parametri non risultano rispettati nella specie, talchè difettano i presupposti perchè la censura possa essere ricondotta nell’ambito della nozione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

8. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 17 del CCNL Direzione medica 2005 (disponibilità/reperibilità); art. 13 CCNL comparto sanità 2004 e successive modifiche introdotte dall’art. 6 CCNL 2008 (codice disciplinare); D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 54 e 55 (codice di comportamento); art. 2119 c.c. (licenziamento per giusta causa): artt. 2104 e 2105 c.c. (obblighi di diligenza fedeltà).

Assume il ricorrente che nella vicenda relativa al proprio licenziamento, l’istituito della disponibilità/reperibilità del dirigente di struttura complessa diventa elemento essenziale e determinante, al punto da necessitare di maggiore approfondimento circa la sua interpretazione.

Espone che sussistono due fattispecie di pronta disponibilità: sostitutiva (prevista quando i turni notturni e festivi non sono coperti da un servizio di guardia) e integrativa (quella prevista quando i turni notturni e festivi sono coperti da un servizio di guardia).

Leggendo in modo congiunto i commi 2 e 3 dell’art. 17 del CCNL Direzione medica, come riscontrato da un parere ARAN, si desume che un direttore di struttura complessa è esonerato dai turni di pronta disponibilità sostitutiva, mentre può essere cooptato nei turni di disponibilità integrativa che si prevede solo nei casi di massima urgenza con necessità di intervento salvavita da parte del direttore di struttura complessa.

In ragione di ciò esso ricorrente era intervenuto con tempismo sul posto di lavoro, atteso che solo alle h. 01,00 era stato edotto dell’esito negativo di tutte le manovre eseguite sul paziente e che si rendeva necessario un nuovo intervento, e giungeva al reparto alle 01,30, nel rispetto degli orari di cui all’art. 6, comma 1, lett. b) del CCNL della dirigenza medica.

Non poteva farsi carico ad esso ricorrente di non essere intervenuto in reparto sin dalla 22,30 e per altro verso. il secondo intervento non era stato predisposto in ritardo, essendosi dovuto, in precedenza, stabilizzare il paziente. Dunque era erronea l’interpretazione della normativa di riferimento e impingeva la discrezionalità del chirurgo la statuizione della Corte d’Appello.

Nè vi era stata violazione dell’art. 13 e succ. mod. del codice disciplinare, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 54 e 55(Codice di comportamento), atteso che nessuna delle fattispecie a cui era ricondotto il licenziamento senza preavviso era ravvisabile nella specie, e non era stato rispettato il criterio di proporzionalità.

Il ricorrente, inoltre, deduce la violazione dell’art. 2119 c.c. (licenziamento per giusta causa), in quanto nessun addebito disciplinare gli poteva essere mosso in quanto il decesso del paziente poteva ricondursi una gravissima sindrome clinica caratterizzata dalla presenza di numerosi trombi e non alla lesione di una vena otturatoria.

In conformità ai principi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. (obblighi di diligenza e fedeltà) il secondo intervento sul paziente era stato effettuato dopo che le condizioni generali dello stesso erano state stabilizzate, e dunque non poteva ritenersi leso il vincolo fiduciario con il datore di lavoro.

8.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.

8.2. La Corte d’Appello rileva che la contestazione disciplinare riguarda la violazione del Codice di comportamento delle pubbliche amministrazioni di cui al D.M. 28 novembre 2000. Tale Codice è previsto dall’art. 54 del TUPI al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico.

Come ricorda anche la Corte d’Appello il Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni era stato previsto, per la prima volta, dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58- bis, a sua volta introdotto dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 26 e successivamente modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 27.

Un primo Codice era stato adottato nel 1994, in concomitanza con la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali di lavoro dei dipendenti pubblici relativi al primo quadriennio contrattuale. Il codice del 2000 aveva abrogato il precedente, sostituendolo integralmente.

L’art. 54, comma 3, nel testo precedente le modifiche apportate dalla legge. 6 novembre 2012, n. 190, prevedeva “Le pubbliche amministrazioni formulano all’ARAN indirizzi (…) affinchè il codice venga recepito nei contratti, in allegato, e perchè i suoi principi vengano coordinati con le previsioni contrattuali in materia di responsabilità disciplinare.

Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, nel testo originario, a sua volta, stabiliva “Salvo quanto previsto dall’art. 21 e art. 53, comma 1, e ferma restando la definizione dei doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento di cui all’art. 54, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”.

In presenza di tale quadro normativo. il CCNL 2002-2005, cui rinviava per quanto ivi non disciplinato il successivo CCNL 2006-2009 (art. 13 Norme di rinvio o finali), recava all’allegato 2 il Codice di cui al D.M. 28 novembre 2000, che all’art. 1 sancisce: “I principi e i contenuti del presente codice costituiscono specificazioni esemplificative degli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità, che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa”.

Il suddetto CCNL 2002-2005, nel modificare all’art. 11, l’art. 28 del CCNL del 1 settembre 1995, ha stabilito che “Il dipendente adegua altresì il proprio comportamento ai principi riguardanti il rapporto di lavoro, contenuti nel codice di condotta allegato”.

Infine va ricordato che l’art. 13 (Codice disciplinare) del CCNL 2002-2005, al comma 9. stabilisce che le mancanze non espressamente richiamate nei commi da 6 a 8 (il comma 8 è relativo al licenziamento senza preavviso), sono comunque sanzionate secondo i criteri previsti nei commi da 1 a 3 (tra cui proporzionalità e gradualità) facendosi riferimento ai principi da essi desumibili quanto all’individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei lavoratori di cui all’art. 28 del CCNL 1 settembre 1995 come modificato dal medesimo CCNL, nonchè al tipo e alla misura delle sanzioni.

8.3. Dunque, correttamente, in ragione del quadro normativo primario e delle declaratorie contrattuali, il datore di lavoro contestava al ricorrente la violazione dei seguenti obblighi desumibili dal codice di comportamento (nonchè in ragione della funzione del codice di comportamento dagli artt. 2104 e 2105 c.c.): obbligo di evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o alla immagine della pubblica amministrazione (art. 2, comma 2, ultima alinea); obbligo di adempiere le proprie competenze nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini e assumere le responsabilità connesse ai propri compiti (art. 2, comma 3, ultima alinea); obbligo di non ritardare nè affidare ad altri dipendenti il compimento di attività e l’adozione di decisioni di propria spettanza, salvo giustificato motivo (art. 10, comma l).

Ciò pone in evidenza come il richiamo effettuato dal ricorrente alla disciplina contrattuale della reperibilità non è conferente in relazione alla statuizione della Corte d’Appello, che non ha affermato che la contestazione aveva ad oggetto la violazione delle specifiche disposizioni relative alla reperibilità, ma degli obblighi già sopra richiamati.

Il ricorrente, che aveva diretto l’equipe medica che aveva effettuato il primo intervento ed era capo dell’Unità Operativa di Urologia, arrivava in ritardo in Ospedale (h.01,30), pur avendo saputo della grave sintomatologia, problemi post-operatori (h.22,30), con ulteriore tempo che trascorreva fino al secondo intervento (due ore e mezza), senza che rilevasse, quale ragione di esclusione della responsabilità disciplinare, la presente del medico di prima reperibilità (il ricorrente era di seconda reperibilità), atteso che il medico di prima reperibilità da solo non poteva intervenire per l’impossibilità di formare un equipe operatoria (circostanza che la Corte d’Appello assume dedotta dall’Azienda e non smentita, con statuizione che non è adeguatamente censurata in modo specifico dall’odierno ricorrente).

La Corte d’Appello afferma che il ricorrente avrebbe dovuto recarsi senza ritardo in reparto e visitare il malato, proprio per accertare, personalmente e in ragione delle proprie competenze lo stato della situazione rappresentatagli e adottare tempestivamente le misure ritenute del caso.

8.4. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, in tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità (Cass., n. 26010 del 2018).

Si è altresì affermato (Cass., n. 27004 del 2018) che la giusta causa di licenziamento è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti – al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo – le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.

Si è. in particolare precisato che (Cass., n. 9396 del 2018), in tema di licenziamento disciplinare, rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del CCNL, le cui previsioni, anche quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo.

In tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta (Cass. 18858 del 2016).

8.5. La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, con accertamento di merito che si sottare a censura in ragione dell’articolato ed analitico esame delle risultanze istruttorie, tra cui, in particolare, oltre le testimonianze, l’interrogatorio libero, la CTU medica collegiale eseguita su incarico del PM ed acquisita agli atti del dibattimento, la copia autentica della cartella clinica.

Considerando, quindi, la posizione del lavoratore nell’Azienda, il grado di affidamento delle mansioni affidategli anche in relazione alla specifica vicenda (capo equipe e dirigente dell’Unità Operativa di Urologia) e dunque facendo applicazione anche del principio di proporzionalità in relazione alla clausola generale della giusta causa, la Corte d’Appello, applicando correttamente i principi enunciati da questa Corte in materia, ha valutato la legittimità e congruità della sanzione inflitta prevista dalla contrattazione, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con accertamento dei fatti e successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva che, in quanto sorretta da adeguata e logica motivazione sopra richiamata, si sottrae a censura.

9. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 421 e 437 c.p.c., e dell’art. 111 Cost. (poteri istruttori del Giudice e del giusto processo).

Assume il ricorrente che la Corte d’Appello non avrebbe fatto corretta applicazione dei propri poteri istruttori. Dopo avere ripercorso alcune pronunce giurisprudenziali che sono intervenute in materia, il ricorrente si duole della mancata acquisizione della motivazione della sentenza penale e della perizia dei consulenti dell’imputato, mentre era stata disposta l’acquisizione della perizia medico legale dei consulenti del PM, quindi della pubblica accusa.

9.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato per le ragioni già esposte nella trattazione del primo motivo, nonchè per quanto di seguito esposto.

In primo luogo, si osserva che la CTU medica collegiale seguita su incarico del PM era stata acquisita agli atti del dibattimento, come affermato dalla Corte d’Appello e non contestato specificamente dal ricorrente, e quindi in una fase processuale caratterizzata dal contraddittorio.

Oltre a rilevarsi che non risulta dedotta la ragione per cui i poteri istruttori del giudice avrebbero dovuto supplire all’onere probatorio della parte con riguardo alla propria perizia, si osserva che da un lato la mancata indicazione circostanziata del luogo processuale della relativa istanza e la mancata indicazione del contenuto della propria perizia di cui non sarebbe stata disposta l’acquisizione, si riverbera in un difetto di specificità della censura che non consente di apprezzarne la rilevanza.

10. Il ricorso deve essere rigettato.

11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

12. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13. comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2019

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