Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18868 del 12/07/2019

Cassazione civile sez. I, 12/07/2019, (ud. 12/06/2019, dep. 12/07/2019), n.18868

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 23453/2018 proposto da:

C.Q., elettivamente domiciliato in Roma P.zza dei

Consoli n. 62, presso lo studio legale dell’avvocato Enrica

Inghilleri, rappresentato e difeso dall’avvocato Lucia Paolinelli;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 53/2018 della CORTE d’APPELLO di ANCONA,

depositata il 17/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 12/06/2019 dal Consigliere Relatore, Dott.ssa GIULIA

IOFRIDA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 53/2018, ha, riformando la decisione di primo grado, respinto la richiesta di C.Q., cittadino nigeriano, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria. Il Tribunale aveva accolto la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, dando rilievo alla situazione socio politica in (OMISSIS), paese di transito nel quale il richiedente, lasciato il Paese d’origine, aveva soggiornato alcuni mesi, prima di arrivare in Italia, con contratto di lavoro e la disponibilità di un appartamento condotto in locazione.

In particolare, la Corte d’appello ha osservato che la vicenda personale narrata dal richiedente (essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine, per sfuggire alle minacce di morte di una setta, gli (OMISSIS), cui era affiliato il padre, essendosi rifiutato egli di farne parte) risultava generica e scarsamente credibile e non integrava i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non essendo stati neppure dedotti rischi di persecuzione o timori per la propria incolumità fisica, tali da non potere trovare adeguata protezione nel Paese di provenienza da parte delle Autorità locali; nè risultava essere stato effettivamente allegato dal richiedente il fatto di avere lavorato regolarmente in (OMISSIS); quanto poi alla protezione sussidiaria, la Regione di provenienza del richiedente (il (OMISSIS)) non era interessata da conflitti armati interni; infine, quanto alla protezione umanitaria, non emergeva, per difetto anche di allegazione di circostanze rilevanti, una situazione meritevole di protezione umanitaria.

Averso la suddetta ordinanza, C.Q. propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico plurimo motivo, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge attività difensiva).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con l’unico plurimo motivo, sia la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1 A Convenzione di Ginevra, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 11,D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, sia vizio di motivazione, lamentando la mancata attivazione da parte del Tribunale, relativamente a tutte le forme richieste di protezione internazionale, del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, al fine di verificare se, in concreto, gli episodi narrati di violenza generalizzata e diffusa avessero assunto un tale livello di intollerabilità da determinare un rischio per il richiedente di grave compromissione dei propri diritti fondamentali, avendo la Corte d’appello invece statuito senza neppure documentare o specificare le fonti di informazioni utilizzate e dando rilievo al fatto che solo alcune parti della Nigeria sono pericolose; si deduce poi che il provvedimento sarebbe caratterizzato da una motivazione apparente, intrisa di affermazioni generiche, apodittiche, prive di riferimento agli elementi concretamente posti a base della valutazione ed alle censure formulate dal richiedente avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale; in relazione poi al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, si deduce che la Corte d’appello avrebbe omesso di vagliare il percorso di integrazione avviato in Italia (ove il richiedente ha ottenuto un contratto di apprendistato presso una ditta).

2. Preliminarmente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per mancata prova del perfezionamento della notificazione e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio.

Invero, il ricorrente non ha documentato l’esito positivo della notifica del ricorso per cassazione al Ministero dell’Interno, non costituitosi, notifica che risulta effettuata a mezzo del servizio postale, con atto spedito nel luglio 2018 (manca in atti l’avviso di ricevimento).

3. La censura è inammissibile, in ogni caso, nel merito.

Con riguardo al vizio di motivazione apparente, la Corte d’appello ha valutato il materiale istruttorio emerso e la censura si risolve in un vizio di insufficiente motivazione, inammissibile (Cass. n. 23940/2017; Cass. SSUU n. 8053/2014). In particolare, con riguardo alle considerazioni circa la situazione generale del Paese di provenienza, che deve essere fondata sulla consultazione delle fonti informative internazionali, nel caso di specie, non sono presenti nel provvedimento impugnato le lamentate affermazioni stereotipate, genericamente riprodotte come clausola di stile, perchè vi è stata comunque una valutazione del giudice di merito compatibile con le risultanze processuali.

In ogni caso il provvedimento impugnato non è privo di motivazione, anche a prescindere dagli specifici passaggi oggetto di censura, e le affermazioni criticate attengono a passaggi argomentativi del tutto secondari, non strettamente attinenti alla ratio della decisione, sicchè comunque non è configurabile l’assunto vizio di motivazione meramente apparente.

In riferimento, poi, alla violazione del D.Lgs. n. 18 del 2014, di recepimento della Direttiva 2011/95/UE (con la quale sono state modificate alcune disposizioni della Direttiva 2004/83/CE) ed al mancato richiamo nella normativa di recepimento dell’art. 8 Direttiva, in quanto, secondo il ricorrente, non sarebbe possibile in Italia considerare, in difetto di previsione esplicita nel recepimento della Direttiva, ai fini della verifica dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, solo una porzione del Paese d’origine, questa Corte ha già chiarito (Cass. 28433/2018; 8399/2014; Cass. 2294/2012) che “in tema di protezione internazionale, il riconoscimento dello “status” di rifugiato politico va escluso nell’ipotesi in cui il pericolo di persecuzione non sussiste nella parte di territorio del paese di origine dalla quale proviene il richiedente, essendo tale ipotesi diversa da quella prevista dall’art. 8 direttiva 2004/83/CE, non recepita nel nostro ordinamento, in cui il pericolo di persecuzione sussiste nel territorio di provenienza, ma potrebbe tuttavia essere evitato con il trasferimento in altra parte del territorio del medesimo paese in cui tale pericolo non sussiste” (in applicazione di tale principio, questa Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso la sentenza della corte d’appello che aveva escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale in considerazione del fatto che, come risultava dal rapporto di Amnesty International, la situazione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale, determinata dalle attività terroristiche del gruppo “(OMISSIS)”, non era estesa all’Edo State ed alla città di provenienza del richiedente).

Nella specie, la sentenza impugnata non afferma che lo straniero deve tornare in patria per trasferirsi in zona diversa da quella di provenienza ma, al contrario, che proprio nella zona di provenienza del ricorrente non sussistono situazioni di violenza e pericolo in caso di rimpatrio e pertanto la censura avanzata non coglie nel segno e risulta inammissibile.

Laddove si lamenta, poi, che la vicenda personale del richiedente sarebbe stata erroneamente interpretata, e sottovalutata a causa di una errata applicazione del rischio di persecuzione o di danno grave ovvero dei presupposti per il permesso per ragioni umanitarie, la doglianza è, del pari, inammissibile.

La censura si risolve infatti in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012 (v. Cass., sez. un., n. 8053/2014).

Quanto alla protezione umanitaria, poi, le affermazioni del ricorrente sono del tutto generiche, svincolate rispetto alla narrazione in fatto, nè il ricorrente indica quando e come avrebbe sottoposto al Giudice del merito tali situazioni soggettive, che non risultano nè dal ricorso nè dal provvedimento impugnato. Inoltre, quanto dedotto nel corpo del motivo, in ordine al percorso di integrazione avviato in Italia, è privo di decisività.

Rammentato che i criteri posti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, trovano applicazione anche in tema di protezione umanitaria (Cass. 24 settembre 2012, n. 16221), il giudizio di non credibilità del ricorrente preclude, evidentemente, che la vicenda da lui narrata potesse fondare l’accoglimento della domanda di cui trattasi. E ciò è assorbente rispetto a quanto dedotto dal ricorrente in ricorso: infatti, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Cass. n. 17072/2018).

In relazione poi alla mancata attivazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria, la Corte d’appello ha ritenuto del tutto generico il rischio allegato, sia ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato sia ai fini della protezione sussidiaria, valutato anche il contesto attuale del paese d’origine, la Nigeria.

Vero che nella materia in oggetto il giudice abbia il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25534); ma la Corte d’appello ha attivato il potere di indagine nel senso indicato. Vengono qui richiamati i principi di diritto sul tema già espresso da questa Corte (Cass. 27593/2018; Cass. 27503/2018; Cass. 29358/2018; Cass. 17069/2018; Cass. 29358/2018).

In ogni caso, la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica e, per conseguenza, priva di decisività: il ricorrente manca di indicare quali siano le informazioni che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso, limitandosi a fare una generica indicazione a risultanze dei Rapporti di Osservatori Internazionali. Nella specie, la Corte d’appello (come il Tribunale, che, infatti, aveva accolto la richiesta di protezione non relativamente al Paese di provenienza ma relativamente al paese di transito e temporanea permanenza, la (OMISSIS)) ha comunque fatto riferimento ad informative assunte sulla situazione socio-politica della (OMISSIS) successive alle elezioni presidenziali del marzo 2015 ed il ricorrente non dice che si trattava di informazioni non aggiornate e superate.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

Essendo stata la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 12 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2019

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