Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18864 del 15/09/2011

Cassazione civile sez. I, 15/09/2011, (ud. 30/06/2011, dep. 15/09/2011), n.18864

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ZINCOMET S.R.L. – IN LIQUIDAZIONE (C.F. (OMISSIS)), in persona

del Liquidatore pro tempore, FORME INDUSTRIALI S.P.A. (C.F.

(OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliate in ROMA, Via OSLAVIA 40, presso l’avvocato

PUTIGNANO PAOLA DANIELA, rappresentate e difese dall’avvocato CATENA

PASQUALINO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

V.M.C., METALSIDER S.R.L.;

– Intimate –

avverso il provvedimento della CORTE D’APPELLO di BARI, depositato il

14/12/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/06/2011 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto emesso il 22 giugno 2009 il Tribunale di Bari rigettava la domanda di omologazione del concordato preventivo proposto dalla ZINCOMET s.r.l., rilevando come la proposta iniziale – sulla quale il commissario giudiziale aveva espresso parere positivo e non vi erano state opposizioni di creditori – risultasse ormai superata dalla sopravvenienza passiva costituita da un ingente credito di Euro 1.231.207,42 vantato dal Ministero delle Attività Produttive a seguito di revoca del contributo in conto capitale in precedenza erogato, con decreto (allo stato sub judice a seguito di ricorso straordinario al Capo dello Stato) contenente la dichiarazione di volontà di recupero della somma, maggiorata di rivalutazione e di interessi, entro 60 giorni, a pena di esecuzione coattiva.

Il Tribunale di Bari non procedeva, peraltro, alla dichiarazione di fallimento in carenza di ricorsi o di richiesta del pubblico ministero in tal senso.

Il successivo reclamo L. Fall., ex art. 183, proposto congiuntamente dalla medesima società e dalla Forme Industriali s.p.a., assuntrice del concordato, era rigettato dalla Corte d’appello di Bari con decreto in data 14 dicembre 2009.

La corte territoriale motivava che era certamente erronea la qualificazione di sopravvenienza passiva del credito ministeriale, cui doveva invece riconoscersi natura concorsuale, in quanto originato da un fatto costitutivo anteriore alla proposta di concordato;

che per effetto di tale credito, non contemplato nella proposta, la fattibilità del piano, oggetto della verifica di ammissibilità rimessa al giudice, era ormai venuta meno;

che l’omologazione del concordato, con cessione dei beni alla FORME INDUSTRIALI s.p.a, in veste di assuntore, esigeva il requisito della trasparenza e della praticabilità, escluso correttamente dal primo giudice, giacchè la società debitrice, sebbene edotta del procedimento amministrativo in fieri, aveva omesso di esporre, tra le passività, il credito vantato da parte del Ministero per lo Sviluppo Economico al rango privilegiato, con violazione del canone di correttezza (L. Fall., art. 173, comma 3): causa di una drastica riduzione della percentuale distributiva promessa al ceto creditorio.

Avverso il provvedimento, comunicato per estratto in data 4 gennaio 2010, la Zincomet s.r.l. in liquidazione e la Forme Industriali s.p.a. proponevano ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost., notificato il 23 febbraio 2010 ed articolato in due motivi.

Deducevano:

1) la violazione della L. Fall., art. 180, nel testo novellato, perchè il tribunale prima e la corte d’appello poi, pur in carenza di opposizione di alcun creditore, avevano proceduto ad una verifica di fattibilità del piano che era loro preclusa, una volta esaurita la fase iniziale dell’ammissione al beneficio;

2) la violazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 173, u.c., e art. 180, comma 4, e la carenza di motivazione perchè in assenza di opposizione, la corte non poteva valutare il merito della proposta, e cioè la fattibilità o addirittura la convenienza, neppure in prospettiva sanzionatoria della revoca del beneficio cui la società era stata ammessa.

Il commissario giudiziale non svolgeva attività difensiva.

All’udienza del 30 giugno 2011, il Procuratore generale precisava le conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente per affinità di contenuto. La tesi interpretativa ad entrambi sottesa è infatti l’inibizione, in sede omotogativa, del giudizio officioso di fattibilità del piano in carenza di opposizione di alcun creditore;

perfino in presenza di una causa di revocabilità dell’ammissione L. Fall., ex art. 173.

Viene quindi riproposta alla disamina di questa Corte la questione nevralgica dei limiti del potere di controllo del giudice;

fortemente controversa nella giurisprudenza di merito ed in dottrina, nonostante la breve vita dell’istituto concorsuale novellato. Il dibattito concettuale risente, in modo marcato, dell’impronta di politica del diritto che informa la recente riforma, riassunta sotto l’esergo della c.d. privatizzazione (o contrattualizzazione) del concordato preventivo (così come di quello fallimentare): frutto della volontà di contenere la verifica d’ufficio entro i confini della regolarità della procedura ab estrinseco, quale mera condicio juris di efficacia della soluzione negoziale della crisi d’impresa.

Mens legis di intonazione vagamente ideologica, riscontrabile nella temperie culturale in cui è maturata la novella fallimentare; così come altra riforma processuale pressochè coeva, dimostratasi, alla prova dei fatti, di scarsa vitalità ed effimera durata.

Calata nella fattispecie in esame, la ricostruzione ermeneutica fatta propria dalle ricorrenti – quasi riecheggiando un’antica clausola di chiusura di teoria generale del diritto, secondo cui tutto ciò che non è espressamente permesso è proibito – esclude, in radice, alcun controllo contenutistico del giudice, soprattutto in tema di fattibilità e convenienza. E se ai fini della valutazione di quest’ultima il decreto correttivo ha dettato espressamente quali ne siano le condizioni (nella riscrittura dell’art. 129, comma 5, e dell’art. 180, comma 4), è soprattutto con riguardo alla fattibilità del piano che si pone il dubbio se l’accentuazione privatistica del concordato abbia tagliato fuori, nei tre distinti momenti di verifica scanditi dalla L. Fall., artt. 162, 173 e 180, ogni potere di intervento del tribunale. Il cui ruolo resta peraltro centrale ai fini del conferimento di efficacia vincolante alla proposta accettata, sintomatico dell’insopprimibile ruolo di garanzia degli interessi molteplici in giuoco, anche superindividuali.

Ciò premesso, si osserva come la ricostruzione ermeneutica della nuova disciplina, in parte qua, non possa discendere da suggestioni aprioristiche che nella posizione del problema prefigurano già la soluzione, conforme all’assiologia ed alle coordinate culturali dell’interprete; bensì debba conformarsi, innanzitutto, al canone legale del dato letterale: inverato, poi, dalla ricerca dell’intenzione del legislatore (art. 12 disp. gen.).

In quest’ottica, il punto di partenza è l’irriducibilità dell’istituto, nella sua fase genetica, alla mera formazione di un contratto di diritto privato (art. 1326 c.c.). Ne fa difetto un elemento fondamentale, quale la volontà concorde di tutte le parti interessate, destinatarie degli effetti. L’accordo dei soggetti contraenti, secondo la rituale modalità di incontro della proposta e della conforme accettazione, non è solo una regola: ma è “la regola” fondamentale, la Grundnorm in materia. Rispetto a chi ne resta invece estraneo perchè non esprime il consenso, l’accordo resta res inter alios acta; e come tale, nec iuvat nec nocet.

E’ quindi letterale, in questo senso, la diversità ontologica dell’istituto concorsuale, dotato di effetti cogenti per l’intero ceto creditorio anteriore (L. Fall., art. 168), rispetto, ad es., alla forma contrattuale pura di cessio bonorum, tipizzata negli artt. 1977 e 1986: che, appunto, vincola solo i creditori che ne sono parte al divieto di azioni esecutive sui beni ceduti (art. 1980 c.c., comma 2) e, salvo patto contrario (espressione, ancora una volta, di scelta concorde), produce la liberazione del debitore nei limiti di quanto da essi ricevuto (art. 1984 cod. civ.).

Pura autonomia negoziale nell’un caso; eteronomia legale, nell’altro, sulla base di un consenso solo maggioritario.

L’estensione di efficacia all’intera massa dei creditori, inclusi gli assenti o dissenzienti (oltre che dei terzi a vario titolo incisi dall’opzione concordataria), della proposta approvata a maggioranza assoluta (non più doppiamente qualificata, come nell’art. 177 previgente), rivela l’essenzialità dell’intervento del giudice:

volto a garantire non solo il rispetto formale dei passaggi procedimentali, ma anche la legittimità sostanziale della proposta.

Solo tale controllo positivo giustifica la preclusione di azioni esecutive individuali da parte dei creditori assenti e dissenzienti;

secondo un modello legale non più volontaristico-negoziale, bensì autoritativo, che può essere contrastato solo con formale opposizione al giudizio di omologazione. Sotto il profilo in esame, la sostanziale eterogeneità, conflittuale in re ipsa, degli interessi della massa impedisce, infatti, di ricondurre l’approvazione della maggioranza ad una singola manifestazione di volontà, quale si riscontra negli organismi collettivi con comunione di scopo (art. 2377 c.c., comma 1): e cioè in sostanza, ad una parte unitaria, pur se complessa al proprio interno.

Se dunque l’iter di approvazione del concordato preventivo non può essere ricondotto sic et simpliciter nell’alveo di formazione di un ordinario contratto di diritto privato, estraneo, per definizione, al concorrente controllo giudiziale (salvo che, in ipotesi eccezionali omologative, ispirate ancora una volta alla tutela di interessi superindividuali: art. 158 c.c., art. 2436 c.c., commi 3 e 4), resta imprescindibile, nel vaglio della censura di violazione della L. Fall., art. 180, mossa dalle ricorrenti al diniego di omologazione del concordato preventivo Zincomet pur in assenza di opposizioni, l’actio finium regundorum dei poteri officiosi del Tribunale.

Al riguardo, si osserva che già in sede di ammissione alla procedura (che ha ormai perso il connotato premiale di un beneficio, riconosciutole anteriforma), la verifica dei presupposti L. Fall., ex art. 160, riveste indubbia natura di cognizione sugli elementi qualificanti della proposta: in ordine, ad. es., ai criteri di eventuale suddivisione in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei (pacificamente sindacabili) ed alle ragioni dei trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse (seppur menzionate, come oggetto di controllo, nel solo concordato fallimentare, all’art. 124, comma 2, lett. b); ma da ritenere, ragionevolmente, implicite anche nella norma corrispondente del concordato preventivo).

In quest’ottica, il riscontro della documentazione che deve essere allegata alla domanda (L. Fall., art. 161) non si riduce ad una mera “spunta” per accertare omissioni materiali, dato che lo scrutinio dei presupposti sostanziali dello stato di crisi (o di insolvenza) e della rispondenza della proposta allo schema legale ed ai fini tipici dell’istituto impinge nel merito.

Ne consegue la doverosità di un’analisi anche del piano esecutivo che sorregge la proposta di concordato; sia pure, entro la soglia minimale (consueta, in tema di valutazioni tecniche extragiuridiche) della non manifesta inadeguatezza, prima facie, della relazione del professionista che ne accerti la fattibilità; fermo restando che la sede naturale per la verifica, funditus, della veridicità dei dati è la successiva relazione particolareggiata de commissario giudiziale, illustrata in occasione dell’adunanza dei creditori (Cass., sez. 1^, 25 ottobre 2010, n. 21860).

Non risulta, infatti, attribuito dalla norma – e sarebbe eccentrico alle categorie ordinanti del sistema – valore di prova legale della fattibilità, nonchè della soddisfazione dei crediti privilegiati in misura non inferiore a quella realizzabile in ragione della collocazione preferenziale in caso di liquidazione (L. Fall., art. 160, comma 2), alla relazione dei professionista allegata al ricorso:

così da ritagliare una competenza esclusiva per materia in favore di soggetti privati, immune da verifica dell’organo giurisdizionale, sia pure entro la sola soglia delibatoria di non manifesta inidoneità del piano: al fine di prevenire l’apertura di una procedura concorsuale palesemente votata all’insuccesso.

Del resto, la stessa formulazione letterale del successivo art. 162 (Inammissibilità della proposta), con l’eventuale concessione di un termine per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti, sta a dimostrare che non si tratta solo di colmare lacune materiali, in una fase ancora sottratta al contraddittorio con i creditori, in cui unico organo di controllo sostanziale è il giudice. Anche se la richiesta di un termine debba provenire dallo stesso imprenditore, non v’è motivo di dubitare che essa possa essere – e il più delle volte sarà – effetto di rilievi del giudice delegato; quanto meno in conformità con il principio di collaborazione (analogamente alla regola dettata nel processo ordinario di cognizione: art. 183 c.p.c., comma 4). E che il termine sia finalizzato ad emendamenti sostanziali, necessari o migliorativi, e non a mere lacune documentali da colmare, è indicato dalla lettera della norma, che parla di integrazioni del piano e di nuovi documenti (diversi, dunque, da quelli indispensabili, L. Fall., ex art. 161).

Disposizione tanto più significativa in quanto frutto, così come l’incipit dell’art. 163, dei ritocchi apportati col D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (c.d. decreto correttivo), che nel delineare sotto questo profilo un giudice più interventista, ha dato nuova linfa alla tesi del controllo di legittimità sostanziale, sia pure entro i ristretti limiti sopra definiti.

E tale controllo non viene meno nel corso della procedura; potendo dar luogo, in qualunque momento, alla revoca del concordato preventivo ove, all’esito degli accertamenti del commissario giudiziale – e dunque, con maggiore cognizione di causa – risultino difettare le condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato (art. 173 c.p.c., comma 3).

In particolare, per quanto attiene direttamente al ricorso in esame, valore dirimente ha la rispondenza con la realtà effettuale dello stato analitico ed estimativo delle attività e dell’elenco nominativo dei creditori, corredato dell’indicazione delle rispettive cause di prelazione (L. Fall., art. 161, comma 2, lett. b).

L’accertamento, nel prosieguo, di crediti pretermessi o di cause di prelazione neglette, alterando la prognosi di soddisfazione delle obbligazioni (pur se non enucleata in una percentuale numerica), può quindi fondare, se attribuibile a dolo, la revoca del concordato; ed in ogni altro caso impone l’emendamento della proposta iniziale (e, in ipotesi, l’aggiornamento del relativo piano) – previa, occorrendo, una riconvocazione da parte del giudice delegato – in termini di trasparenza: ineludibile premessa del consenso informato dei creditori, non viziato da errore-motivo (suscettibile di assurgere perfino a causa di annullamento del concordato omologato: L. Fall., art. 186, u.c., e art. 138, comma 1).

La veridicità dei dati contabili, con l’esatta rappresentazione delle attività e passività, e l’attendibilità del valore attribuito ai beni costituiscono, infatti, il presupposto per l’accettazione dei creditori;

e tale requisito diventa tanto più rigoroso nell’ottica della connotazione contrattualistica che parte della dottrina attribuisce al nuovo concordato preventivo (art. 1326 cod. civ.). In ogni caso, il rilievo di fondo è che la cessione di beni e le altre operazioni, anche di ingegneria imprenditoriale e societaria, contemplate dalla L. Fall., art. 160, costituiscono il mezzo e non il fine: onde, non possono essere disancorate dalla promessa di un risultato utile conseguibile, precisato o implicito in una percentuale di soddisfacimento, senza il quale la proposta del debitore diverrebbe aleatoria in senso giuridico, pur a fronte dell’effetto esdebitativo certo della falcidia concordataria.

Per il resto, non v’è ragione di derogare ai principi generali in tema di rilevabilita d’ufficio delle nullità (art. 1421 c.c.):

patologie certo più gravi delle irregolarità formali di svolgimento della procedura, espressamente menzionate quale oggetto di doverosa verifica del Tribunale (art. 180, comma 4). Sotto questo profilo, la dizione originaria dell’art. 180, prima del decreto correttivo – che, senza fare uso della definizione di opposizione, poneva a carico delle parti dissenzienti, in sede di costituzione nel giudizio omologativo, l’onere di dedurre tempestivamente le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio – lasciava intendere, a contrario, per l’evidente affinità con la disciplina processuale ordinaria (art. 167 cod. proc. civ.), la rilevabilità officiosa di una gamma di eccezioni di merito: quale, appunto, quella di nullità.

Saranno quindi cause ostative in subiecta materia, l’illiceità dell’oggetto (ad es., in presenza, nel piano, di offerte di cessione di res extra commercium, quali immobili insanabilmente abusivi o soggetti a confisca penale); o la violazione di norme imperative (come nel caso di alterazione dell’ordine delle cause legittime di prelazione: L. Fall., art. 160, comma 2); o ancora, l’impossibilità dell’oggetto, riscontrabile ove la proposta concordataria non abbia, alla luce della relazione del commissario giudiziale, alcuna probabilità di essere adempiuta.

Quest’ultima evenienza è di particolare delicatezza, non dovendo essere confusa con la normale alea inscindibilmente connessa con la valutazione di fattibilità di qualsiasi iniziativa economica. Sotto questo profilo, se la realizzabilità è intesa come mera prognosi di adempimento di obbligazioni immuni da vizi genetici, assunte sulla base di una situazione patrimoniale veritiera, non v’è dubbio che il suo apprezzamento spetti esclusivamente ai creditori, indipendentemente dall’eventuale disparere del giudice (Cass., sez.1, 25 Ottobre 2010, n. 21860). Estranea alla sfera dell’autonomia soggettiva di giudizio resta allora solo l’ipotesi – limite, in cui non di rischio di vizio funzionale della causa si debba parlare (e cioè, di inadempimento: causa di risoluzione, su domanda di ciascun creditore insoddisfatto: L. Fall., art. 186); bensì, di vero e proprio vizio genetico, accertabile in via preventiva alla luce della radicale e manifesta inadeguatezza del piano – per sopravvalutazione di cespiti patrimoniali o indebita pretermissione, o svalutazione, di voci di passivo – non rilevata ab initio nella relazione del professionista. In tal caso, il difetto di veridicità dei dati non può essere sanato dal consenso dei creditori, che sarebbe inquinato da errore-vizio.

Per contro, va ribadito che, dopo la riforma, non appartiene più al controllo officioso del tribunale il giudizio di convenienza economica, ormai espunto dal novero dei requisiti da valutare in sede omologativa (art. 181, testo previgente). Correlato, in sede casistica, soprattutto con le azioni revocatorie esperibili, esso era in linea – così come l’ulteriore presupposto, del pari abolito, della meritevolezza dell’imprenditore – con una concezione non più attuale dell’istituto concordatario come beneficio premiale; e con l’eterotutela dei creditori, espressione di un dirigismo economico ormai residuato, nell’ordinamento, solo in rarissime fattispecie (cfr. L. 18 Giugno 1998, n. 192, art. 6).

Entro i confini fin qui tracciati, non v’è ragione, in ultima analisi, di ridurre la cognizione della proposta e del piano concordatari ad una mera funzione notarile di regolarità formale, svolta da un giudice costretto nel ruolo ancillare di convitato di pietra: in tal modo, inibendo la tutela anche dell’interesse pubblico a che il governo della crisi d’impresa – tutt’altro che privo di costi per la collettività – non sia piegato ad utilizzazioni improprie, con abuso del diritto (Cass., sez. 1^, 23 Giugno 2011, n. 13817).

Applicando i principi suesposti al caso in esame, si deve concludere che appare immune da mende – esegetiche del dato normativo, o logiche – l’accertamento della Corte d’appello di Bari, secondo cui l’omessa considerazione nella proposta di concordato Zincomet di un ingente credito vantato al rango privilegiato dal Ministero dello Sviluppo Economico, di radice causale anteriore alla proposta concordataria (Cass., sez. 1^, 10 Agosto 2007, n. 17637) alterava, in radice, l’ipotesi prospettata di soddisfacimento delle obbligazioni sociali su cui riposava l’affidamento del ceto creditorio.

E ciò, anche a prescindere dall’elemento psicologico sotteso all’omissione: adombrato, in motivazione, nella connotazione dolosa, con riferimento alla L. Fall., art. 173, comma 3.

A quest’ultimo riguardo, la tesi sostenuta dai ricorrenti, nel secondo motivo, che pur in presenza di atti di frode il tribunale si trovi nell’impossibilità di sanzionare ex officio il debitore scorretto, mediante la revoca dell’ammissione al concordato, si palesa manifestamente contra legem, dato l’inequivoco tenore testuale della norma citata. Nè vi sono ragioni plausibili per negare ingresso all’interno del giudizio omologatorio – che rappresenta il momento di cognizione piena della fattispecie concordataria – anche alla disamina dei presupposti della sanzione revocatoria: tra cui, l’inesistenza delle condizioni prescritte dalla L. Fall., artt. 160 e 161 per la sua ammissibilità. Senz’alcuna necessità di un’artificiosa separazione di momenti di verifica, nè, tanto meno, preclusioni maturate in ordine alla loro rilevabilità.

Le restanti argomentazioni difensive delle ricorrenti tendono, in realtà, al riesame degli elementi di fatto analizzati dalla corte territoriale, tramite un sindacato di merito inammissibile in questa sede.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 30 Giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2011

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