Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18863 del 12/07/2019

Cassazione civile sez. I, 12/07/2019, (ud. 12/06/2019, dep. 12/07/2019), n.18863

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24630/2018 proposto da:

O.J., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Cristina Perozzi in forza di procura in

speciale in calce al ricorso,

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 23/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/06/2019 dal Consigliere, Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, depositato il 5/3/2018 O.J.O., cittadino nigeriano, ha impugnato dinanzi al Tribunale di Ancona – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE – il provvedimento con cui la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente, originario di (OMISSIS), (OMISSIS), nella zona del (OMISSIS), ha raccontato di aver lasciato il proprio Paese per sfuggire alla minacce degli adepti del (OMISSIS) che, con minaccia di morte, volevano reclutarlo nel gruppo dopo la sparizione del cugino.

Con decreto del 23/7/2018 il Tribunale di Ancona ha rigettato il ricorso, negando la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di qualsiasi forma di protezione.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso O.J.O., con atto notificato il 22/8/2018, con il supporto di tre motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con memoria 26/3/2019, senza depositare controricorso, al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 4, del principio del non refoulement D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 19, e delle norme circa il diritto a un processo giusto ed effettivo, nonchè difetto di motivazione, con riferimento alla mancata traduzione della decisione della Commissione Territoriale e della ordinanza del Tribunale, incomprensibile e dovuta per legge.

1.1. La censura è solo richiamata in modo sintetico in rubrica e non è ulteriormente trattata nel corpo del ricorso, dedicato promiscuamente ai vari motivi.

1.2. La mancata traduzione della decisione della Commissione territoriale, neppure argomentata in fatto, non è stata dedotta come motivo di ricorso dinanzi al Tribunale anconetano.

In ogni caso, in vari arresti giurisprudenziali è stato affermato da questa Corte che nel giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, avente ad oggetto non il provvedimento in sè della Commissione bensì la sussistenza del diritto soggettivo alla protezione internazionale, la violazione degli obblighi di traduzione (al pari di quello di consegna di copia autentica) del provvedimento non rileva di per sè, bensì solo nella misura in cui abbia prodotto lesione all’esercizio del diritto di difesa del richiedente; di conseguenza, ove la parte censuri la decisione che non si sia attenuta all’osservanza di tale obbligo, deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all’esercizio del diritto di difesa incidendo sulla correttezza del provvedimento finale, non potendosi genericamente denunciare la mancata osservanza della norma relativa all’obbligo di traduzione (Sez. 6 – 1, n. 11295 del 26/04/2019, Rv. 653483 – 01; Sez. 6 – 1, n. 24543 del 21/11/2011, Rv. 620578 – 01; Sez. 6 – 1, n. 11871 del 27/05/2014, Rv. 631323 – 01).

1.4. Tali pronunce non riguardano l’ulteriore ipotesi rappresentata dal ricorrente, che si duole anche della mancata traduzione della decisione giurisdizionale, oggetto di impugnazione in questa sede.

Il Collegio ritiene che il D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 10, comma 5, non possa essere interpretato nel senso di prevedere, fra le misure di garanzia a favore del richiedente la protezione internazionale, anche la traduzione in lingua nota del provvedimento giurisdizionale decisorio che definisce le singole fasi del giudizio.

La disposizione citata prevede che in caso di impugnazione della decisione in sede giurisdizionale, allo straniero, durante lo svolgimento del relativo giudizio, sono assicurate le stesse garanzie di cui al presente articolo (l’art. 10).

Anche a prescindere dall’argomento testuale, che riferisce la previsione all’ambito endo-procedimentale (“…durante lo svolgimento…”), di per sè non decisivo, occorre rilevare che il comma precedente (il quarto) dello stesso articolo, dedicato appunto alla garanzia linguistica, prevede che tutte le comunicazioni concernenti il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale siano rese al richiedente nella prima lingua da lui indicata, o, se ciò non è possibile, in lingua inglese, francese, spagnola o araba, secondo la preferenza indicata dall’interessato.

E’ inoltre previsto che in tutte le fasi del procedimento connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, al richiedente sia garantita, se necessario, l’assistenza di un interprete della sua lingua o di altra lingua a lui comprensibile.

Infine è prevista, ove necessaria, la traduzione della documentazione prodotta dal richiedente in ogni fase della procedura.

La garanzia linguistica è quindi assicurata a) per le comunicazioni, preordinate ad assicurare la partecipazione del richiedente, b) per tutte le interlocuzioni connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, imponendo pertanto l’assistenza dell’interprete in caso di contatto diretto fra la parte e il Giudice in modo da acquisire al processo un contributo dichiarativo informato e consapevole da parte del richiedente asilo (interrogatorio libero, spontanee dichiarazioni, rinnovo o integrazione del colloquio personale), con l’introduzione di una regola più ampia e protettiva di quella sancita in via generale dall’art. 122 c.p.p., comma 2, ed infine c) per le produzioni documentali, anche in questo caso introducendo una deroga al regime discrezionale di cui all’art. 123 c.p.c..

Il combinato disposto dell’art. 10, commi 4 e 5, non impone quindi la traduzione in lingua nota al richiedente asilo del provvedimento giurisdizionale con cui il giudice adito definisce il grado del giudizio avanti a lui.

E ciò ben si comprende, ove si rifletta sul fatto che un pregiudizio scaturente dalla mancata traduzione in lingua nota dei provvedimenti giurisdizionali non sarebbe comunque configurabile, neppure in linea di principio.

Infatti il richiedente asilo, ricorrente in sede giurisdizionale, partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, se del caso retribuito dall’Erario attraverso il sistema del patrocinio statuale, perfettamente in grado di comprendere e spiegare al proprio cliente nell’ambito della relazione difensiva (e tenuto a farlo per obbligo professionale), i contenuti, la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano.

E, d’altro canto, anche in linea generale, nel nostro ordinamento processuale la decisione che definisce il grado di giudizio viene comunicata, normalmente in via telematica, al difensore della parte regolarmente costituita, a cui pure deve essere indirizzata la notificazione dello stesso provvedimento al fine di provocare la decorrenza del termine “breve” per l’impugnazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c..

2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, il ricorrente deduce violazione di legge con riferimento all’art. 112 c.p.c., al D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 11 e 17, all’art. 2 Cost. e art. 10 Cost., comma 3, e difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione della protezione sussidiaria.

Al riguardo nel p. 5.5., pag. 7, del provvedimento impugnato, il Tribunale di Ancona ha escluso la sussistenza di una minaccia grave e individuale relativa al richiedente, avendo questi riferito un solo episodio, privo di idoneità lesiva specifica e comunque in considerazione della sua complessiva inattendibilità (in precedenza argomentata al p. 5.1., pag. 6); ha escluso altresì un pericolo di essere esposto a violenza indiscriminata derivante da conflitto interno nel Paese di origine, richiamando quanto in precedenza esposto nell’ambito dell’intero p. 5.

Il ricorrente contrappone alla ricostruzione in fatto e alla correlativa valutazione espressa dai Giudici del merito solo il proprio dissenso, citando, comunque del tutto genericamente, una serie di pronunce giurisprudenziali, citate in difetto di dimostrata attinenza con la concreta fattispecie a giudizio.

3. Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce violazione di legge con riferimento agli artt. 353 e 112 c.p.c., al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 11 e 17 e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, in ordine alla mancata concessione della protezione umanitaria.

3.1. Il ricorrente sostiene di provenire da una regione, (OMISSIS) nel (OMISSIS), contraddistinta da un elevatissimo livello di criminalità e rischio di violenza generalizzata, come ripetutamente riconosciuto dai tribunali italiani e dalle più note associazioni internazionali; richiama quindi alcune pronunce di merito e di legittimità, il rapporto di Amnesty International del 2016.

Il ricorrente sostiene che le sofferenze psicologiche patite per arrivare in Italia giustificavano il riconoscimento della protezione umanitaria. Concorreva inoltre a tale fine il positivo percorso integrativo compiuto dal ricorrente e attestato dai numerosi certificati di partecipazione a corsi di formazione, il contratto di lavoro a tempo determinato e l’attestato di iscrizione come volontario alla (OMISSIS).

Il ricorrente infine riferisce di numerosi provvedimenti di merito che hanno riconosciuto protezione umanitaria.

3.2. Il motivo, prospettato con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per dedurre violazione di legge, in realtà mira a manifestare il dissenso del ricorrente rispetto alla valutazione espressa dal Giudice di merito in ordine ai fatti acquisiti rilevanti ai fini della concessione della protezione umanitaria.

Il Tribunale ha dapprima riassunto la disciplina della protezione umanitaria, quale misura di tutela integrativa e residuale di diritto interno, riconducibile alla previsione di cui all’art. 6, comma 4, Direttiva 2008/115/CE, svincolata dalle misure di protezione maggiori, status di rifugiato e protezione sussidiaria e volte a tutelare situazioni di vulnerabilità non tipizzate alla luce degli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano e si è richiamato poi ai più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità.

3.3. Questa Corte ha chiarito che i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, non definiti dal legislatore, sono accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Il livello di integrazione dello straniero in Italia e il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo non integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Sez. 1, 23/02/2018, n. 4455).

3.4. Nella fattispecie, nel p. 6.10., pag. 9-10, del decreto impugnato il Tribunale ha escluso la sussistenza di problematiche soggettive implicanti una particolare vulnerabilità del ricorrente e comunque un livello significativo di compromissione dei diritti umani fondamentali nel Paese di provenienza (la (OMISSIS)) la cui situazione generale aveva in precedenza analizzato alla luce di varie fonti internazionali, debitamente riassunte e citate; ha inoltre valutato le condizioni di integrazione socio-economica del richiedente nel nostro paese, esprimendo al proposito un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità.

Le osservazioni, comunque ampiamente articolate e motivate, del Tribunale circa l’insufficienza ai fini della dimostrazione di un apprezzabile grado di integrazione sociale in Italia dell’esistenza di un rapporto di lavoro (proposta di lavoro a tempo determinato e retribuito con un corrispettivo inferiore all’assegno sociale) non sono in contrasto con la legge e la giurisprudenza di legittimità che, come sopra ricordato, non ritiene sufficiente di per sè nè l’integrazione sociale, nè tantomeno la sola esistenza di un rapporto di lavoro, a giustificare la concessione della protezione umanitaria.

4. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Nulla sulle spese in difetto di controricorso dell’Amministrazione.

Poichè risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere stata ammessa al Patrocinio a spese dello Stato non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1- quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione civile, il 12 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2019

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