Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1885 del 21/01/2022

Cassazione civile sez. lav., 21/01/2022, (ud. 21/12/2021, dep. 21/01/2022), n.1885

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27185-2016 proposto da:

T.P., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato EUGENIO GALASSI;

– ricorrente –

contro

R. RETI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE SANTO

68, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LETIZIA, rappresentato e

difeso dagli avvocati SANDRO PELILLO, ANGELO RAFFAELE PELILLO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 516/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 12/05/2016 R.G.N. 69/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/12/2021 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI.

 

Fatto

RITENUTO

1. La Corte d’Appello di L’Aquila, con la sentenza n. 69 del 2015, ha rigettato l’impugnazione proposta da T.P., nei confronti della società R. Reti S.p.A., avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Teramo.

2. Il lavoratore aveva adito il Tribunale chiedendo che fosse dichiarata la nullità/annullabilità dei plurimi contratti di lavoro a termine conclusi con la suddetta società dal 2005 al 2012, con conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e risarcimento del danno.

Il Tribunale respingeva la domanda di conversione (trattandosi di società in house providing) e quella risarcitoria (mancando la prova del danno).

3. Nel confermare la pronuncia di prime cure la Corte territoriale ha qualificato la R. Reti S.p.A. come società in house providing sulla scorta dei principi enunciati dalla CGUE, in causa C-107-98, Teckal (controllo da parte dell’ente pubblico di appartenenza analogo a quello esercitato sui servizi interni e svolgimento a suo favore della maggior parte dell’attività).

Sempre la Corte territoriale ha valorizzato il fatto che l’appellata è una società a totale partecipazione pubblica e che lo Statuto (art. 8) prevede che il capitale è incedibile e che l’oggetto sociale consiste prevalentemente nella gestione del servizio idrico integrato (art. 7). Sono poi previsti controlli da parte dell’ATO sull’erogazione del servizio, sull’elaborazione, dei piani strategici, politici e finanziari, sui documenti programmatici.

La natura pubblica della società trova conferma nella L.R. Abruzzo n. 23 del 2004, art. 7, lett. f), norma che ha superato il vaglio di costituzionalità.

La Corte territoriale ha altresì escluso solo a seguito del D.L. n. 78 del 2009, l’appellata fosse stata assoggettata alla disciplina pubblicistica circa l’assunzione del personale.

L’aver affermato il principio in via generale con legge dello Stato ha costituito un rafforzamento della necessità del reclutamento del personale con le medesime modalità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3, e quindi del principio sancito con il richiamato della L.R. n. 23 del 2004, art. 7, lett. f).

Proprio perché le società in house providing partecipano della stessa natura della pubblica amministrazione, ad esse si applicano le stesse regole di reclutamento come previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3, senza possibilità di conversione del rapporto in caso di illegittimo ricorso a forme di lavoro flessibile.

Nella specie, il lavoratore aveva agito per la nullità/annullabilità dei contratti stipulati a progetto per i primi 5 anni e, successivamente, di contratti a termine nell’ambito della somministrazione di lavoro. Non poteva trovare accoglimento la domanda di ristoro essendo il danno connesso e consequenziale alla reintegra, danno che non poteva configurarsi in assenza di possibilità di conversione. Quanto al risarcimento del danno correlato a retribuzione insufficiente e allo straordinario, la domanda non poteva essere accolta perché generica. La Corte d’Appello rilevava che, a fronte delle motivazioni del Tribunale, lungi dal confutarne l’iter argomentativo il lavoratore aveva indicato come criterio qualificativo del danno la L. n. 183 del 2010, art. 32, e aveva formulato una domanda – nuova – di risarcimento del danno alla salute.

4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando cinque motivi di ricorso, assistiti da memoria.

5. Resiste la società con controricorso.

Diritto

RITENUTO

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o errata applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, e del D.L. n. 112 del 2008, art. 18, comma 2-bis, nonché errata qualificazione della R. Reti S.p.A. come società in house.

Assume il ricorrente che, pur sussistendo la totale partecipazione pubblica, mancherebbero però gli altri requisiti, ovvero l’esclusiva destinazione ai soci pubblici dell’attività (peraltro neppure affermata dalla sentenza) e l’esercizio d’un controllo pubblico dell’ente di appartenenza analogo a quello praticato sui suoi uffici.

In ordine a tale ultimo punto, la Corte d’Appello aveva effettuato solo un richiamo allo Statuto, art. 28, senza escludere che il controllo svolto dall’ATO fosse diverso da quello spettante ai soci di maggioranza secondo le regole del codice civile.

Non trattandosi – ad avviso di parte ricorrente – di società in house, non si applicherebbe il D.L. 112 del 2008, art. 18, comma 2-bis.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, e del D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 6: con tale censura si sostiene l’inapplicabilità del divieto di stabilizzazione del rapporto di lavoro a tempo determinato di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5.

Ad avviso del ricorrente, quand’anche si ritenesse corretta la qualificazione della datrice di lavoro come società in house, non potrebbe trovare applicazione il divieto di conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto lo stesso è stato previsto solo con il D.L. n. 138 del 2011, art. 3, entrato in vigore il 17 settembre 2011, dopo la stipula dei contratti in questione sottoscritti il 30 dicembre 2005 e il 3 gennaio 2011.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione/errata applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 36, comma 5, e del D.L. n. 112 del 2008, art. 18, comma 2-bis, sempre in ragione dell’asserita inapplicabilità del divieto di stabilizzazione del rapporto a tempo determinato di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5.

Ancora ad avviso del ricorrente, non potrebbe trovare applicazione il D.L. n. 112 del 2008, art. 18, comma 2-bis, vuoi perché tale norma regola solo l’assunzione, vuoi essa è stata introdotta con il D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 19, comma 1, ossia dopo la stipula dell’originario contratto a progetto.

4. I primi tre motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

Gli stessi non sono fondati.

La L.R. n. 23 del 2004, art. 7, comma 1, lett. c), stabilisce che:

“Nel rispetto di quanto previsto dalle normative di settore, la scelta del soggetto cui affidare la gestione, anche integrata, dei servizi avviene con il conferimento della titolarità del servizio:

(…)

c) a società a capitale interamente pubblico, alla condizione che l’ente o gli enti titolari del capitale sociale esercitino sulle società un generale potere di direzione, di coordinamento e di controllo analogo a quello esercitato sui servizi gestiti da proprie strutture interne, con particolare riferimento all’effettuazione di specifici controlli sui principali atti di gestione dell’affidatario, nonché all’ulteriore condizione che la società affidataria realizzi la parte più importante della propria attività in favore dell’ente o degli enti titolari del capitale sociale che la controllano”.

La L.R., successivo comma 4, lett. f), a sua volta prevede: è obbligatorio per le società così costituite il rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione di personale dipendente.

Dunque la legge regionale introduceva principi poi affermati dalla disciplina statale del D.L. n. 112 del 2008, art. 18, che è però intervenuta dopo la stipula dei primi contratti.

In ordine alle ricadute di tale ultima disposizione la Corte ha già affermato che non può dubitarsi del carattere imperativo della disposizione in esame e che, pertanto, l’omesso esperimento delle procedure previste sia dal comma 1, che dal comma 2 (disposizioni entrambe espressione dei principi di cui all’art. 97 Cost.) determina la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, perché la violazione attiene al momento genetico della fattispecie negoziale e, quindi, la stessa non può essere solo fonte di responsabilità a carico del contraente inadempiente (ex multis, Cass. n. 19925 del 2019).

Sulla valenza della disciplina contenuta nella L.R. n. 23 del 2004, questa Corte (Cass., n. 7050 del 2019) ha affermato che in tema di reclutamento del personale nell’ambito delle società cd. “in house”, La L.R. Abruzzo n. 23 del 2004, art. 7, comma 4, lett. f), ha imposto l’esperimento di procedure concorsuali o selettive, per l’assunzione di personale dipendente delle società di gestione di servizi pubblici locali, già prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 112 del 2008, conv. con modif. nella L. n. 133 del 2008, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla L. n. 102 del 2009, di conversione del D.L. n. 78 del 2009, che ha disposto l’applicazione generalizzata a tali società dei criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35 (con tale decisione questa Corte confermava la decisione di merito che aveva negato la conversione a tempo indeterminato di vari contratti a termine, a progetto e di somministrazione, conclusi con una società a capitale pubblico della regione Ab r.).

Dunque, vista la previsione da parte della L.R. – art. 7, comma 1, lett. c) e f) – di una disciplina analoga a quella statale per le società in house, che sancendo per il reclutamento la necessità di procedure concorsuali e selettive si riverbera sulle conseguenze dell’illegittimità del termine apposto ad un contratto, è rilevante la riferibilità della R. Reti S.p.A. ai parametri della Legge regionale.

La giurisprudenza di questa S.C. (Cass., n. 5491 del 2014) ha chiarito che una società può definirsi “in house” quando: 1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati; 2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; 3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile.

La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di questi principi, atteso che lo statuto della società, che ne delinea la natura giuridica, prevede che il capitale sociale è pubblico ed incedibile, che la società ha ad oggetto prevalente la gestione del servizio idrico integrato, formato dall’insieme dei servizi di captazione, adduzione, accumulo e distribuzione di acqua. Lo Statuto, art. 28, indica, inoltre, i controlli e le verifiche demandati all’ATO per quanto concerne sia l’erogazione del servizio sia l’elaborazione dei piani strategici, politici e finanziari, sia i documenti programmatici.

Ne’ parte ricorrente contesta, con indicazione di criteri ermeneutici violati, l’interpretazione dello statuto della società effettuato dalla Corte d’Appello, ma si limita a sostenere genericamente che non potrebbe escludersi attività a favore di altri o un controllo diverso da quello dell’ATO, a tal fine richiamando non meglio precisate notizie di mass media che, comunque, introdurrebbero profili di fatto, inammissibili in questa sede.

Le disposizioni regionali in questione non dispongono circa le conseguenze dell’inosservanza delle prescrizioni relative al reclutamento del personale, così come il D.L. n. 112 del 2009, art. 18, commi 1 e 2.

Questa Corte (Cass., n. 3621 del 2018, e n. 19925 del 2019) ha affermato il principio, che trova applicazione anche nella specie con riguardo alla disciplina regionale che viene in rilievo, che non può dubitarsi del carattere imperativo dell’art. 18, commi 1 e 2, che pertanto l’omesso esperimento delle procedure previste dai commi 1 e 2, determina la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, perché la violazione attiene al momento genetico della fattispecie negoziale e, quindi, la stessa non può essere solo fonte di responsabilità a carico del contraente inadempiente. Sicché la violazione di tale disposizione, avente carattere imperativo, impedisce la conversione in rapporto a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità.

Nella specie, quindi, correttamente la Corte d’Appello ha rigettato la domanda di conversione del rapporto di lavoro proposta dal ricorrente.

5. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione/errata applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, e della Dir. del Consiglio 28 giugno 1999, n. 19999/70/CE: lamenta il ricorrente il mancato riconoscimento del danno da abuso della contrattazione a termine da parte della pubblica amministrazione.

Assume il ricorrente di aver diritto al cd. danno comunitario e richiama a tal fine Cass., SU, n. 5072 del 2016.

6. Con il quinto motivo di ricorso è dedotto il vizio di manifesta illogicità della sentenza sul mancato riconoscimento del danno alla salute.

Tale domanda, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, sarebbe stata evincibile dalla copiosa documentazione allegata al ricorso introduttivo e dal punto 4 delle note conclusionali.

7. I suddetti motivi, da trattare insieme in quanto connessi, sono inammissibili per difetto di autosufficienza, non avendo parte ricorrente chiarito come e quando tali domande risarcitorie siano state adeguatamente e puntualmente avanzate.

8. In conclusione, la Corte rigetta il ricorso.

9. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2022

 

 

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