Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18837 del 15/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 15/09/2011, (ud. 10/06/2011, dep. 15/09/2011), n.18837

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Q.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BERGAMO 3,

presso lo studio dell’avvocato ANDREONI AMOS, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ALBERTO PICCININI, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati CORETTI

ANTONIETTA, STUMPO VINCENZO, giusta delega in calce alla copia

notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 799/2008 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 13/03/2009 r.g.n. 779/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/06/2011 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. la Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza n. 799/08, depositata il 13 marzo 2009, accoglieva l’appello proposto dall’INPS nei confronti di Q.A. avverso la sentenza del Pretore del lavoro di Bologna n. 490 del 1999.

2. La Q. aveva adito il giudice di primo grado esponendo quanto segue:

di essere stata dipendente fino al 13 dicembre 1993 della società CE. DA srl, dichiarata fallita in data 27 ottobre 1994;

di aver presentato all’INPS domanda ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992 per la liquidazione della somma dovuta a titolo di crediti diversi dal tfr;

che l’Istituto, con provvedimento in data 1 dicembre 1995, le aveva liquidato la somma di L. 519.988 a titolo di prestazione per crediti diversi dal tfr risultante dalla detrazione del massimale vigente nell’anno 1994 (pari a L. 2.539.811) di quanto dalla lavoratrice percepito dal datore di lavoro nel periodo relativo agli ultimi tre mesi del rapporto (pari a L. 2.019.823).

Tanto premesso, la Q. prospettava che la determinazione dell’INPS contrastava con il D.Lgs. n. 80 del 1992, con la direttiva comunitaria n. 987/80, con la sentenza 19 novembre 1991 della Corte di Giustizia, con i principi e criteri direttivi contenuti nella Legge Delega n. 428 del 1990 e chiedeva la condanna dell’INPS al pagamento della ulteriore somma di L. 1.281.967 (sommatoria dei due importi corrispondenti al credito relativo all’ultimo periodo di lavoro non retribuito) o della diversa somma risultante in causa.

3. Il Pretore con la citata sentenza n. 490 del 1999 accoglieva la domanda e condannava l’INPS al pagamento della somma di L. 917.799 quale importo precisato in udienza al netto della quota di riparto ricevuto, a titolo di crediti diversi dal tfr, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, con condanna alla rifusione delle spese processuali.

4. Per la cassazione della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bologna ricorre la Q. prospettando un unico motivo d’impugnazione.

5. L’INPS ha rilasciato procura alle liti in calce alla copia del ricorso notificato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2. Ad avviso della ricorrente il giudice di appello avrebbe dato un’interpretazione della suddetta norma che non terrebbe conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della successiva giurisprudenza di legittimità.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore.

Se la norma di cui al D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2 che prevede la non cumulabilità del pagamento a titolo di garanzia dei diritti non pagati e corrispondenti agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro con le somme corrisposte a titolo di acconto dal datore di lavoro in bonis o dal Fallimento in sede di riparto parziale debba essere interpretato nel senso che l’importo di tali acconti debba essere detratto dal complessivo ammontare dei crediti relativi al periodo ovvero dal massimale della prestazione, pari al valore della CIGS. 1.2. Il motivo è fondato e va accolto.

1.3. La Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto che il citato art. 2 doveva essere interpretato nel senso che le detrazioni per retribuzioni e CIG dovevano essere fatte sul massimale come fissato dal suddetto D.Lgs. n. 80 del 1992 e non sull’importo complessivo delle retribuzioni degli ultimi tre mesi, come invece prospettato dalla Q. nella domanda proposta al Pretore del lavoro e statuito da quest’ultimo.

1.4. Come questa Corte, ha avuto modo di affermare con la sentenza n. 15464 del 2004, i cui principi si intendono ribadire, intervenuta dopo la pronuncia della Corte di Giustizia, 4 marzo 2004, r.g. n. 14791/98, il D.Lgs. 7 gennaio 1992, n. 80, emanato in attuazione della delega di cui alla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 48 al fine di adeguare l’ordinamento interno alla direttiva CEE 20 ottobre 1980 n. 987 in materia di tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro (direttiva successivamente modificata da quella n. 74 del 2002 che ha ampliato il regime di tutela riferendolo a tutte le procedure conseguenti all’insolvenza datoriale), ha esteso – con effetto ex nunc – la garanzia, già prevista dalla L. n. 297 del 1982 per il trattamento di fine rapporto, ai crediti di lavoro inerenti agli ultimi tre mesi del rapporto lavorativo, utilizzando il medesimo Fondo di garanzia istituito dalla predetta legge del 1982.

Per quanto rileva nella presente sede, l’intervento del Fondo è soggetto, oltre che a limiti temporali (nel senso che la garanzia opera solo se i tre mesi finali del rapporto di lavoro rientrano nel periodo di dodici mesi che precede il provvedimento di apertura della procedura concorsuale o il provvedimento di messa in liquidazione dell’impresa o di cessazione dell’esercizio provvisorio oppure la data di inizio dell’esecuzione forzata), a limitazioni oggettive (relative, cioè, al quantum della prestazione), specificate dalle disposizioni dettate dall’art. 2: in particolare, il pagamento effettuato dal Fondo non può essere superiore ad una somma pari a tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali (comma 2: c.d. massimale); lo stesso pagamento non è cumulabile (fino a concorrenza degli importi), fra l’altro, con le retribuzioni corrisposte al lavoratore nell’arco degli ultimi tre mesi (comma 4, lett. b).

In ordine alle modalità di applicazione di tale disciplina sono sorte notevoli difficoltà interpretative, con riferimento alle ipotesi in cui il lavoratore abbia ricevuto dal datore di lavoro retribuzioni relative alle ultime tre mensilità del rapporto di lavoro o comunque abbia ottenuto – anteriormente al pagamento del Fondo – “acconti” sul credito garantito, essendo controverso se le somme già ricevute ai predetti titoli si debbano dedurre dal massimale (secondo la tesi sostenuta dall’INPS) oppure dal credito retributivo effettivamente spettante (secondo la tesi dei lavoratori).

La giurisprudenza di questa Corte ha adottato, al riguardo, soluzioni divergenti, essendosi ritenuto, in alcune decisioni, che il Fondo è tenuto al pagamento della somma che residua dopo la sottrazione degli importi retributivi già versati dalle retribuzioni effettivamente spettanti per le ultime tre mensilità del rapporto e dopo il confronto della somma risultante con il massimale trimestrale, al fine di liquidare la porzione non eccedente (Cass. 16 giugno 1999 n. 5979, relativa ad ipotesi in cui il lavoratore non aveva percepito l’ultima mensilità ed aveva invece percepito la penultima e terzultima mensilità per importi superiori al massimale; Cass. 7 aprile 1999 n. 3382, in controversia riguardante l’entità del risarcimento derivante dalla ritardata attuazione della direttiva comunitaria ed in ipotesi in cui il lavoratore aveva ricevuto acconti sul credito retributivo complessivo), e, in altre, che il medesimo Fondo è tenuto, invece, al pagamento della somma che eventualmente residua dopo la sottrazione dal massimale degli importi retributivi – riferiti alle ultime tre mensilità del rapporto – già effettivamente percepiti dal lavoratore (Cass. 11 agosto 1999 n. 8607; 19 febbraio 2000 n. 1937; 2 ottobre 2000 n. 13939 ed altre conformi).

Con ordinanza 18 gennaio 2001 n. 38, infine, questa Corte, preso atto del contrasto di giurisprudenza e ritenuta la rilevanza, ai fini della questione in esame, della interpretazione della normativa comunitaria e, in particolare, della individuazione delle finalità in essa perseguite (garanzia del credito reale oppure di una quota massima del credito a prescindere dall’importo effettivo dello stesso), ha sottoposto alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, a norma dell’art. 234 del Trattato CE, la questione pregiudiziale se l’art. 4, comma 3 della direttiva n. 987 del 20 ottobre 1980 – nella parte in cui prevede che gli stati membri, per evitare di travalicare il fine sociale della direttiva stessa, possono fissare un massimale inerente al pagamento dei crediti dei lavoratori subordinati non soddisfatti e relativi agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro – consenta di imporre il sacrificio di parte del credito per coloro che, essendo l’ammontare della loro retribuzione superiore al massimale, abbiano ricevuto, per gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, anticipi di importo pari o superiore al suddetto massimale. La Corte di Giustizia, pronunciandosi al riguardo con sentenza 4 marzo 2004, r.g. n. 14791/98, anche in relazione ad altre domande di pronuncia pregiudiziale proposte per l’identica questione da giudici di merito, ha dichiarato che: “l’art. 3, n. 1, e l’art. 4, n. 3, comma 1, della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, devono essere interpretati nel senso di non autorizzare uno Stato membro a limitare l’obbligo di pagamento degli organismi di garanzia a una somma che copre i bisogni primari dei lavoratori interessati e da cui sarebbero sottratti i pagamenti versati dal datore di lavoro durante il periodo coperto dalla garanzia”.

Alla stregua di tale interpretazione della norma comunitaria, vincolante in questa sede (cfr. Corte cost. n. 113 del 1985), deve darsi seguito al primo degli anzidetti orientamenti giurisprudenziali, che interpreta le disposizioni interne, attuative della direttiva comunitaria, in coerenza con un’esigenza di tutela del reale credito retributivo, mentre non può condividersi il diverso orientamento, il quale – prospettando modalità di pagamento del credito che prescindono dall’importo effettivo dello stesso – presuppone invece una rado legis (di tutela omogenea dello stato di bisogno dei lavoratori) incompatibile con la norma comunitaria, così come interpretata dalla Corte di Giustizia.

Deve ritenersi, pertanto, che il legislatore, laddove prevede che il pagamento del Fondo di garanzia non è cumulabile con le retribuzioni percepite per il periodo degli ultimi tre mesi del rapporto (D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 4), abbia inteso precisare che le somme percepite si devono detrarre dal complessivo credito di lavoro (e non già dal massimale); e deve ribadirsi, pertanto, che per determinare il credito del lavoratore va preliminarmente calcolato il credito relativo agli ultimi tre mesi di lavoro e quindi vanno detratte le retribuzioni percepite: la somma così ottenuta, se inferiore al massimale, deve essere integralmente pagata dal Fondo, mentre, se è superiore, deve essere ridotta al limite dello stesso massimale. Ciò vale per tutte le ipotesi in cui il lavoratore abbia ricevuto importi retributivi inerenti alle ultime tre mensilità predette, e cioè sia che egli abbia ricevuto il pagamento di “acconti” sul credito complessivo (dallo stesso datore di lavoro in bonis o anche in sede di riparto nella procedura concorsuale) sia che abbia invece ricevuto la retribuzione per uno o più degli ultimi tre mesi; e non rileva, in quest’ultimo caso, che l’inadempimento abbia riguardato solo una determinata mensilità (o due mensilità) mentre per le restanti (o per la restante) sia stata pagata la retribuzione in misura pari o superiore al massimale, atteso che – in applicazione del richiamato sistema di calcolo – occorrerà comunque confrontare il credito residuo, in tal caso derivante dall’inadempimento di una o due retribuzioni mensili, con il massimale (il quale, riferendosi all’intero trimestre, rimane fisso e inalterato qualunque sia l’importo già percepito e a prescindere dal fatto che tale importo si riferisca all’uno o all’altro mese: cfr. Cass. n. 5979 del 1999 cit.). In base a tali considerazioni, osserva il Collegio che la sentenza impugnata è viziata da violazione di legge, in quanto essa, ha determinato il credito residuo mediante detrazione degli importi retributivi – già precedentemente versati – non dal credito globale del periodo garantito, ma dal massimale, non facendo, pertanto, corretta applicazione delle esaminate disposizioni normative.

1.5. Il ricorso, pertanto, deve essere accolto.

1.6. La sentenza impugnata va perciò cassata e, decidendosi la causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, va accolta la domanda proposta da Q.A., confermandosi le statuizioni sulle spese del giudizio di primo grado.

2. In ragione della soccombenza, l’INPS deve essere condannato a rifondere alla Q. le spese del giudizio di appello, liquidate in Euro 1350,00, di cui Euro 350,00 per diritti e Euro 1000,00 per onorario, e quelle del presente giudizio determinate in euro per esborsi ed Euro 3000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito accoglie la domanda del lavoratore. Conferma le statuizioni sulle spese del giudizio di primo grado. Condanna l’INPS a rifondere alla Q. le spese del giudizio di appello, liquidate in Euro 1350,00, di cui Euro 350,00 per diritti ed Euro 1000,00 per onorario, e quelle del presente giudizio determinate in Euro 13,00 per esborsi e Euro 3000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 10 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2011

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