Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18823 del 02/07/2021

Cassazione civile sez. lav., 02/07/2021, (ud. 16/02/2021, dep. 02/07/2021), n.18823

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLAIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22819/2015 proposto da:

P.R., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato OSCAR LOJODICE;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati

EMANUELA CAPANNOLO, CLEMENTINA PULLI, MAURO RICCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 941.12015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 09/04/2015 R.G.N. 2909/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16/02/2021 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 943 del 2015, la Corte d’Appello di Bari ha rigettato l’impugnazione proposta da P.R. avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato improcedibile per violazione del principio del ne bis in idem la domanda di quantificazione degli importi dovuti dall’INPS in relazione alle condanne disposte con le sentenze nn. 1557 del 2010 (che aveva riconosciuto il diritto all’integrazione al minimo sia sulla pensione di invalidità che sulla pensione di reversibilità di cui fruiva P.R.) e 4458 del 2005 (che aveva accertato il diritto ad ulteriori differenze sui ratei di pensione maturati dal gennaio 1990 al dicembre 1996 e alla medesima spettanti) e cessata la materia del contendere in ordine alla impugnativa dell’indebito preteso dall’INPS in conseguenza dell’inversione della integrazione dei trattamenti al minimo dìsposta dall’Istituto;

la Corte d’appello, pur correggendo la motivazione della sentenza impugnata riconoscendo che non vi era stata duplicazione delle pretese giacchè erano state richieste differenze maturate successivamente al 30 giugno 2006 e quindi non comprese nella quantificazione di cui alla sentenza n. 1557 del 2010, ha ritenuto infondato il gravame dal momento che già dalla c.t.u. del 15 dicembre 2008, espletata nel corso del giudizio definito con tale sentenza, era emerso che dal giugno 2006 l’INPS aveva provveduto ad erogare correttamente la pensione di invalidità ed inoltre doveva registrarsi la circostanza che l’Inps aveva affermato che la nota del 13 settembre 2010 relativa alla richiesta di indebito non aveva avuto seguito e con essa la pretesa di riportare a calcolo la pensione di invalidità civile, per cui effettivamente poteva dirsi cessata la materia del contendere, mentre non vi era prova del fatto che l’INPS avesse erogato importi minori al dovuto dopo il giugno del 2006;

avverso tale sentenza ricorre per cassazione P.R. sulla base di un articolato motivo;

resiste l’INPS con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’unico articolato motivo di ricorso si denuncia la violazione ed erronea applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., il travisamento dell’oggetto del giudizio e la violazione ed erronea applicazione dell’art. 91 c.p.c.;

in particolare si deduce che nella seconda parte della motivazione la Corte d’appello di Bari avrebbe errato nella lettura e nell’interpretazione degli atti di parte e dei documenti esibiti in giudizio ed in particolare: A) l’INPS non aveva mai dichiarato, come riferito dalla Corte, che la pretesa di riportare a calcolo la pensione lo era stata abbandonata e ciò si poteva dedurre dalla memoria di costituzione depositata il 3.2.2012 dall’INPS ove si poteva leggere solo che l’Istituto non aveva dato seguito alla richiesta di indebito; B) erroneamente la Corte aveva rilevato che la perizia del 15 dicembre 2008, espletata) nel corso del giudizio definito con sentenza n. 1557 del 2010, aveva accertato che l’Inps aveva erogato correttamente la pensione lo dal mese di giugno 2006 posto che tale circostanza era in concreto irrilevante giacchè con il ricorso introduttivo del presente giudizio era stata chiesta la condanna al pagamento della somma di denaro dovuta in esecuzione della sentenza n. 4458/2005 del Tribunale di Bari, a titolo di ratei della pensione lo in misura integrata al trattamento minimo successivi al 30.6.2006 (già liquidati con la sentenza n. 1557/2010), nonchè a titolo di restituzione di quanto indebitamente trattenuto sulle pensioni erogate, nella misura che sarebbe emersa dalla disponenda c.t.u.; C) la sentenza aveva poi violato il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato laddove aveva posto a carico della parte ricorrente la prova della effettiva successiva decurtazione ad opera dell’INPS mentre di ciò vi era prova nella missiva dell’INPS del 13.9.2010; D) erroneamente la Corte d’appello aveva affermato non esservi prova di una successiva decurtazione facendo riferimento alla nota del 13.9.2010 che conteneva la sola rinunzia a pretendere la restituzione dell’indebita erogazione e non la rinunzia ad operare il calcolo puro della pensione IO; F) erroneamente era stata rigettata la richiesta di nomina di nuovo c.t.u. in relazione ad un probabile travisamento dell’oggetto del giudizio; G) erroneità della sentenza laddove si era addebitato all’appellante di non aver esibito cedolini di pagamento dai quali arguire l’inadempimento e non si era nominato un consulente tecnico per verificare l’inadempimento; H) erroneamente, infine, era stata accertata la soccombenza della parte privata con la sua condanna alle spese dal momento che si era riconosciuta la fondatezza di una parte del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado;

le prime censure, quelle descritte sub A), B), C) D), E), F) e G) si riferiscono alla affermata errata interpretazione dei capi della domanda che la P. introdusse con il ricorso depositato presso il Tribunale di Bari il 7 aprile 2011, alla correlata interpretazione della memoria di costituzione dell’INPS (depositata il 3.2.2012) ed alla conseguente valutazione della incidenza su tali capi, quanto al rispetto della regola della corrispondenza fra chiesto e pronunciato e della relativa valenza probatoria, delle conclusioni della relazione tecnica d’ufficio depositata il 15 dicembre 2008 in seno ad altro giudizio;

i motivi nella sostanza mirano a criticare l’interpretazione del contenuto delle difese dell’Istituto svolte nei gradi di merito e l’interpretazione degli ulteriori atti acquisiti al processo e, dunque, in definitiva criticano le modalità di esercizio del potere di apprezzamento degli atti riservato al giudice di merito;

va a tal proposito ricordato che, per costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, il giudice di merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda e, quindi, della correlata memoria di costituzione della parte convenuta, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonchè dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e dei divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta;

il relativo giudizio, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità unicamente se sono stati travalicati i detti limiti o per vizio della motivazione (Cass. nn. 13602 del 2019; 8225 del 2014);

inoltre, si è pure affermato che qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è giudice del “fatto processuale”, l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);

la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perchè la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 212215/2010);

nel caso di specie, la ricorrente non ha indicato di aver allegato al ricorso per cassazione gli atti che richiama nell’illustrare il motivo e che ha citato solo per stralci o in via meramente riassuntiva;

i motivi di censura inoltre risultano inframmezzati con continue valutazioni di merito e parti di atti di giudiziari ed inammissibilmente formulati in modo promiscuo, denunciando violazioni di legge e vizi di travisamento dell’oggetto del giudizio senza che nell’ambito della parte argomentativi del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio; ciò rende estremamente difficoltosa l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008);

con specifico riferimento alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., nel giudizio di legittimità deve essere tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione che ne abbia data il giudice di merito: nel primo caso, infatti, si verte in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. e si pone un problema di natura processuale per la soluzione del quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta; nel secondo, invece, poichè l’interpretazione della domanda e la individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento dei fatti riservato, come tale, al giudice di merito, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 7.7.2006 n. 15603; Cass. 18.5.2012 n. 7932; Cass. 21.12.2017 n. 30684);

conseguentemente, inammissibile deve ritenersi la censura cosi come formulata in termini di violazione di legge perchè è evidente che ciò che viene censurato è l’interpretazione che della domanda ha offerto il giudice di secondo grado;

occorre poi rimarcare che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960);

quindi, non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito e che lamentano una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, sia perchè formulate in modo difforme rispetto ai principi enunciati da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014, che ha rigorosamente interpretato il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, limitando la scrutinabilità al c.d. “minimo costituzionale”, sia in quanto attingano questioni di fatto in cui la sentenza di appello ha confermato la pronuncia di primo grado;

anche l’ultimo profilo del vizio di violazione di legge fatto valere, relativo alla affermata violazione della regola della soccombenza, è inammissibile in quanto privo di specificità (art. 366 c.p.c.) giacchè non si confronta con l’esito del giudizio d’appello che, contrariamente a quanto rilevato dalla ricorrente, non è stato di parziale accoglimento ma di totale rigetto, non potendo intendersi come pronuncia di parziale accoglimento del gravame la mera condivisione di un passaggio ricostruttivo sostenuto dall’appellante che non incide sul rigetto dell’appello;

in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile;

le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo in favore dell’INPS.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella misura di Euro 650,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dai parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 16 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2021

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