Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18817 del 16/07/2018


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Civile Sent. Sez. L Num. 18817 Anno 2018
Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: DE FELICE ALFONSINA

SENTENZA

sul ricorso 21033-2013 proposto da:
MELATINI

MARIA

LUISA

C.F.

MLTMLS57M59F632N,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PASTEUR 56,
presso lo studio dell’avvocato ALBERTO PANUNZI,
rappresentata e difesa dall’avvocato BRUNO PETTINAR’
giusta delega in atti;
– ricorrente –

2018

contro

1453

COMUNE DI POTENZA PICENA, elettivamente domiciliata
in ROMA,

VIA CRESCENZIO 19,

presso lo studio

dell’avvocato FABIO VETRELLA, rappresentata e difesa

Data pubblicazione: 16/07/2018

dall’avvocato GIUSEPPE FERRARI giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 293/2012 della CORTE D’APPELLO
di ANCONA, depositata il 02/04/2013 R.G.N. 257/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
del

04/04/2018

dal

Consigliere

Dott.

ALFONSINA DE FELICE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI che ha concluso
per inammissibilità in subordine rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato PETTINARI BRUNO;
udito l’Avvocato FERRARI GIUSEPPE.

udienza

R.G.21033/2013

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Ancona, confermando la pronuncia di prime cure, ha
rigettato la domanda di risarcimento dei danni per demansionamento
proposta da Maria Luisa Melatini nei confronti del Comune di Potenza Picena,

dipendente aveva dedotto che l’assegnazione, da parte dell’Ente, prima
all’Ufficio Tributi comunali afferente all’Area Bilancio, poi all’Ufficio Commercio
e Politiche Comunitarie, decisa nell’ambito di un mutamento dell’articolazione
amministrativa dei servizi, aveva prodotto una dequalificazione professionale
a suo danno, dal momento che ambedue gli Uffici di nuova assegnazione
presentavano minore complessità ed erano di importanza inferiore rispetto a
quello ricoperto in precedenza.
La Corte territoriale ha ritenuto che la circostanza che l’appellante,
precedentemente posta a capo di un settore, si fosse trovata soggetta ai
vertici di altre Aree, non determinasse l’illegittimità delle scelte organizzative
effettuate dal Comune, né un demansionamento della Melatini, in quanto ella
aveva, comunque, mantenuto le mansioni corrispondenti al proprio
inquadramento formale.
Per la cassazione della sentenza ricorre Maria Luisa Melatini con sei
censure, e il Comune di Potenza Picena resiste con tempestivo controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con la prima censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3 cod. proc.
civ., parte ricorrente deduce “Violazione e falsa applicazione di norme di
diritto – art. 3 Costituzione, art. 2103 c.c. e art. 52 d. L.gs. n.165/2001”.
La critica si appunta sulla violazione del principio di divieto di reformatio
in pejus, il quale varrebbe allo stesso modo nel lavoro privato e pubblico,
senza che possa trovare spazio l’affermazione, contenuta nella sentenza
gravata, che la variazione tra mansioni è ammissibile e insindacabile nel
lavoro con le pubbliche amministrazioni, purché non sia fuori dalla qualifica
formale rivestita. Il demansionamento che sfocia in una lesione del diritto
fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore, secondo

presso cui la stessa svolgeva servizio con la qualifica di Capo Area. La

parte ricorrente, si determina proprio quando non si tiene conto della
valorizzazione delle attitudini professionali acquisite, il che sarebbe
esattamente mancato nel caso controverso.
Con la seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3 cod.
proc. civ., si denuncia “Dequalificazione – Violazione e falsa applicazione di
norme di diritto artt. 1175, 1375 – 2697 c.c. onere della prova”. Avrebbe
errato la Corte territoriale nel non aver ritenuto provato il motivo illecito alla

limitate ad una generica lamentazione. Sostiene, di contro, la difesa di parte
ricorrente, di aver adempiuto all’obbligo di allegare il demansionamento quale
diretta conseguenza dell’inadempimento datoriale, e che, in base alle regole
sulla distribuzione dell’onere probatorio, sarebbe spettato al Comune dare la
prova del fatto che esso potesse giustificarsi col legittimo esercizio dei poteri
datori ali.
Nella terza censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3 cod. proc.
civ., si lamenta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c., 2013 e
2697 c.c. per aver omesso qualsiasi indagine circa la equivalenza delle
mansioni”. Nel ritenere pienamente legittime le misure organizzative adottate
dal Comune, la Corte territoriale avrebbe omesso d’indagare se le mansioni
assegnate fossero effettivamente equivalenti a quelle possedute, nel rispetto
della professionalità acquisita dalla Melatini fino a quel momento.
Nella quarta censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.4 e n. 5 cod.
proc. civ., si contesta “Nullità della sentenza per mancato esame degli atti di
assegnazione prima all’area Tributi e, poi, all’area Attività Produttive e
Politiche Comunitarie (Cass,12514/2013) – Omesso esame di fatti decisivi
oggetto di discussione tra le parti – mancato esame del trasferimento al
settore Ragioneria, a quello dei Tributi e, poi, al settore Commercio e Politiche
Comunitarie”. La circostanza secondo cui, a seguito di modifiche dell’organico
comunale la ricorrente si fosse trovata “in sottordine” (p.2 sent.), e che
questa circostanza sia stata ritenuta legittima e non dequalificante dalla Corte
territoriale, avrebbe richiesto una motivazione adeguata, alla luce di tutti gli
elementi dedotti dall’appellante in merito alle ridotte responsabilità, alla
perdita delia posizione organizzativa, alla sostanziale riduzione delle unità
operative da coordinare, passate dalle originarie diciassette alla sola posizione

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base dell’asserito demansionamento, ritenendo che le doglianze si siano

attualmente esistente, nonché alla riduzione dell’entità del budget affidato alla
sua gestione.
Con la quinta censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3 cod.
proc. civ., si lamenta “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei
contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”. Il margine di discrezionalità
dell’Amministrazione, invocato dal Giudice di merito, avrebbe dovuto essere
circoscritto entro i limiti fissati dai criteri generali di cui al d.lgs. n.267/2000 e

nel regolamento degli uffici e dei servizi del Comune. Nello specifico, la
disciplina collettiva ha previsto all’art. 9 che per il conferimento degli incarichi
si debba tener conto “…della natura e delle caratteristiche dei programmi da
realizzare, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità
professionale ed esperienza acquisite dal personale della Categoria D”, e
all’art. 8 ha disposto i criteri per l’assegnazione delle posizioni organizzative al
personale appartenente alla Categoria D.
Nella sesta ed ultima censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3
cod. proc. civ., viene contestata “Violazione e falsa applicazione di norme di
diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro – violazione
dell’art. 18, lett f), c.c.n.l. di categoria vigente – nullità ex art. 1325 cod.
civ.”. In seguito alla contrattualizzazione del rapporto d’impiego pubblico, e
ancorché l’art. 40, co.1, del d.lgs.n.165/2001 abbia escluso dalla
contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, la
discrezionalità delle amministrazioni non è più assoluta, dovendo svolgersi
entro i confini fissati dalle parti sindacali a livello nazionale e decentrato (art.
40, u.c.). Da questo errore di diritto sarebbe derivato il peso eccessivo,
attribuito all’attività discrezionale del Comune, ritenuta insindacabile pur in
assenza degli accordi negoziali con le rappresentanze sindacali dell’Ente,
quanto all’utilizzo della ricorrente in compiti diversi da quelli di appartenenza.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, non meritano
accoglimento.
Nessuna delle censure formulate da parte ricorrente si rivela idonea a
contestare la posizione espressa dal Giudice d’Appello che, facendo proprio
l’orientamento espresso da questa Corte, ha dichiarato insussistente in capo
al Comune un obbligo di garantire il bagaglio professionale raggiunto dai
propri dipendenti.

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da quelli specifici contenuti nel c.c.n.l. per il personale degli enti locali, trasfusi

”In tema di pubblico impiego contrattualizzato…” – afferma, ad esempio,
la sentenza n. 7106/2014 – “…l’art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n.165,
assegna rilievo al solo criterio dell’equivalenza formale delle mansioni con
riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi,
indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il
giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione, non
potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 cod. civ.”

variazioni di mansioni, là dove le stesse si presentavano comunque congrue
rispetto alla qualifica formalmente rivestita dall’appellante. Quest’ultima,
funzionaria responsabile dell’Ufficio Tributi comunali, una volta istituita l’Area
Bilancio per una modifica organizzativa voluta dal Comune, aveva perso la
funzione di direzione affidata ad altra dipendente. La Corte d’appello ha
accertato che la ricorrente aveva continuato a svolgere le mansioni proprie del
suo inquadramento formale e che, essendo discrezionali e insindacabili innanzi
al Giudice ordinario i provvedimenti con cui l’amministrazione aveva inteso
imprimere agli Uffici del Comune un nuovo assetto organizzativo, la variazione
delle mansioni costituiva una scelta pienamente legittima e incensurabile.
Nell’impiego pubblico contrattualizzato l’art. 52 del d.lgs. n.165/2001
assegna rilievo al solo criterio dell’inquadramento formale, indipendentemente
dalla professionalità in concreto acquisita dal dipendente. Il principio di
matrice statutaria, introdotto per il lavoro privato dall’art. 2103 cod. civ., a
tutela e valorizzazione del bagaglio professionale del lavoratore, non trova
applicazione nell’impiego pubblico contrattualizzato, dove prevalgono esigenze
di buona amministrazione rispetto alla tutela del diritto alla qualifica, per il
quale anche un mutamento di mansioni equiparate potrebbe risultare
illegittimo qualora violasse la professionalità acquisita e sarebbe esigibile nei
confronti del datore in quanto strumento di protezione della dignità della
persona del lavoratore subordinato.
Corretta è anche la motivazione della Corte d’Appello sul punto della
(soltanto) dedotta sussistenza di un motivo illecito da parte della ricorrente,
non potendo la discriminazione ritenersi provata dal riferimento all’episodio
legalitario” riferito, ma privo di connessione coi fatti di causa, secondo cui il
demansionamento sarebbe avvenuto perché – come afferma genericamente la
ricorrente – ella non era “prona e remissiva” rispetto ai vertici del Comune.

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Nel caso che ci occupa, la Corte d’Appello ha dichiarato legittime le

In definitiva, essendo le censure infondate, il ricorso va rigettato. Le
spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso nei
confronti del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida
in Euro 4.000 per compensi professionali, oltre alle spese forfetarie nella
misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 e agli accessori di
legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dell’art. 1 bis dello stesso art.13.

Così deciso all’Udienza Pubblica del 4 aprile 2018

P.Q.M.

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