Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18811 del 02/07/2021

Cassazione civile sez. III, 02/07/2021, (ud. 29/01/2021, dep. 02/07/2021), n.18811

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10813/2018 proposto da:

MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE,

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrente principale –

contro

SYNDIAL servizi ambientali s.p.a. – (già SYNDIAL – ATTIVITA’

DIVERSIFICATE s.p.a.), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA V.

COLONNA, 39, presso lo studio dell’avvocato LAURA SALVANESCHI, che

la rappresenta e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e contro

T.F., C.G. e O.M., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEL PLEBISCITO 102 (STUDIO LOMBARDI, SEGNI

E ASSOCIATI), presso lo studio dell’avvocato ALBERTO DEASTI, che li

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ADRIANA CAVIGIOLI,

ELENA BERSANI e FRANCO ANELLI;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

e

MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente ai ricorsi incidentali –

e

M.F., P.A., A.L.,

S.G., T.L., B.F. e S.C.;

– intimati –

avverso le sentenze n. 1655/2014 e n. 511/2017 della CORTE D’APPELLO

di TORINO, depositate rispettivamente il 10/09/2014 e il 06/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/01/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA Giovanni Battista.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con citazione del 2 maggio 2003 il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (d’ora in avanti MATTM) convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Torino, la s.p.a. Enichem, in qualità di proprietaria dello stabilimento sito in (OMISSIS), e alcuni suoi dirigenti e dipendenti, fra i quali T.F., C.G. e O.M., chiedendo che fossero condannati al risarcimento del danno ambientale cagionato dalla gestione dell’impianto, strutturalmente inquinante, in relazione al periodo 1990-1996.

Il Ministero chiese che il Tribunale, accertata la responsabilità solidale dei convenuti per il grave inquinamento causato alle acque del (OMISSIS), del (OMISSIS) e del (OMISSIS) oltre che all’intero ecosistema locale, li condannasse al risarcimento dei danni da liquidare secondo i criteri di cui alla L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18. A supporto della domanda l’attore richiamò, tra l’altro, gli atti del procedimento penale promosso a carico dei dirigenti e dipendenti della società Enichem convenuti nell’odierno giudizio, che si era concluso con sentenza di patteggiamento della pena davanti al Pretore di Verbania, in data 29 luglio 1999.

Si costituirono in giudizio la s.p.a. Syndial – Attività Diversificate (già Enichem), nonchè alcuni dei dipendenti e dirigenti citati, i quali eccepirono preliminarmente la prescrizione del diritto fatto valere e contestarono nel merito la domanda attrice, chiedendone il rigetto.

Il Tribunale, fatta svolgere una complessa c.t.u., accolse la domanda e, accertata la responsabilità dei convenuti ai sensi degli artt. 2043 e 2050 c.c., nonchè della L. n. 349 del 1986, art. 18, condannò la società Syndial e gli altri al risarcimento del danno ambientale; in particolare, la società fu condannata al pagamento della somma di Euro 1.833.475.405,49 a titolo di equivalente pecuniario, mentre i singoli dirigenti e dipendenti furono condannati al pagamento di risarcimenti in somme diverse, a seconda dell’entità del contributo causale di ciascuno. Tutti i convenuti furono poi condannati al pagamento delle spese di lite.

2. La sentenza è stata impugnata in via principale dalla società Syndial e in via incidentale dai dipendenti e dirigenti condannati e dal MATTM.

3. La Corte d’appello di Torino ha pronunciato due sentenze: la prima, non definitiva, in data 10 settembre 2014, e la seconda, definitiva, in data 6 marzo 2017.

3.1. Nella prima pronuncia la Corte, dopo aver esaminato e risolto una serie di questioni procedurali sulla costituzione delle parti e sull’ammissibilità dei rispettivi atti di appello, ha dichiarato non fondati il primo motivo dell’appello principale ed il primo motivo dell’appello incidentale dei dirigenti, aventi ad oggetto la presunta erronea indicazione dell’oggetto della domanda.

Limitando i riferimenti alle sole questioni oggetto degli odierni ricorsi per cassazione, si osserva che la Corte torinese ha respinto la doglianza della società Syndial secondo cui il Tribunale non avrebbe rilevato la novità della domanda di accertamento della responsabilità diretta della medesima. Ha rilevato la Corte di merito che, in base a quanto risultava dall’atto di citazione e dalle precisazioni contenute nella successiva memoria di cui all’art. 183 c.p.c., il Ministero aveva agito nei confronti della società invocando “due distinti titoli”, costituiti “dalla responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c., per le singole condotte dei dipendenti costituenti reato” e dalla “responsabilità diretta per quelle stesse condotte, che valutate unitariamente esprimevano precise scelte gestionali, finalizzate al conseguimento del maggior profitto per la società”. Se ne doveva, pertanto, trarre la conclusione per cui il Tribunale aveva “correttamente ravvisato l’allegazione della responsabilità diretta della società per i danni arrecati sia ai singoli beni sia all’ambiente”, ai sensi degli artt. 2043 e 2050 c.c.. Doveva essere poi anche condivisa, ad avviso della Corte d’appello, la valutazione del Tribunale in ordine al diverso profilo di responsabilità a titolo di custodia, ai sensi dell’art. 2051 c.c., posto che essa implicava “un tema d’indagine nuovo” ed era stata, pertanto, correttamente ritenuta inammissibile.

3.2. La Corte d’appello, nella medesima sentenza, ha dichiarato parzialmente fondato il primo motivo dell’appello incidentale del MATTM – avente ad oggetto l’omessa considerazione, da parte del Tribunale, dei danni verificatisi nel periodo 1996-2003 “riconducibili alla gestione nel periodo, 1990-1996” – ed il secondo motivo del medesimo appello, avente ad oggetto l’omessa considerazione, da parte del Tribunale, “nella valutazione degli scarichi illeciti nelle acque superficiali del periodo 19901996, di sostanze inquinanti diverse dal DDT”. Analogamente, la Corte ha affermato che l’allegazione, da parte del Ministero attore, del danno derivante all’ambiente, bene di rilevanza costituzionale, consentisse “di ritenere come proposta anche la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, non considerato dalla L. n. 349 del 1986, art. 18, ma rientrante nell’ampia categoria della tutela aquiliana alla quale appartiene il danno ambientale”.

3.3. Nella sentenza non definitiva, inoltre, la Corte d’appello ha rigettato i motivi dell’appello principale e dell’appello incidentale dei dirigenti aventi ad oggetto la prescrizione del diritto, anche se con una motivazione diversa da quella del Tribunale.

3.4. La sentenza non definitiva è stata oggetto di riserva di ricorso per cassazione differito da parte della società Syndial e dei dirigenti e dipendenti già condannati in primo grado.

4. Con la sentenza definitiva la Corte d’appello, in parziale riforma della decisione del Tribunale, ha così provveduto: 1) ha condannato la società Syndial a risarcire il danno all’ambiente “mediante l’esecuzione della misura di riparazione primaria consistente negli interventi relativi alle acque sotterranee previsti nel POB approvato con il D.M. n. 21 ottobre 2013, e mediante l’esecuzione delle misure di riparazione compensative consistenti negli interventi indicati a p. 124 della relazione di consulenza del 10 giugno 2016 e negli interventi di cui alla voce “a.A” del punto 4 degli “Interventi sulle aree esterne del (OMISSIS)”, descritti nell’Allegato 5 della relazione di consulenza del 30 ottobre 2013″ e, per il caso di mancata o imperfetta realizzazione di tali opere, al pagamento del costo dei suindicati interventi (come indicato nel computo metrico del POB, oltre ad Euro 9.500.000 per le misure compensative); 2) ha condannato i dirigenti e dipendenti della Syndial, ivi compresi T.F., C.G. e O.M., al pagamento rispettivamente delle somme di Euro 60.000, 80.000 e 19.000; 3) ha rigettato la domanda del MATTM di condanna della Syndial al risarcimento del danno non patrimoniale; 4) ha rigettato la domanda del MATTM di condanna della Syndial al ripristino e al risarcimento del danno all’ambiente per equivalente monetario, ai sensi della L. n. 349 del 1986, art. 18; 5) ha regolato le spese di giudizio e di consulenza tecnica relative ai due gradi di giudizio.

4.1. Nella sentenza definitiva la Corte d’appello ha innanzitutto rigettato una serie di contestazioni relative alla raccolta delle prove, alla validità delle c.t.u. ed all’imparzialità del c.t.u. ing. R. nominato in primo grado.

Ciò premesso, la sentenza è passata ad affrontare il problema dell’esistenza del danno ambientale.

La Corte d’appello ha dichiarato di non condividere il ragionamento del Tribunale in ordine all’avvenuto superamento dei limiti stabiliti dalla L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 9, per il riversamento di sostanze inquinanti; ciò sul rilievo che detta norma – non vietava assolutamente, ai fini di quel superamento, la diluizione delle sostanze inquinanti con le acque di lavaggio e di raffreddamento, in quanto le acque necessarie alle attività di produzione “non potevano essere considerate come utilizzate allo scopo di far rispettare i limiti di accettabilità, nel senso vietato dal legislatore”. Per cui il ragionamento svolto dal Tribunale era da ritenere non corretto, in quanto “fondato sull’applicazione del limite della legge Merli alle acque di processo, e senza considerare la situazione esistente nel punto d’immissione nel corpo recettore, a valle dell’insediamento produttivo”. Tuttavia, pur dovendosi ritenere mancante la prova certa del superamento dei limiti di accettabilità previsti dalla L. n. 319 del 1976, per le acque provenienti dagli impianti DDT e cloroformio – con conseguente parziale fondatezza dei relativi motivi di appello – la sentenza del Tribunale doveva essere confermata, invece, nella parte in cui aveva considerato dimostrato il superamento “del nuovo limite di quantità di DDT scaricabile introdotto dalle nuove norme”, ossia il D.P.R. 24 maggio 1988, n. 217, e il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 133.

La sentenza ha perciò concluso nel senso che la sentenza di primo grado – nella parte in cui aveva accertato la violazione delle norme specifiche relativi agli scarichi di sostanze pericolose – doveva essere solo in parte (e non totalmente) riformata.

La Corte torinese ha poi rigettato le censure dell’appello principale e dell’appello incidentale dei dirigenti e dipendenti della Syndial tanto in ordine alla c.d. contaminazione diffusa che in ordine alla contaminazione della falda, del fiume (OMISSIS) e del (OMISSIS), entrambe da collegare alla gestione dell’impianto nel periodo 1990-1996.

La sentenza ha dichiarato non fondato il primo motivo dell’appello incidentale del MATTM nella parte in cui chiedeva la condanna degli originari convenuti al risarcimento anche dell’ulteriore danno asseritamente prodotto dal 1997 fino alla data di proposizione del giudizio di primo grado (2003), rilevando che non vi erano prove sufficienti su questo punto.

4.2. Passando all’esame della fattispecie di cui alla L. n. 349 del 1986, art. 18, la Corte d’appello ha affermato che doveva ritenersi dimostrata, attraverso i dati a disposizione e la c.t.u., che nel periodo 1990-1996 i riversamenti di sostanze inquinanti dall’impianto Syndial alle acque del fiume (OMISSIS) e del (OMISSIS) avevano “sicuramente inciso sull’ambiente in maniera apprezzabile, aggravando la situazione preesistente”; nè poteva assumere valenza significativa il fatto, pacifico, che negli anni dal 1970 al 1990, ed anche in precedenza, l’inquinamento fosse stato ben più grave, dato l’uso sistematico del DDT in agricoltura.

Dopo aver ricordato che il Tribunale aveva condannato i responsabili al risarcimento del danno col criterio dell’equivalente monetario – e ciò sul presupposto che il ripristino fosse impossibile – la Corte d’appello ha rilevato che l’art. 18 cit. era stato abrogato nel momento in cui il Tribunale aveva pronunciato la sentenza di primo grado (2008); ma le norme del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, non erano ancora applicabili alle emissioni verificatesi prima dell’entrata in vigore del medesimo (29 aprile 2006). Le successive modifiche normative (in particolare, il D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 5 bis, convertito con modificazioni nella L. 20 novembre 2009, n. 166, e la L. 6 agosto 2013, n. 97, art. 25) avevano tuttavia corretto il sistema, rendendo applicabili le norme sopravvenute del D.Lgs. n. 152 del 2006, anche ai fatti pregressi, come da costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità. Richiamando, quindi, tali principi, la sentenza ha affermato che la legge esclude ormai che nei giudizi di risarcimento del danno ambientale la liquidazione possa avvenire con il criterio dell’equivalente pecuniario, dovendo invece il giudice individuare, anche nei giudizi pendenti, le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 303, lett. f), e art. 311.

Ciò premesso – dopo aver riassunto le caratteristiche di ciascuna delle tre misure suindicate – la sentenza, richiamando le conclusioni delle due c.t.u. espletate (ing. R. ed ing. Di Molfetta), è pervenuta alla conclusione per cui, quanto alle acque superficiali, la sostanza inquinante non era presente “in misura significativa”, sicchè “l’intervenuto ripristino naturale” rendeva “non necessaria una misura di riparazione primaria”.

Quanto, invece, ai sedimenti di sostanze inquinanti depositati nel (OMISSIS) nel periodo 1991-1997, la Corte torinese ha discusso le differenti posizioni del MATTM e della società Syndial e, richiamate le conclusioni della c.t.u. di secondo grado, ha affermato che nel caso di specie il recupero naturale costituiva “idonea misura di riparazione primaria”. Tale misura, prevista espressamente nell’Allegato 3 alla parte sesta del t.u. ambiente, era da considerare preferibile per una serie di ragioni: da un lato, essa era “in atto da tempo”, avendola già imposta la sentenza penale di patteggiamento del 1999; dall’altro andava considerato che la riparazione primaria proposta dal MATTM era da ritenere “impraticabile ed irresponsabile, non in quanto impossibile ma solo perchè tale da compromettere in maniera significativa l’ecosistema del fondale”, danneggiando in tal modo a lungo l’attività del (OMISSIS). Non sussistendo più, secondo la relazione del c.t.u., un rischio ecologico per l’uomo, l’acqua, le specie e gli habitat naturali, il recupero naturale era preferibile all’intervento di dragaggio richiesto dal MATTM, anche perchè i sedimenti di DDT depositati negli anni 1990-1996 erano stati ricoperti da sedimenti depositati negli anni successivi, risultando in effetti non più attivi.

In relazione alle c.d. perdite temporanee dell’intero comparto dell’ambiente acquatico, la sentenza ha evidenziato, sempre alla luce delle conclusioni del c.t.u. ing. Di Molfetta, che la balneazione non aveva subito interruzioni, così come non vi era stata perdita “di risorse idropotabili, di valori culturali e di servizi di regolazione”, per cui le sole perdite sussistenti erano relative ai servizi antropici, cioè all’attività di pesca. Considerando che gli interventi tecnici prospettati nella c.t.u. erano tali da superare abbondantemente la stima, di per sè cautelativa, delle perdite subite, la sentenza ha concluso nel senso (già in precedenza ricordato) che misure idonee allo scopo erano gli interventi di cui alla voce “a.A” del punto 4 degli “Interventi sulle aree esterne del sin di Pieve”, descritti nell’Allegato 5 della relazione di consulenza del 30 ottobre 2013.

4.3. La Corte d’appello ha poi esaminato le responsabilità delle singole parti convenute in giudizio dal MATTM ed è pervenuta alla conclusione per cui la società Syndial era responsabile “dell’intero danno arrecato all’ambiente in conseguenza dell’attività svolta”, dovendosi ritenere al riguardo non fondata la censura contenuta nell’appello principale in base alla quale essa sarebbe stata condannata erroneamente ad un risarcimento maggiore rispetto a quello dei suoi dirigenti. Tale diversità è stata ritenuta giustificata, posto che la responsabilità della società “è diretta e personale”.

Dopo di ciò, la sentenza ha esaminato le singole posizioni dei dirigenti e dipendenti della Syndial e, ai limitati fini che interessano nella sede odierna, ha rigettato l’appello di T., C. e O., confermando per tutti loro la condanna inflitta dal Tribunale.

4.5. La Corte d’appello, infine, ha rigettato, siccome non provata, la domanda del MATTM di risarcimento del danno non patrimoniale. Pur essendo l’ambiente, infatti, un bene di rilevanza costituzionale, la sentenza ha ricordato che il danno non patrimoniale non può essere in re ipsa, dovendo comunque essere oggetto di prova, che nella specie il Ministero non aveva fornito.

5. Contro la sola sentenza definitiva della Corte d’appello di Torino propone ricorso il MATTM con atto affidato ad un unico motivo contenente due diverse censure.

Resiste la Syndial servizi ambientali s.p.a. con controricorso contenente ricorso incidentale condizionato, affidato ad otto motivi, nei confronti sia della sentenza non definitiva che di quella definitiva.

Resistono anche l’ing. T.F., il Dott. C.G. e l’ing. O.M. con un unico separato controricorso contenente ricorso incidentale condizionato affidato a quattro motivi, nei confronti sia della sentenza non definitiva che di quella definitiva.

Il MATTM resiste con controricorso ai due ricorsi incidentali condizionati.

Le parti controricorrenti hanno depositato memorie.

Con ordinanza interlocutoria 27 ottobre 2020, n. 23647, la trattazione del ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza, in vista della quale le parti hanno depositato memorie.

Fissato per l’udienza pubblica del 29 gennaio 2021, il ricorso è stato poi trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal D.L. n. 137 del 2020, sopravvenuto art. 23, comma 8 bis, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Il Procuratore generale ha depositato conclusioni per iscritto, chiedendo che il ricorso principale venga rigettato, con assorbimento dei ricorsi incidentali condizionati.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Ricorso principale.

1. Con l’unico motivo di ricorso il MATTM lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 298 bis e 300, e art. 311, commi 2 e 3, nonchè delle disposizioni di cui all’Allegato 3 alla parte sesta del medesimo decreto.

Nella prima parte della censura il Ministero lamenta che la sentenza, pur in presenza di sedimenti pacificamente inquinati nel (OMISSIS), non abbia ritenuto di imporre alla società Syndial di attuare alcun intervento di riparazione primaria o, in subordine, di riparazione complementare. Dopo aver trascritto il contenuto dell’Allegato 3 cit., richiamato dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, il MATTM osserva che la riparazione primaria del danno ambientale “è quella forma di riparazione, attuata attraverso l’intervento umano, che riporta le risorse e i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie”. Tale riparazione può essere omessa solo quando si sia avuto il ripristino naturale, cioè quando la natura si sia “autoriparata”. Nel caso di specie, al contrario, come la stessa Corte d’appello ha ammesso, il fondale del (OMISSIS) è coperto da uno strato di circa 15 centimetri di sedimenti di sostanze inquinanti (DDT ed altro), le quali non sono scomparse; finchè quelle sostanze rimangono sul fondale, sarebbe “da escludere che le matrici ambientali siano tornate alle condizioni originarie”, per cui non potrebbe parlarsi di ripristino naturale. La Corte d’appello, quindi, sarebbe incorsa in un errore di sussunzione, perchè avrebbe ricompreso la presenza dei sedimenti inquinati in una fattispecie, quella del ripristino naturale, del tutto estranea; la sentenza, cioè, avrebbe inteso la normativa nel senso che l’amministrazione potrebbe ritenere conveniente attendere che “la natura si ripari “da sola”, anzichè disporre (doverosamente) le necessarie misure di riparazione a carico del responsabile della contaminazione”. Le misure di riparazione primaria, ad avviso del MATTM, “sono escluse solo quando il ripristino naturale sia già completamente (e concretamente) avvenuto”, cioè quando le risorse naturali sono tornate spontaneamente alle condizioni originarie. Poichè ciò, nella specie, non è avvenuto, la sentenza avrebbe dovuto imporre alla Syndial le misure di riparazione primaria o, in subordine, le misure complementari (anche in un sito alternativo), o, in ulteriore subordine, avrebbe dovuto determinare il costo delle operazioni necessarie e porlo a carico della parte danneggiante, con lo strumento della condanna pecuniaria (il ricorso ricorda che nella terza comparsa conclusionale si era chiesta la conferma della decisione di primo grado sotto questo profilo, avendo il Tribunale riconosciuto un risarcimento complessivo pari alla somma di Euro 1.120.000.000).

Nella seconda parte della censura il ricorrente lamenta che la sentenza sarebbe incorsa in un ulteriore errore là dove ha omesso di disporre misure di riparazione compensative delle perdite temporanee riferibili in modo specifico alle acque del (OMISSIS). La Corte d’appello ha ribadito l’esistenza di una contaminazione delle acque riconducibile a responsabilità della società Syndial e dei suoi dipendenti nel periodo in contestazione; ciò nonostante la sentenza, nel disporre le misure compensative poi indicate nel dispositivo, non avrebbe tenuto conto del fatto che esse “si riferiscono soltanto alle attività legate alla pesca, e non hanno riguardato i sedimenti, i fondali e le acque in sè considerati del (OMISSIS)”. Da tanto consegue che la Corte d’appello avrebbe “illegittimamente omesso di disporre la compensazione delle perdite temporanee determinatesi a causa della contaminazione da DDT delle acque del lago”, in tal modo violando i criteri di cui all’Allegato 3 del D.Lgs. n. 152 del 2006.

2. La complessa censura del MATTM esige una breve ricostruzione del quadro normativo di riferimento e degli orientamenti già assunti da questa Corte in materia.

2.1. A norma della L. n. 349 del 1986, art. 18, l’azione di risarcimento del danno ambientale è stata rimessa allo Stato (comma 3), stabilendo che lo strumento del ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile fosse disposto dal giudice “ove possibile” (comma 8). Diversamente, il risarcimento doveva essere determinato per equivalente.

L’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 2006 ha rivoluzionato l’intera materia, con l’abrogazione del citato art. 18, e l’introduzione di una serie di regole nuove, di matrice comunitaria, fondate sul progressivo abbandono del criterio del risarcimento per equivalente. L’art. 300, comma 1, del D.Lgs. cit., infatti, ha rielaborato la nozione di danno ambientale, definendolo come “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, mentre il successivo comma 2 ha analiticamente indicato le varie ipotesi. Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, intitolato significativamente come “Azione risarcitoria in forma specifica”, al comma 1, dispone che il Ministro competente “agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto”. Si tratta – come questa Corte ha rilevato nella recente sentenza 27 marzo 2019, n. 8468 – di una disciplina che “si è mossa in senso del tutto divergente rispetto alla prima forma di tutela: il risarcimento per equivalente “classico”, già previsto, sebbene con connotato latamente “punitivo” dalla L. n. 349 del 1986 (v. Cass. n. 25010 del 2018, Cass. n. 9211 del 2015), appare del tutto superato”. Il sistema attuale, “conforme ai dettami della UE, impone misure riparatorie e ripristinatorie come modalità di tutela, con la sola, residua possibilità di determinazione dei costi degli oneri di ripristino in caso di mancata adozione delle misure di intervento sostitutivo (ipotesi da estendere alla impossibilità di ripristino, già prevista nel testo intermedio dell’art. 311)” (così la citata sentenza).

L’applicabilità immediata delle nuove norme sul risarcimento del danno ambientale è stata disposta dalle successive modifiche apportate agli artt. 303 e 311 del t.u. ambiente. Già il D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 5 bis, comma 1, inserito dalla legge di conversione 20 novembre 2009, n. 166, aveva infatti disposto in tal senso, modificando il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 303, comma 1, lett. f). In seguito, la L. 6 agosto 2013, n. 97, art. 25, (Legge Europea 2013) ha stabilito la sostanziale abrogazione dell’art. 303, comma 1, lett. f), come modificato dall’art. 5 bis cit., ed ha riversato lo stesso contenuto normativo nell’art. 311, comma 3, del tu., che oggi così dispone:

“Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare provvede in applicazione dei criteri enunciati negli allegati 3 e 4 della presente parte sesta alla determinazione delle misure di riparazione da adottare e provvede con le procedure di cui al presente titolo III all’accertamento delle responsabilità risarcitorie. Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito il Ministro dello sviluppo economico, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 3, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell’allegato 3 alla presente parte sesta i criteri ed i metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa. Tali criteri e metodi trovano applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo precedente. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale. Il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo arricchimento”.

In sostanza, quindi, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 300, nel suo testo attuale “è di immediata applicazione non per quanto concerne la definizione del danno ambientale, ma solo per quanto concerne la tendenziale eliminazione del risarcimento del danno per equivalente” (così ancora la citata sentenza n. 8468 del 2019).

2.2. In linea con l’appena tratteggiata evoluzione del sistema, la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo stabilito, a partire dalla sentenza 22 marzo 2011, n. 6551 (peraltro antecedente la modifica di cui alla L. n. 97 del 2013), che la domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della L. n. 166 del 2009, di conversione del D.L. n. 135 del 2009, è assoggettata, ai fini della liquidazione del danno, ai criteri specifici di cui all’art. 311 del t.u. n. 152 del 2006, che discendono dalle previsioni di cui all’Allegato II alla direttiva 2004/35/CE.

La giurisprudenza successiva, nel ribadire l’immediata applicazione dei nuovi criteri risarcitori ai giudizi pendenti, col solo limite del giudicato, ha confermato come, alla luce dell’ulteriore modifica di cui alla L. n. 97 del 2013, il criterio del risarcimento per equivalente (previsto dalla L. n. 349 del 1986, art. 18) sia stato ormai abbandonato, dovendosi fare applicazione delle sole misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, salva la permanenza del potere del Ministro di determinare i costi delle attività necessarie per la completa attuazione delle misure e di agire per il pagamento nei confronti dei responsabili (v. le sentenze 13 agosto 2015, n. 16806, 20 luglio 2016, n. 14935, e 4 aprile 2017, n. 8662 del 2017).

In tale percorso si è inserita anche la Corte costituzionale la quale, nella sentenza n. 126 del 2016, ha illustrato con esemplare chiarezza il cambio di prospettiva intervenuto a proposito del risarcimento del danno ambientale e delle procedure risarcitorie (accentrando il potere di agire per il risarcimento del danno ambientale nelle mani del MATTM).

2.3. Ciò premesso, è necessario soffermarsi sul contenuto dell’Allegato n. 3 alla parte sesta del testo unico cit., ove vengono definite le misure di riparazione del danno all’acqua, alle specie o agli habitat naturali protetti.

L’art. 1 dell’Allegato n. 3 così dispone:

“La riparazione del danno ambientale, in relazione all’acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti, è conseguita riportando l’ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, da intendersi come segue:

a) riparazione “primaria”: qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie;

b) riparazione “complementare”: qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati;

c) riparazione “compensativa”: qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo”.

Il successivo punto 1.1., dopo aver ribadito che lo scopo della riparazione primaria “è quello di riportare le risorse naturali e/o i servizi danneggiati alle o verso le condizioni originarie”, chiarisce che, qualora sia impossibile il ritorno alle condizioni originarie, “sarà intrapresa la riparazione complementare”, il cui scopo è quello “di ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie”.

Il successivo punto 1.3. dell’Allegato in esame, nel presentare le varie opzioni a disposizione, specifica che la scelta deve essere compiuta in base ad una serie di criteri, fra i quali il costo, le probabilità di successo, la misura in cui ciascuna opzione giova al risultato e il tempo necessario per l’efficace riparazione del danno.

A questo fine, il punto 1.3.2. così dispone:

“Nel valutare le diverse opzioni di riparazione possono essere scelte misure di riparazione primaria che non riportano completamente l’acqua o le specie e gli habitat naturali protetti danneggiati alle condizioni originarie o che li riportano più lentamente a tali condizioni. Questa decisione può essere presa soltanto se le risorse naturali e/o i servizi perduti sul sito primario a seguito della decisione sono compensati aumentando le azioni complementari o compensative per fornire un livello di risorse naturali e/o servizi simile a quello perduto”.

Il punto 1.3.3., poi, prevede che, in deroga alle disposizioni di cui al punto 1.3.2. e conformemente all’art. 7, paragrafo 3, “l’autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora:

a) le misure di riparazione già intraprese garantiscano che non esiste più un rischio significativo di causare effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli habitat naturali protetti e b) i costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le condizioni originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati”.

Per quanto riguarda, invece, la riparazione del danno al terreno, il punto 2 del medesimo Allegato così dispone:

“Si devono adottare le misure necessarie per garantire, come minimo, che gli agenti contaminanti pertinenti siano eliminati, controllati, circoscritti o diminuiti in modo che il terreno contaminato, tenuto conto del suo uso attuale o approvato per il futuro al momento del danno, non presenti più un rischio significativo di causare effetti nocivi per la salute umana. La presenza di tale rischio è valutata mediante procedure di valutazione del rischio che tengono conto della caratteristica e della funzione del suolo, del tipo e della concentrazione delle sostanze, dei preparati, degli organismi o microrganismi nocivi, dei relativi rischi e della possibilità di dispersione degli stessi. L’utilizzo è calcolato sulla base delle normative sull’assetto territoriale o di eventuali altre normative pertinenti vigenti quando si è verificato il danno”.

3. Quello fin qui riassunto è il quadro normativo e giurisprudenziale alla luce del quale vanno esaminate le censure proposte dal MATTM.

3.1. La prima parte dell’unico complesso motivo di ricorso (pp. 12-20) è costruita sui seguenti passaggi logici: la nozione di ripristino naturale esige che le matrici ambientali siano ritornate da sole alle condizioni originarie; in mancanza di tale ritorno, è necessario comunque disporre le misure complementari; permangono sui fondali del (OMISSIS) circa 15 cm di sedimenti inquinanti, dato che esclude si possa affermare che vi sia stato il ripristino naturale; l’adozione delle misure di riparazione primaria può essere esclusa solo se vi sia già stato il completo ripristino naturale, cosa non avvenuta nella specie, per le ragioni già dette.

Da tanto consegue, secondo il ragionamento del Ministero ricorrente, che la sentenza definitiva qui impugnata dovrebbe essere cassata, avendo consentito, in sostanza, un indebito “alleggerimento” della posizione debitoria.

3.2. La Corte non condivide tali argomenti, tanto più in considerazione della motivazione resa dalla Corte d’appello.

La lettura coordinata delle disposizioni contenute nel citato Allegato 3 alla parte sesta del t.u. n. 152 del 2006 consente infatti di affermare che la legge fornisce un ampio spettro di valutazione all’autorità amministrativa e, di conseguenza, al giudice in ordine alle decisioni più opportune. E’ vero, infatti, che lo scopo della riparazione primaria è quello di “riportare le risorse naturali e/o i servizi danneggiati alle o verso le condizioni originarie”; ma è altrettanto vero che il punto 1.2.1. dell’Allegato in questione prevede la possibilità di prendere in considerazione “altre opzioni, ossia azioni per riportare direttamente le risorse naturali e i servizi alle condizioni originarie in tempi brevi, o attraverso il ripristino naturale”. Il ripristino naturale, quindi, è previsto dalla legge come strumento di riparazione primaria, proprio perchè la tutela delle acque e degli habitat naturali è finalizzata a proteggere equilibri molto delicati, rispetto ai quali la natura stessa provvede ad autoripararsi. Questo non significa, contrariamente a quanto rileva il MATTM, che si debba avvantaggiare la posizione del soggetto responsabile consentendogli di attendere che “la natura si ripari da sola”, ma soltanto che l’avvio di un percorso di ripristino naturale – tanto più, come in questo caso, se aiutato dalle iniziative già assunte dalla società Syndial e collegato con le misure imposte dalla sentenza in esame – può condurre a risultati preferibili rispetto a quelli raggiungibili con un intervento diretto. La riparazione primaria, come appunto dice la legge, sussiste tutte le volte in cui il processo in atto conduca le risorse e/o i servizi naturali “alle o verso le condizioni originarie”; e l’uso della congiunzione disgiuntiva “o” dimostra come il legislatore sia stato ben consapevole della eventualità per cui il ritorno alle condizioni originarie potrebbe non essere possibile. Il ripristino naturale, in altri termini, non presuppone per la sua ammissibilità, come vorrebbe l’odierno ricorrente, che la natura sia già ritornata alle sue condizioni originarie; d’altra parte, come sopra si è detto, il punto 1.3.2. dell’Allegato citato stabilisce che “l’autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora: a) le misure di riparazione già intraprese garantiscano che non esiste più un rischio significativo di causare effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli habitat naturali protetti e b) i costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le condizioni originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati”. Il che viene a significare che il criterio della proporzione è richiamato dalla legge e può condurre anche alla decisione di non assumere ulteriori misure, ricorrendone le relative condizioni.

3.3. La sentenza impugnata si è mossa entro tale perimetro ed ha fatto corretta applicazione della normativa suindicata.

La Corte d’appello si è occupata in modo analitico del problema dell’inquinamento dei fondali del (OMISSIS), sul quale si concentra la prima parte del ricorso del MATTM. Sul punto, la sentenza impugnata ha assunto a supporto le relazioni dei c.t.u. nominati (in particolare quella dell’ing. D.M. redatta nel 2016) ed ha innanzitutto affermato che la situazione dei luoghi verificata in corso di causa era da ritenere migliore rispetto a quella esistente nel 1991. Sulla base di tale premessa, la Corte di merito ha definito “impraticabile ed irresponsabile” la scelta di una riparazione primaria attraverso il dragaggio dei fondali del lago. Tale intervento, che la Corte ha ritenuto come puramente teorico, è stato escluso sia perchè praticamente impossibile sia perchè il ripristino naturale in corso di svolgimento già da molti anni è stato considerato preferibile, stante l’assenza di un rischio ecologico concreto. Non a caso la sentenza, richiamando le conclusioni del c.t.u., ha incisivamente affermato che il sistema del (OMISSIS) e (OMISSIS) “sta bene e non occorre una misura di riparazione primaria aggiuntiva rispetto al ripristino naturale adeguatamente monitorato”.

La sentenza ha poi aggiunto che il recupero naturale “è sicuramente preferibile all’intervento di dragaggio”, perchè nel frattempo i sedimenti di DDT presenti sul fondale erano stati ricoperti da circa 15 cm di altri sedimenti depositati negli anni successivi. In sostanza, quindi, la Corte d’appello ha escluso la permanente esistenza di un danno alle acque, agli habitat naturali ed al terreno, non essendovi un rilascio di sostanze inquinanti. Per quanto riguarda poi, nello specifico, la presenza del DDT sul fondale, il Collegio osserva che quest’ultimo non costituisce un “terreno” nel senso in cui lo intende l’Allegato n. 3 al punto 2 sopra trascritto. E’ di tutta evidenza, infatti, che il fondale di un lago – e, nello specifico, di un lago così grande come il (OMISSIS) – non è un terreno sul quale si possa normalmente camminare o esercitare qualsiasi altra attività di sfruttamento. La presenza di sostanze inquinanti al di sotto di uno strato di sedimenti diversi alto circa cm 15 fa sì che quelle sostanze non siano attingibili in condizioni di normalità, per cui non possono valere per il fondale del lago le considerazioni contenute nel punto 2 dell’Allegato n. 3.

La perdurante presenza di quelle sostanze, quindi, può e deve essere apprezzata solo come possibile fonte di danno per il bene “acqua” del lago e per il relativo ecosistema. Ma a questo proposito è da rilevare che la sentenza in esame ha effettuato anche quello che potrebbe definirsi una sorta di stress-test, riconoscendo che i sedimenti di DDT ancora presenti “non sono suscettibili di liquefazione in condizioni sia statiche che dinamiche (ad esempio, piena del (OMISSIS), sisma)”. Ciò equivale a dire che anche in situazioni di grande criticità – quali appunto una piena del fiume o un terremoto – le sostanze inquinanti non sono in condizione di tornare in circolo in modo incontrollato, rovinando così il lento lavoro di riparazione che è in corso. La sentenza impugnata, cioè, ha escluso l’esistenza di un danno da riparare all’acqua e all’ecosistema perchè la presenza delle sostanze inquinanti non è dannosa allo stato attuale e non potrà, ragionevolmente, diventarlo in futuro, nemmeno per cause eccezionali quali un terremoto.

Il Collegio rileva che tale positiva evoluzione della situazione esistente non è dovuta solo alla capacità che la natura possiede di autoripararsi, perchè la Corte d’appello ha evidenziato che il miglioramento ambientale è dovuto anche alla fattiva collaborazione della società danneggìante, a carico della quale la sentenza impugnata ha posto una serie di oneri, contenuti nel P.O.B. (Progetto Operativo di Bonifica) approvato con il D.M. n. 21 ottobre 2013, destinati a protrarsi per un lungo periodo di tempo. La sentenza impugnata ha posto a carico della società Syndial “l’esecuzione della misura di riparazione primaria consistente negli interventi relativi alle acque sotterranee previsti nel POB” ora citato, nonchè le ulteriori misure compensative pure indicate nel dispositivo; senza contare, in caso di inadempimento a dette prescrizioni, la condanna al pagamento del costo dei relativi interventi, pari ad Euro 9.500.000 per le misure compensative.

In definitiva, dunque, non corrisponde al vero che la parte danneggiante sia stata esonerata da un vero e proprio risarcimento; è vero, invece, che la Corte d’appello ha compiuto una valutazione di merito, adeguatamente motivata, indicando le ragioni per le quali ha escluso di dover porre a carico della società Syndial l’obbligo di rimuovere le sostanze inquinanti dal fondale del lago tramite il dragaggio dello stesso.

Tale accertamento di merito non è sindacabile in questa sede e resiste alle censure del ricorrente.

Ne consegue che la prima parte della censura del MATTM è priva di fondamento. Ed è evidente, per quanto detto fin qui, che non vi sono ragioni per rimettere alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale che il ricorrente pone nella memoria di cui all’art. 378 c.p.c., dato che essa poggia su un presupposto di fatto l’inerzia del danneggiante che la sentenza impugnata avrebbe avallato che non risponde al caso in esame.

3.4. A conclusioni non diverse il Collegio ritiene di dover pervenire quanto alla seconda parte della censura del Ministero ricorrente (pp. 2025 del ricorso).

A questo riguardo è bene rilevare che tale doglianza contiene un evidente tentativo di sollecitare questa Corte ad un nuovo e non consentito esame di merito, com’è reso palese dal fatto che il MATTM riporta parte degli interventi che la c.t.u. ha indicato come doverosi e che la sentenza ha poi posto a carico della società Syndial. E’ chiaro, infatti, che a questa Corte è preclusa ogni possibilità di tornare ad esaminare l’opportunità di quelle misure, che il giudice di merito ha ritenuto congrue sulla base di una valutazione motivata in modo coerente e senza vizi logici.

La censura, poi, è per certi aspetti ripetitiva di quella già esaminata, nella parte in cui lamenta che la Corte d’appello, nel disporre le misure compensative indicate nel dispositivo, non avrebbe tenuto conto del fatto che esse “si riferiscono soltanto alle attività legate alla pesca, e non hanno riguardato i sedimenti, i fondali e le acque in sè considerati del (OMISSIS)”.

Tuttavia, anche in relazione alla parte in cui la censura ha una sua autonomia, il Collegio ritiene che essa non sia in grado di scardinare la motivazione della sentenza in esame.

La Corte di merito, infatti, occupandosi delle “perdite temporanee dell’intero comparto dell’ambiente acquatico” (pp. 77-79), ha premesso, facendo proprie le conclusioni del c.t.u., che l’attività di balneazione non aveva subito interruzioni e che “non vi era stata perdita di risorse idropotabili, di valori culturali e di servizi di regolazione”. Dopo di che, la sentenza ha elencato le misure compensative, ritenute ampiamente idonee a riparare le perdite subite, consistenti “nell’incremento della continuità ecologica del fiume e ripopolamento ittico delle acque con specie autoctone”, nonchè nel “miglioramento degli habitat ripariali”. In conclusione, la Corte d’appello ha ritenuto misure idonee allo scopo riparatorio quelle richiamate nel dispositivo; e rispetto a simile valutazione di idoneità la Corte non ha poteri di sindacato, nè risulta prospettabile la censura di violazione di legge, non emergendo alcuna violazione dei criteri normativi in precedenza indicati.

3.5. Nella memoria di cui all’art. 378 c.p.c., l’Avvocatura dello Stato ha richiamato, tra l’altro, la sentenza 19 luglio 2019, n. 19504, di questa Terza Sezione Civile, traendo da quella pronuncia ragioni a sostegno della propria tesi, nel senso della necessità di cassare la sentenza oggi in esame.

Osserva il Collegio che il richiamo è improprio, attesa l’evidente diversità tra il caso allora in esame e quello odierno. E’ vero, infatti, che la citata sentenza ha affermato, come sottolinea il MATTM, che la Corte d’appello non era esonerata “dall’obbligo decisorio, ex art. 112 c.p.c., di individuare e conseguentemente disporre, a carico del responsabile del danno ambientale, le altre misure di riparazione, complementare e compensativa, determinandone anche i relativi costi”. Ma è altrettanto vero che tale enunciato si è avuto in relazione ad una vicenda affatto diversa, nella quale vi era stata, tra l’altro, la stipulazione di un protocollo d’intesa tra il Ministero e la danneggiante con rinuncia alla domanda di ripristino; per cui la condanna era stata limitata al risarcimento per equivalente. Ne consegue che l’odierna pronuncia non è affatto dissonante rispetto alla precedente, data l’evidente diversità tra i due casi.

3.6. Per tutte le ragioni esposte, dunque, il ricorso principale è rigettato.

Ricorsi incidentali condizionati.

4. Il rigetto del ricorso principale esime la Corte dall’obbligo di scrutinare i due ricorsi incidentali che, in quanto proposti in via condizionata, rimangono assorbiti.

5. In conclusione, è rigettato il ricorso principale, con assorbimento dei due ricorsi incidentali condizionati.

La complessità, delicatezza e parziale novità delle questioni affrontate, unite agli esiti non conformi dei due giudizi di merito, impongono l’integrale compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

Non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, essendo il MATTM una parte pubblica.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, con assorbimento dei due ricorsi incidentali condizionati, e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 29 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2021

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