Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18810 del 12/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 12/07/2019, (ud. 13/03/2019, dep. 12/07/2019), n.18810

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24886-2017 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO

GRAMSCI 14, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO HERNANDEZ, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO CELLAROSI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia

ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 121/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 21/04/2017 R.G.N. 565/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/03/2019 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ STEFANO, che ha concluso per inammissibilità o rigetto del

ricorso;

udito l’Avvocato FEDERICO HERNANDEZ.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A.A., dopo aver vinto il concorso da dirigente scolastico, è stata destinata, all’inizio dell’anno 2012/2013, all’Istituto Comprensivo di (OMISSIS). Nel corso dell’anno di prova la predetta, in stato di gravidanza, ha goduto anche del periodo di astensione obbligatoria e di alcuni periodi di astensione facoltativa; infine, all’incirca allo scadere dell’anno scolastico, il Ministero dell’Istruzione è receduto dal rapporto per mancato superamento della prova.

Avverso tale recesso la A. ha proposto impugnativa giudiziale volta a far accertare il positivo superamento del periodo di prova, insistendo in subordine per la declaratoria di illegittimità del recesso, anche perchè discriminatorio e chiedendo in ulteriore subordine che fosse disposto il rinnovo del periodo di prova per un ulteriore anno.

Tale impugnativa è stata respinta in primo grado, con pronuncia confermata in secondo grado dalla Corte d’Appello di Bologna, la cui sentenza è oggetto del presente ricorso per cassazione.

2. La Corte territoriale ha conclusivamente ritenuto, nel rigettare l’appello, che la valutazione integrata degli elementi probatori disponibili inducesse ad affermare che la ricorrente non avesse assolto all’onere probatorio su di lei gravante. In particolare, la motivazione della sentenza, pur menzionando anche altri elementi a carico della ricorrente, nella valutazione di sintesi delle risultanze istruttorie, valorizzava le frizioni esistenti nei rapporti con il Comune, desumibile da alcuni passaggi della relazione ispettiva, la conflittualità esistente in Consiglio di Istituto nei suoi riguardi, culminata con le dimissioni dell’intera componente dei genitori e la sottoscrizione di documenti di censura nei suoi confronti da parte di docenti della scuola. Aggiungeva la Corte di merito che, in senso contrario, non valeva il fatto che la relazione ispettiva si concludesse con la proposta di assegnazione ad un nuovo incarico e di un prolungamento del periodo di prova ai fini della valutazione dei risultati raggiunti, in quanto il fatto stesso che l’ispettore non potesse concludere in senso positivo, stava a significare che la valutazione su quanto fino a quel momento posto in essere fosse negativa.

2.1 Ed ancora, aggiungeva la Corte, non poteva farsi leva sullo stato di gravidanza come “primipara attempata” della ricorrente, dovendosi evidenziare che alla lavoratrice era stata fatta presente la possibilità di avvalersi dell’astensione e che il certificato medico privato attestante i limiti orari e di spostamento cui la A. doveva attenersi, in realtà costituiva prova che la lavoratrice non poteva prestare, nè aveva prestato pienamente, l’attività dovuta, con comportamento che andava valutato come non legittimo, in quanto il datore non può essere costretto ad esigere una prestazione parziale, laddove la lavoratrice non faccia uso degli strumenti legalmente previsti per la tutela della maternità.

2.3 La Corte di merito sosteneva che neppure valesse obiettare, come sosteneva la ricorrente con uno dei motivi di gravame, che l’assegnazione originaria all’Istituto Comprensivo di (OMISSIS) fosse incongrua per il fatto che l’esperienza professionale della A. era maturata presso scuole di secondo grado, in quanto la lavoratrice aveva specificamente accettato tale destinazione senza riserve ed essa era stata fatta anche sulla base di situazioni di incompatibilità ambientale e disciplinare riconnesse alle pregresse docenze, che rendevano quella sede l’unica idonea ad evitare pregiudizi nei confronti della lavoratrice stessa.

2.4 Inoltre la Corte affermava che non ricorressero i presupposti per un prolungamento della prova, la quale comunque risultava essere stata svolta con servizio prestato per almeno sei mesi, come richiesto dalla normativa contrattuale collettiva.

2.5 A fronte di tutto quanto sopra la Corte riteneva assorbite le ulteriori argomentazioni svolte dalla A., tra cui quella in ordine all’asserita erronea valutazione, da parte del primo giudice, del positivo giudizio espresso dalla mentore rispetto all’attività della ricorrente, in quanto anche a fronte di un quadro probatorio non univoco non si sarebbe potuto avere per positivamente riscontrato l’effettivo superamento della prova.

2.6 Infine la Corte riteneva che nessun riscontro vi fosse negli atti di causa di una natura discriminatoria del licenziamento in ragione della condizione di gravidanza, richiamandosi ancora il fatto che il Ministero avesse immediatamente segnalato alla ricorrente la possibilità di avvalersi dell’astensione anticipata, sussistendone le condizioni come da certificazione medica citata ed il fatto che l’attribuzione della sede di (OMISSIS) era anteriore e non successiva alla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro, oltre che, in ultimo, così si esprime la sentenza impugnata, per la mancanza comunque di riscontro del positivo superamento della prova.

3. Avverso la predetta sentenza la A. ha proposto ricorso per cassazione con nove motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso del Ministero.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la ricorrente afferma la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, sul presupposto che fosse stato omesso l’esame di tutte le domande azionata in via subordinata, senza in particolare indicarsi le distinte motivazioni che ne fondavano la reiezione.

Il motivo va disatteso, in quanto la sentenza impugnata, come rileva la stessa ricorrente, nel respingere il primo motivo di appello, ha espressamente affermato che “il presupposto fondante delle ulteriori domande articolate nel presente giudizio” e quindi delle pretese avanzate in via subordinata, era “sempre l’accertamento dell’illegittimità del recesso per mancato superamento del periodo di prova”.

Ciò integra appieno una percepibile giustificazione del corrispondente rigetto, tale da impedire l’affermazione di insussistenza o apparenza – che ovviamente è cosa ben diversa dalla fondatezza – della motivazione, di cui consiste il motivo in esame.

2. Il secondo motivo censura la sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione o falsa applicazione di norme e accordi collettivi nazionali di lavoro, con particolare riferimento all’art. 14, comma 1, 2 e 3 e dell’art. 8 del c.c.n.l. 2006, sottolineandosi come il periodo di prova dovesse rimanere sospeso in caso di malattia e negli altri casi previsti dalla legge e dagli accordi collettivi, tra cui rientrava l’ipotesi della gravidanza, sicchè, eseguendo i debiti computi, ne sarebbe risultato che il requisito di sei mesi di lavoro effettivo richiesto dalla normativa collettiva quale durata minima necessaria della prova non poteva dirsi integrato.

2.1 Il motivo esprime considerazioni giuridiche corrette, ma esso risulta in concreto non accoglibile.

E’ infatti vero che i periodi di astensione per gravidanza debbano essere sottratti al fine di valutare la durata della prova, trattandosi all’evidenza di periodi nei quali non può esservi la prestazione e dunque neppure la valutazione del lavoratore e del lavoro svolto, ma la Corte d’Appello ha comunque affermato che risultava pienamente riscontrato, nel caso di specie, che vi era stato servizio “effettivamente” prestato per almeno sei mesi, misura richiesta dalla disciplina collettiva, così palesando di avere considerato solo i periodi di reale svolgimento della prestazione in prova.

Nel ricorso per cassazione la A. ricostruisce i giorni lavorati e quelli di assenza per malattia o altra causa giustificata ed espone calcoli che porterebbero ad un servizio effettivo di 175 giorni, insufficiente a colmare i previsti sei mesi.

Tuttavia tale ricostruzione risulta priva di specificità e rigorosa attinenza al processo di merito svoltosi inter partes, in quanto essa, pur risultando in sè dettagliata sotto il profilo della formulazione, non precisa in quali atti, nonchè in qual modo fossero state svolte corrispondenti deduzioni nei precedenti gradi di giudizio, così non riuscendo ad individuare se e come, nel valutare il materiale di causa, la Corte d’Appello, abbia realmente errato nel concludere che vi fosse pieno riscontro di una durata almeno semestrale del periodo di prova.

Risultano quindi violati i presupposti giuridici e di rito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, ed il principi di autonomia del ricorso per cassazione – Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308 – che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai n. 4 e 6.

3. Il terzo motivo è destinato dalla ricorrente alla denuncia della violazione (art. 360 c.p.c., n. 3), del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2, in relazione al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, ovverosia del divieto di trattamenti discriminatori in ragione dello stato di gravidanza.

Analogamente, con il quarto motivo, ancora ex art. 360 c.p.c., n. 3, si afferma la violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 5, c.c.n.l. 2006, anche in relazione al disposto di Corte Costituzionale 172/1996 ed al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, ora D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2, rilevandosi come il recesso in prova, per previsione della contrattazione collettiva (il citato art. 14) e per specificità della situazione di gravidanza, valorizzata dalla menzionata sentenza della Consulta, dovesse essere motivato; con motivazione – aggiunge la ricorrente – che deve attingere a ragioni specifiche diverse da quelle dello stato di gravidanza, profilo su cui la Corte di merito avrebbe erroneamente argomentato, nella parte in cui essa ha escluso ontologicamente ogni problematica derivante dalla gravidanza per quelle donne che non chiedano ed ottengano l’astensione anticipata per gravidanza a rischio.

Ragioni logiche consigliano altresì di trattare in questa sede anche il nono motivo di ricorso, con cui la A. sostiene, richiamando l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, che la Corte avrebbe violato la L. n. 300 del 1970, art. 15 e/o D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, ora D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2-bis illegittimamente non ravvisando la nullità del provvedimento di recesso per ragioni discriminatorie ovvero per motivo illecito ex art. 1345 c.c.. La ricorrente sostiene in proposito che nel caso di specie fossero emersi plurimi elementi idonei a dimostrare che lo stato di gravidanza aveva avuto diretto effetto causale sulla decisione della P.A. di recedere in esito alla prova, dovendosi considerare che, a fronte di un trattamento deteriore, spettava al datore di lavoro dimostrare l’insussistenza oggettiva della discriminazione ed affermandosi altresì che “la consistenza degli elementi documentali a supporto del positivo superamento della prova” farebbe ritenere assolto l’onere probatorio del motivo illecito determinate posto a carico del lavoratore che adduca la nullità in tal senso.

3.1 I predetti motivi, tra loro connessi dai profili che attengono allo stato di gravidanza della ricorrente, vanno esaminati congiuntamente e non sono fondati.

3.2 Per un verso, la questione sulla sussistenza, sufficienza o idoneità della motivazione datoriale del recesso è mal posta, in quanto essa è formulata senza la trascrizione del relativo provvedimento in modo tale da rendere specifica rispetto al caso di specie, e dunque pregnante, la censura sollevata. Ciò in violazione ancora dei parametri di specificità dettati dall’art. 366 c.p.c., comma 1, e di cui si è già sopra detto.

3.3 Venendo alla motivazione sul recesso adottata invece nella sentenza impugnata non vi è dubbio che essa, dal punto di vista giuridico e nella parte in cui accenna al tema della gravidanza, vada rivista.

Non è infatti corretto affermare, come fa la Corte felsinea, che la certificazione medica in ordine alle necessità di cautela nello svolgimento della prestazione da parte della A. dimostrerebbe che la lavoratrice non aveva prestato pienamente la propria attività quale Dirigente Scolastico e che al Ministero non avrebbe potuto imporsi di ricevere una prestazione parziale, ove la lavoratrice stessa non avesse fatto uso degli strumenti legalmente previsti per la tutela maternità, riducendo però al contempo il proprio apporto.

La Corte territoriale muove da impliciti ed erronei presupposti, tali per cui l’astensione dal lavoro in ragione della gravidanza sarebbe facoltà discrezionale della lavoratrice e che il datore di lavoro, al quale pure siano note le cautele che dal punto di vista medico siano necessarie rispetto ad una data lavoratrice, sia sgravato, una volta “segnalata alla lavoratrice la possibilità di avvalersi dell’istituto dell’astensione anticipata”, dal governare secondo modalità acconce e consequenziali le prestazioni che la lavoratrice ciononostante si offra di svolgere.

3.2 Così certamente non è, in quanto la necessità di astenersi dal lavoro per pericolosità dello stesso dipende da fattori oggettivi, che impongono di provvedere in tal senso anche d’ufficio nel corso dell’attività di vigilanza (D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 17, comma 3) e non soltanto da una mera iniziativa della lavoratrice interessata; mentre il lavoro, in assenza di tali più gravi presupposti e nei limiti della c.d. astensione obbligatoria, può legittimamente essere proseguito, senza che ciò esima però il datore dal consentire dl svolgere la prestazione secondo modalità coerenti con la condizione della donna e ciò per evidenti ragioni di tutela della dignità del lavoratore ed ancor più della lavoratrice in gravidanza (art. 2 Cost., art. 31 Cost., comma 2 e art. 35 Cost.).

Esigenze che anche la Consulta ha tenuto presenti allorquando, nel ritenere che il recesso datoriale per mancato superamento della prova potesse aversi anche rispetto a lavoratrice in gravidanza (Corte Costituzionale 31 maggio 1996, n. 172), ha espressamente aggiunto che ciò debba accompagnarsi con la motivazione delle ragioni che giustifichino la valutazione negativa della prova, richiamando l’esigenza di maggior tutela dei lavoratori che si trovino in condizioni fisiche e sociali di maggiore debolezza ed al fine di consentire di escludere comunque che alla radice del recesso vi sia appunto, per qualsiasi ragione, la condizione di gravidanza della donna.

3.4 Tuttavia, il motivo non può trovare accoglimento, in quanto esso non è corredato da elementi concreti che facciano percepire in che cosa sarebbe consistita, nel caso di specie, la discriminazione, ovverosia in qual modo le condizioni fisiche della A. abbiano influito, in senso determinante, sull’insieme di fattori negativi di valutazione della prestazione resa che sono stati valorizzati dalla Corte territoriale nel confermare la legittimità del recesso datoriale.

Non è in effetti sufficiente ravvisare un difetto giuridico nell’argomentazione della sentenza impugnata, in quanto la necessaria pregnanza dell’impugnativa impone di verificare altresì se il profilo mal valutato sia tale, tenuto conto della motivazione nel suo complesso, da incidere, una volta rettificato l’errore di diritto, sulla decisione della causa, tenuto delle circostanze su cui esso si fonda (arg. ex art. 384 c.p.c., u.c.).

Nella sentenza impugnata, come già ricordato, gli elementi ostativi ad un apprezzamento positivo del periodo di prova sono stati infine sintetizzati in una “valutazione integrata” – così si esprime la Corte di merito – dei dati istruttori, tale da far emergere il maturare, in tale periodo, di un conflitto relazionale e metodologico della A. con le altre autorità amministrative locali, con il complesso dei docenti e con la componente genitori del Consiglio di Istituto.

Resta in proposito insondabile, anche a voler in via di mera ipotesi valorizzare il fatto dedotto dalla A. che la destinazione ad (OMISSIS) fosse disagevole per un donna in gravidanza, perchè e come gli elementi di conflittualità creatisi, su cui infine si concentra la ratio decidendi, potessero essere sovvertiti o anche solo influenzati dalla considerazione dello stato di gravidanza che, rispetto al maturare delle predette situazioni di conflitto, in sè appare del tutto privo di qualsiasi nesso logico; nè la ricorrente fornisce puntuali argomentazioni in proposito.

3.5 Infine anche le difese attinenti alla nullità del recesso per essere stato indotto da un motivo illecito determinante (art. 1345 c.c.) sono palesemente generiche in quanto non specificano neppure quando e come la corrispondente domanda fosse stata proposta e coltivata nei gradi di merito (carenza che è in sè tale da rendere il motivo inammissibile: Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675) e sono altresì formulate, sull’affermato presupposto di una pregiudiziale ostilità verso la ricorrente, nel cui quadro viene riletto tutto l’accaduto, in termini finalizzati essenzialmente a sollecitare un riesame di merito della vicenda, certamente estraneo alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148).

4. Con il quinto motivo la A. denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, menzionando l’erronea valutazione delle risultanze dell’ispezione svolta sull’operato della A., l’erronea valutazione della relazione finale del “mentor”, l’omesso esame del rapporto di autovalutazione redatto dalla ricorrente e l’omessa valutazione del provvedimento con cui alla A. era stata attribuita la c.d. retribuzione di risultato.

4.1. Il motivo è inammissibile, in quanto anche con esso si propone la rivalutazione di una pluralità di elementi istruttori e dunque un’attività tipicamente destinata al giudice del merito.

L’affastellarsi di deduzioni su erronee od omesse valutazioni di documenti (in sè del tutto estranee al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5 quale applicabile ratione temporis nel testo attualmente vigente e riguardante l’omesso esame di fatti storici) e su omesso esame di circostanze (ad es. la questione sul pagamento, dopo il recesso, della retribuzione di risultato in misura piena) rende insondabile il requisito di decisività richiesto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, risultando così non superabile, da tale coacervo di deduzioni, l’affermazione di sintesi della Corte territoriale (tra l’altro tale da non escludere che ad es. la questione sul premio di risultato sia parimenti da considerare in essa assorbita) secondo cui l’esito non univoco delle risultanze probatorie, ivi compreso il parere dell’ispettore e quello della mentore, coesistenti con “disagi, conflittualità e mancanza imputabili anche alla lavoratrice”, impediva di riconoscere come assolto l’onere probatorio di positivo superamento della prova.

5. Con il sesto motivo la ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe violato il D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 439 che attribuisce alla P.A. la facoltà di concedere la proroga della prova per un altro anno scolastico al fine di acquisire maggiori elementi di valutazione, norma che sarebbe da intendersi nel senso per cui, in casi controversi, dovrebbe privilegiarsi la necessità di ulteriori approfondimenti.

Il settimo motivo, nella stessa linea, afferma la violazione dell’art. 438, comma 4 medesimo D.Lgs., perchè la sentenza difettava di motivazione rispetto al parere dell’ispettore incaricato di acquisire elementi in proposito, la cui valutazione si era conclusa nel senso che sussisteva l’opportunità di dare corso ad un ulteriore anno di approfondimento presso altra sede.

5.1 Anche tali motivi, sempre rubricati sub art. 360 c.p.c., n. 3 sono da esaminare nel loro insieme perchè tra loro intrinsecamente connessi e vanno disattesi.

5.2 La Corte distrettuale afferma che la proroga sarebbe stata esclusa, una volta certo (come si è già detto) che fosse stato prestato servizio di almeno sei mesi effettivi, dal disposto dell’art. 14, comma 8 c.c.n.l. 2010.

Rispetto a tale affermazione i motivi (a parte quanto già si è detto al punto 2.1 rispetto al superamento del necessario periodo di sei mesi) non prendono posizione, con particolare riferimento al rapporto tra la norma collettiva e le disposizioni di legge, sicchè la ratio decidendi ne resta in sè intatta ed intangibile.

D’altra parte, guardando alle disposizioni di legge, è assolutamente palese che l’art. 439 rimette alla discrezionalità datoriale la scelta, in caso di esito sfavorevole della prova, tra dispensa dal:servizio/restituzione al ruolo di provenienza e proroga di un altro anno, con scelta che, allorquando la P.A. ritenga di avere elementi sufficienti per una valutazione dell’idoneità del lavoratore, può essere sindacata solo per ragioni di legittimità o divergenza dal vero di quanto ritenuto dal datore: ma, come si è già detto al punto 4.1 le ragioni di ricorso incentrate sulla motivazione sono inammissibili e, per altro verso, il quadro probatorio raccolto non ha consentito al giudice del merito, con valutazione non implausibile e che ha espressamente menzionato e quindi considerato (lo si dice rispetto al settimo motivo) anche la proposta dell’ispettore di dare corso ad un ulteriore anno di prova, di concludere per la sussistenza di elementi sufficienti per far affermare l’avvenuto superamento della prova stessa.

6. L’ottavo motivo si incentra sulla asserita violazione (art. 360 c.p.c., n. 3) dell’art. 9 c.c.n.l. e sulla nullità (art. 360 c.p.c., n. 4) della sentenza per non esservi stata pronuncia sulla corrispondente questione, sollecitata con l’appello, inerente la possibilità di destinare la ricorrente ad altro incarico in costanza del periodo di prova.

6.1. Il motivo è inammissibile.

6.2. Vale infatti anche qui il principio già sopra menzionato, per cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare genericamente l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del ricorso stesso (secondo i presupposti giuridici e di rito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, ed il principi di autonomia del ricorso per cassazione – Cass., 11308/2014, cit. – che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai n. 4 e 6) di trascrivere, come non è avvenuto, i passaggi attraverso cui il profilo sarebbe stato proposto e coltivato nei gradi di merito.

7. Il ricorso va quindi integralmente rigettato, con regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per onorari ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2019

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