Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18803 del 10/09/2020

Cassazione civile sez. I, 10/09/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 10/09/2020), n.18803

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. VANNUCI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7932-2019 proposto da:

D.B.P., rappresentata e difesa dall’avvocato CONSUELO FEROCI,

e domiciliata presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BARI depositato il 05/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/07/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La ricorrente, cittadina (OMISSIS), proponeva ricorso avverso il provvedimento di diniego emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bari. Con il decreto impugnato il Tribunale di Bari rigettava il ricorso. Propone ricorso per la cassazione di detta decisione D.P. affidandosi a due motivi.

Il Ministero dell’Interno, intimato, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della Convenzione di Ginevra, ratificata dalla L. n. 722 del 1954, della Direttiva 2004/83/CE e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8 e 14 con cui detta Direttiva è stata attuata in Italia, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente denegato il riconoscimento della protezione internazionale, nelle due forme dello status e della tutela sussidiaria, senza apprezzare correttamente la società (OMISSIS), con particolare riferimento alla condizione delle donne. La ricorrente aveva infatti dedotto di esser stata segregata in casa dal proprio compagno, rivelatosi violento dopo l’inizio della convivenza, e di aver subito insulti, violenze e minacce, rispetto alle quali non aveva ricevuto tutela dalla Polizia nonostante la denuncia, fino alla sua fuga verso l’Italia, ove viveva la sorella. Inoltre, la ricorrente lamenta di non esser mai stata sentita dal giudice di merito, nonostante ne avesse fatto esplicita richiesta.

La censura è fondata.

Dal decreto impugnato risulta che il Tribunale di Bari ha inquadrato la vicenda narrata dalla D. sub specie di “… un mero conflitto di carattere privatistico, al più sfociato in minacce o in fatti di violenza privata del tutto estranei al regime della protezione internazionale, non essendovi alcuna ragione per escludere che le autorità competenti in patria siano in grado di assicurare adeguata tutela. Invero, dalle fonti emerge infatti una reazione delle autorità contro i casi di violenza domestica, tant’è che sono aumentate le denunce di violenza domestica… Non risulta peraltro che la denuncia alla Polizia sia stata effettivamente sporta dalla ricorrente dopo le gravi percosse subite, da cui scaturì altresì financo un ricovero ospedaliero; e ciò in quanto essa richiedente abbia dichiarato subito alla Commissione che intendeva provvedere alla produzione del documento in parola già in sede amministrativa. Ebbene, la mancanza di tale documento e l’assenza di spiegazioni a riguardo inficiano ulteriormente l’attendibilità del racconto” (cfr. pagg. 2 e 3 del decreto).

Tale passaggio motivazionale va posto in relazione con quello, precedente, con il quale il giudice di merito afferma “… l’irrilevanza dell’audizione diretta dell’istante, la quale ha prodotto in causa il verbale delle articolate dichiarazioni rese dinanzi alla Commissione territoriale, sufficientemente ampie e adeguatamente illustrative dei motivi dell’invocata protezione” (cfr. pagg. 1 e 2 del decreto).

Le due affermazioni si pongono tra loro in rapporto di irriducibile contrasto logico, poichè il giudice di merito ha dapprima ritenuto superflua l’audizione diretta della D. sul presupposto – in sè, peraltro, erroneo – che il verbale della deposizione dinanzi alla Commissione fosse sufficiente, e subito dopo ha valorizzato, ai fini del giudizio di non credibilità del racconto, l’assenza di spiegazioni circa la mancata produzione agli atti del giudizio della copia della denuncia sporta in patria; spiegazioni, tuttavia, che proprio la perentorietà della prima affermazione (circa la superfluità dell’ascolto diretto della parte) aveva in concreto reso impossibili.

Sul punto va considerato che il verbale dell’audizione svoltasi in sede amministrativa deve sempre, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 8 essere messo a disposizione dell’Autorità giudiziaria, a cura della Commissione territoriale che ha adottato il provvedimento impugnato dal richiedente la protezione. In aggiunta, i commi 10 ed 11 del richiamato art. 35-bis prevedono la necessaria fissazione dell’udienza di comparizione, inter alia, quando la videoregistrazione del primo colloquio non sia disponibile. Se ne ricava che il verbale riassuntivo dell’audizione tenutasi innanzi la Commissione territoriale non può in ogni caso costituire l’unico elemento in base al quale il giudice di merito, in assenza di videoregistrazione di quel primo colloquio, decida di soprassedere alla nuova audizione del richiedente. La valutazione sulla credibilità della storia personale riferita dal richiedente la protezione, infatti, è fondata su un giudizio di verosimiglianza nel quale assumono rilievo centrale le modalità con cui, in concreto, viene narrato il racconto; di conseguenza, la ratio della norma che impone la fissazione dell’udienza in ogni caso in cui non sia disponibile la videoregistrazione del colloquio svoltosi in sede amministrativa va ricercata nell’esigenza di consentire l’effettivo incontro tra richiedente e giudice, al fine di assicurare al primo la facoltà di svolgere pienamente il diritto al contraddittorio ed al secondo la possibilità di esercitare, in concreto, il potere-dovere di cooperazione istruttoria. Nel caso di specie, la ricorrente ha dedotto di aver tempestivamente richiesto di essere sentita (cfr. pag.26 del ricorso), confermando in tal modo la propria disponibilità a chiarire la storia personale riferita già in occasione del colloquio svoltosi nella fase amministrativa.

Il profilo di irriducibile contrasto logico esistente tra i due passaggi della motivazione richiamati in precedenza non è superato, ma anzi è accentuato, dalla successiva affermazione, contenuta a pag.3 del decreto impugnato, secondo cui sarebbe “… inverosimile che la Polizia sia rimasta inerte solo per via dei pettegolezzi che il fidanzato avrebbe fatto circolare e, sotto altro profilo, si mostra ancora più inverosimile la circostanza che il fidanzato non sia stato neppure destinatario di una denuncia dopo che aveva tentato (seguendo sempre il filo della narrazione) di incendiare la casa della zia della ricorrente”. Con questo percorso argomentativo, infatti, il giudice di merito finisce per inferire la non verosimiglianza del racconto da considerazioni astratte che non presentano alcun aggancio alla storia in concreto narrata dalla D.. Quest’ultima, infatti, aveva riferito un contesto di violenza domestica, che almeno in apparenza meritava di essere considerato grave, alla luce dell’entità delle lesioni subite dalla ricorrente e dall’oggettiva rilevanza del tentato incendio della casa della zia. In simile quadro il comportamento della polizia meritava di essere apprezzato con riferimento al caso specifico, e non in termini astratti e teorici: occorreva, in altri termini, verificare se effettivamente la ricorrente avesse sporto denuncia per l’aggressione subita e quale fosse stata la risposta delle autorità (OMISSIS), allo scopo di verificare se vi fosse stata inerzia di fronte alla condotta denigratoria del responsabile della violenza, posto che la denigrazione costituisce, in molti casi, uno dei sistemi in cui la violenza di genere è in concreto esercitata. Solo all’esito di tali ineludibili verifiche di fatto il giudice di merito avrebbe potuto procedere a valutazioni presuntive, poichè in assenza dei predetti elementi il ricorso al criterio della verosimiglianza finisce per trasferire il giudizio di attendibilità della storia dal piano della concretezza a quello del ragionamento meramente astratto e ipotetico.

In presenza di elementi certi che evidenziavano un contesto grave di violenza domestica (le lesioni gravi, documentate dal referto ospedaliero; il tentato incendio della casa della zia; le reiterazione delle fughe della D., una prima volta in patria, presso la zia, ed una seconda in Italia, presso la sorella; la denigrazione posta in essere dal fidanzato, responsabile della condotta violenta) ed in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltisi in sede amministrativa, il giudice di merito avrebbe dovuto procedere all’ascolto diretto della D., al fine di consentirle di fornire gli opportuni chiarimenti su un racconto che si caratterizzava per i suoi aspetti di sinistra attualità e che avrebbe pertanto dovuto destare un particolare allarme, o comunque svolgere gli approfondimenti istruttori ritenuti opportuni per assicurare la completa verifica della veridicità della storia riferita dalla richiedente.

Sotto questo profilo, è necessario sottolineare che la violenza di genere non può mai essere ridotta a fatto meramente privato, come invece fa il giudice di merito (cfr. pag.2 della decisione impugnata), posto che essa è una delle fattispecie espressamente previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato (cfr. in particolare lett. a), che contempla gli “atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale”e lett. f), che si riferisce invece agli “atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia”).

La motivazione complessivamente resa dal Tribunale di Bari, invece di esaminare, come avrebbe dovuto fare, i termini concreti della vicenda riferita dalla D. per verificarne la fondatezza e la veridicità, finisce per screditare a priori la vicenda stessa senza approfondirne adeguatamente gli elementi di fatto, ed appare inoltre incentrata su affermazioni tra loro inconciliabili. Essa, quindi, si dimostra meramente apparente e, come tale, non idonea a sostenere la decisione assunta dal giudice di merito, posto che costituisce anomalia motivazionale denunciabile in cassazione, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza stessa della motivazione – intesa come parte essenziale della decisione – non soltanto la mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, ma anche la motivazione apparente, il contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e la motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (sul punto, Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Il secondo motivo, con il quale la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 perchè il giudice di merito avrebbe erroneamente escluso anche la protezione umanitaria, è assorbito dall’accoglimento della prima doglianza.

In definitiva, va accolto il primo motivo e dichiarato assorbito il secondo; il decreto impugnato va di conseguenza cassato in relazione alla censura accolta e la causa rinviata al Tribunale di Bari, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Nel riesame devolutogli, il giudice del rinvio avrà cura di attenersi al seguente principio di diritto: “La violenza di genere, al pari di quella contro l’infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del “fatto meramente privato”, poichè essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli “atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale” (cfr. lett. a), che con riguardo, in generale, agli “atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia” (cfr. lett. f)”.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo motivo e dichiara assorbito il secondo. Cassa il decreto impugnato in relazione alla censura accolta e rinvia la causa al Tribunale di Bari, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2020

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